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Il gabbiano (tradotto): versione filologica per il teatro
By Čechov
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Quando si traduce si fanno necessariamente delle scelte, perché non si può tradurre tutto in modo ottimale. Nel caso specifico, quando il testo della traduzione è destinato alla recitazione, tutte le battute devono avere come dominante la recitabilità, la pronunciabilità, la plausibilità della frase. Sono considerazioni che fa in primo luogo l’autore, e che il traduttore deve fare proprie. Fermo restando che un testo del 1896 non ha di solito lo stesso registro e lo stesso lessico di un testo del 2022, le frasi devono suonare verosimili in bocca a chi le pronuncia.
Questa è stata la nostra preoccupazione principale traducendo il capolavoro di Čechov. L’altra dominante è stata il rigore filologico. Quando si traduce un gigante, non solo letterario ma anche filosofico e umano, bisogna mettere da parte – se necessario: con Čechov a noi è successo molto di rado – il proprio gusto personale e lasciar emergere quanto possibile la poetica dell’originale. La tragedia (non si capisce perché l’autore la definisca «commedia») ruota intorno alla figura di una donna affetta da disturbo istrionico della personalità, Arkàdina. Come è tipico delle persone così, è molto egoriferita e le importa assai poco di chi le sta intorno. Figlio, amante, fattore, servitù, amici di famiglia vanno bene purché la adorino come fa il suo pubblico (è attrice) e non infrangano il suo delirio di autoadorazione. Ne fa le spese in primo luogo il figlio, Treplëv, che pur di apparire interessante agli occhi della madre scende nel terreno di lei – il teatro – e scrive un dramma che mette in scena nel giardino di casa, ma non riesce a sopportare la reazione maleducata e irrispettosa della madre stessa durante la rappresentazione e interrompe la rappresentazione. Si noti che il figlio decide di farsi drammaturgo per motivi esclusivamente edipici, perché capisce che sarebbe l’unico modo per attirare l’attenzione della madre. E questo corteggiamento infausto continua per tutta la durata dell’opera. L’inutilità della vita e l’insensatezza e la stupidità della morte sembrano simboleggiate dal gabbiano che Treplëv uccide senza motivo e depone ai piedi della sua amata Nina, l’attrice che gli fa da complice e collaboratrice nella recitazione del dramma iniziale. Ma nemmeno Nina riesce a capire cosa significa il cadavere del gabbiano steso ai suoi piedi, si sente imbarazzata per non capirlo e nel contempo le sembra che questo giovane viziato si prenda un po’ troppe libertà sottoponendola quasi a un test in cui le chiede di capire il senso simbolico del gabbiano morto.
Nina andrà avanti fino alla fine a dire come un disco rotto «Io sono un gabbiano», senza rendersi conto che in realtà il gabbiano è Treplëv, perché è bello ma improduttivo, simbolico ma inconsistente, leggiadro ma infelice. E, in fondo, della sua morte non importa nulla a nessuno.
Il pubblico di Čechov soffre per come Arkàdina riesca a godersi la vita a dispetto di tutti i drammi – in parte causati da lei – che le strisciano attorno, soffre per come Nina si rovini la vita innamorandosi dello scrittore vecchio e famoso che la “usa” e la “getta”, rifiutando caparbiamente l’amore sincero e innocuamente morboso dell’aspirante drammaturgo che ha più o meno la sua età. Un altro motivo esistenziale ed etico che pervade la tragedia è quello della fortuna letteraria. Trigórin è uno scrittore di successo. Scrivere gli riesce facile. Ma in fondo è la versione maschile della sua amante Arkàdina.
Questa è stata la nostra preoccupazione principale traducendo il capolavoro di Čechov. L’altra dominante è stata il rigore filologico. Quando si traduce un gigante, non solo letterario ma anche filosofico e umano, bisogna mettere da parte – se necessario: con Čechov a noi è successo molto di rado – il proprio gusto personale e lasciar emergere quanto possibile la poetica dell’originale. La tragedia (non si capisce perché l’autore la definisca «commedia») ruota intorno alla figura di una donna affetta da disturbo istrionico della personalità, Arkàdina. Come è tipico delle persone così, è molto egoriferita e le importa assai poco di chi le sta intorno. Figlio, amante, fattore, servitù, amici di famiglia vanno bene purché la adorino come fa il suo pubblico (è attrice) e non infrangano il suo delirio di autoadorazione. Ne fa le spese in primo luogo il figlio, Treplëv, che pur di apparire interessante agli occhi della madre scende nel terreno di lei – il teatro – e scrive un dramma che mette in scena nel giardino di casa, ma non riesce a sopportare la reazione maleducata e irrispettosa della madre stessa durante la rappresentazione e interrompe la rappresentazione. Si noti che il figlio decide di farsi drammaturgo per motivi esclusivamente edipici, perché capisce che sarebbe l’unico modo per attirare l’attenzione della madre. E questo corteggiamento infausto continua per tutta la durata dell’opera. L’inutilità della vita e l’insensatezza e la stupidità della morte sembrano simboleggiate dal gabbiano che Treplëv uccide senza motivo e depone ai piedi della sua amata Nina, l’attrice che gli fa da complice e collaboratrice nella recitazione del dramma iniziale. Ma nemmeno Nina riesce a capire cosa significa il cadavere del gabbiano steso ai suoi piedi, si sente imbarazzata per non capirlo e nel contempo le sembra che questo giovane viziato si prenda un po’ troppe libertà sottoponendola quasi a un test in cui le chiede di capire il senso simbolico del gabbiano morto.
Nina andrà avanti fino alla fine a dire come un disco rotto «Io sono un gabbiano», senza rendersi conto che in realtà il gabbiano è Treplëv, perché è bello ma improduttivo, simbolico ma inconsistente, leggiadro ma infelice. E, in fondo, della sua morte non importa nulla a nessuno.
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