Il peposo di Mastro Filippo
By Nino Filastò
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Il peposo di Mastro Filippo - Nino Filastò
Il peposo di Mastro Filippo
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 2003, 2022 Nino Filastò and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728175156
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
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A James Beck (Jimmy), professore di storia dell’arte della Columbia University di New York, alla sua amicizia, al suo entusiasmo, alla sua prodigalità - di consigli e di precisazioni - la narrazione fantastica che segue deve molto.
Ringrazio anche Fabio Picchi, chef e proprietario del ristorante "Il Cibreo" di Firenze.
A lui sono debitore dell’ipotesi originalissima sulla funzione delle cosiddette buche pontaie che si trovano sparse sulle pareti della Cupola di Santa Maria del Fiore.
I
Maestro Filippo Brunelleschi stava leggendo il Prologo nel trattato Della Pittura di Leon Battista Alberti che l’autore gli aveva fatto pervenire nella versione in volgare.
L’amico Alberti gli rendeva un omaggio dispendioso. La copia in volgare era destinata soltanto all’amico Pippo, il quale non leggeva il latino. Con questa versione, Alberti vi aveva impiegato anche la spesa della carta, l’amico gli faceva sapere in quale conto lo tenesse.
L’Autore sperava, come diceva la lettera unita al manoscritto, che la copia circolasse fra l’accolita di amici scelti che si riunivano di tanto in tanto per discutere sulle cose dell’arte, quando il tempo tiranno consentiva loro di distogliersi dalle rispettive opere. Il che avveniva di rado, pensava mestamente Filippo, molto più di rado di quanto egli avrebbe desiderato.
Era nato nella ristretta cerchia di amici un vero affetto, nutrito dalla consapevolezza di trovarsi sulla cresta dell’onda, e dalla convergenza di idee e di propositi. Tutto questo si leggeva nelle righe del prologo: Io solea meravigliarmi insieme e dolermi che tante ottime e divine arti e scienze, quali per loro opere e per istorie veggiamo copiose erano in que’ vertuosissimi passati antiqui, ora così siano mancate quasi in tutto perdute: pittori, scultori, architetti, musici, ieometri, retorici, auguri e simili nobilissimi e maravigliosi intelletti oggi si truovano rarissimi e poco da lodarli. Onde stimai fusse, quanto da molti così essere udiva, che già la natura, maestra delle cose, fatta antica e stracca, più non producea come né giuganti così né ingegni, quali in que’ suoi quasi giovinili e più gloriosi tempi produsse, amplissimi e maravigliosi. Ma poi che io dal lungo essilio in quale siamo noi Alberti invecchiati, qui fui in questa nostra sopra l’altre ornatissima patria ridutto, compresi in molti, ma prima in te, Filippo, e in quel nostro amicissimo Donato scultore e in quegli altri Nencio e Luca e Masaccio, essere a ogni lodata cosa ingegno da non posporli a qual sia stato antiquo e famoso in queste arti. Pertanto m’avidi in nostra industria e diligenza non meno che in beneficio della natura e dei tempi stare il potere acquistarsi ogni laude di qual si sia virtù.
¹
Dunque Alberti affermava che la vertuosissima antichità aveva visto un gran numero di pittori, scultori, architetti, musici, geometri, rètori, indovini. Nell’epoca attuale invece di questi uomini valenti ne nascevano in numero molto inferiore, come se il passaggio del tempo avesse stancato la natura, facendola divenire in qualche modo sterile. Tuttavia si sentiva racconsolato, l’amico Alberti, per il fatto che a Firenze, dacché lui vi era ritornato dal lungo esilio, cui era stata costretta la sua antica e nobile famiglia, per ragioni che restavano in parte oscure, legate com’erano all’ambiguo mondo settario dei fiorentini, aveva ritrovato artisti - come lui, appunto, Filippo Brunelleschi, e lo scultore Donatello, e il pittore Masaccio - così diligenti e degni di ogni lode da non essere secondi agli artisti antichi.
– Giuste parole! – esclamò intimamente il Maestro.
– È vero e sacrosanto che non abbiamo nulla da invidiare agli antichi, noialtri. Benché meritarsi ogni lode per le nostre opere, potendo contare solo sul talento e sulla diligenza, sia per noi tanto più difficile, quanto sono immiseriti i tempi, e divenuti stracchi e perigliosi.
Pensò a quanta diligenza gli era occorsa per vincere il concorso e ottenere l’incarico, e poi procedere felicemente nell’opera che stava intraprendendo. E le Cassandre malevoli che s’erano levate a vaticinare che invece di alzarsi al cielo la costruzione sarebbe crollata come un castello di carte! E quanto aveva dovuto brigare perché soltanto a lui, alla fine, fosse affidata la direzione dei lavori, senza dover condividere il compito con altri!
E quanta astuzia, e parole sussurrate qua e là, e danari lasciati cadere nelle mani giuste, e persino azioni ancor più riprovevoli erano occorse affinché dall’opera fosse allontanato, con l’affidargli la Repubblica un compito di natura solo formale e quasi burocratico, l’eterno rivale, quel Ghiberti che fino alla fine gli aveva conteso l’onore e la gloria dell’incarico.
L’arte non era solo questione di genio e d’illuminazione quasiché divina. Dopo la luce di Dio, veniva il tempo degli uomini, come dire della politica, un’arte necessaria anch’essa, benché spesso non netta, bensì imbrattata dai garbugli, dai giochi sotterranei, dalla potenza del danaro.
Filippo ben conosceva la parsimonia dei suoi concittadini. L’avarizia, - superbia, invidia ed avarizia² - era uno dei tre vizi capitali più comuni nella bella Florentia, così diceva il grande Padre esiliato dalla patria.
Sull’ultimo dei tre, forse il più praticato, che le pitture di un tempo passato mostravano in forma di vecchia megera, adunca di mani e di naso, vestita di stracci, egli aveva fatto assegnamento affinché il suo progetto fosse scelto dai Signori dell’Arte della Lana. Risparmio di legname, innanzitutto, essendo dal progetto della grande Cupola esclusa ogni centina di sostegno. Così, dalla virtù della sua opera non era disgiunto il peccato.
Anzi, forse proprio il peccato d’avarizia sosteneva i mattoni della Cupola.
Appollaiato come un colombo in quell’angolo a sessanta braccia da terra, dove sedeva davanti al tavolo da disegno, sullo stesso lato in cui in basso sorgeva l’argano a tre velocità, anch’esso frutto di un