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La moglie egiziana
La moglie egiziana
La moglie egiziana
Ebook389 pages5 hours

La moglie egiziana

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About this ebook

Verena Mammoli è scomparsa misteriosamente in Egitto. Centra forse qualcosa suo marito, l'archeologo Idris Fami? Ma è davvero un archeologo? E se dietro questa vicenda ci fosse il traffico internazionale di manufatti antichi? È l'inizio di un intrigo internazionale senza esclusione di colpi che—dai crimini della 'Ndrangheta alle manovre di oscuri commercialisti—ci immerge in un mondo di mezzo di complotti, omicidi e affaristi senza scrupoli. Al centro di tutte queste trame, l'unico uomo che può provare a risolverle: l'indomito avvocato fiorentino Corrado Scalzi.
LanguageItaliano
PublisherSAGA Egmont
Release dateFeb 8, 2022
ISBN9788728175163

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    La moglie egiziana - Nino Filastò

    La moglie egiziana

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1995, 2022 Nino Filastò and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728175163

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    LA MOGLIE EGIZIANA

    A Silvia e a Bianca

    Avvertenza

    Il romanzo è ispirato, molto alla lontana, da un processo. Ma così alla lontana che potrei paragonare la vicenda ispiratrice (per riparare l’arboscello sotto l’ombra della quercia possente) a quella che secondo uno studioso avrebbe suggerito a Manzoni I promessi sposi: cioè il processo condotto dalla Repubblica di Venezia nel 1607 contro il tirannello e stupratore Paolo Orgiano (Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci, Processi delegati ai Rettori, busta 3).

    La storia, i personaggi e le situazioni di questo romanzo si possono, quindi, definire non impropriamente immaginari.

    È vero che lavori stradali, eseguiti negli anni Sessanta, hanno alterato il fossato sul quale si innalza la Rocca Aldobrandesca di Sovana, e che in epoca più lontana, negli anni Trenta, un deposito di vasi etruschi non decorati venne usato per massicciare un’altra strada di quei paraggi: ma questo l’ho appreso (è la pura verità) soltanto dopo aver scritto il libro.

    n.f.

    Personaggi principali

    Corrado Scalzi

    avvocato penalista

    Elvio Gambassi

    faccendiere

    Idris Fami

    presunto uxoricida

    Verena Mammoli

    moglie di Idris Fami

    Amerigo Guerracci

    ex avvocato, ora giornalista

    Renata Bruschini

    amante di Amerigo Guerracci

    Alex Degli Ubaldini

    detenuto

    Ornella Sorce

    psichiatra

    Giulia Arrighi

    degente in ospedale psichiatrico

    Saro

    tuttofare di Elvio Gambassi

    Natale

    giardiniere

    PARTE PRIMA

    1

    Natale

    Natale appoggia la mano destra sulla leva del cambio, le vibrazioni del motore si trasmettono al corpo.

    — Vecchia impestata! Cinghiala! Te lo do io, il trifido!

    Natale grida come se la signorina Magda fosse di fronte ai denti del muletto elevatore.

    Il vallone invece è deserto, immobile la gru che si eleva sopra il bosco. Lo sfogo di Natale zittisce il coro degli uccelli che annunciano il prossimo levarsi del sole. Per un attimo si fa silenzio, tranne il borbottare del motore in folle.

    La signorina Magda è la sorella minore del dottor Elvio Gambassi. Ha sessant’anni e li porta benissimo, come una che non ha mai fatto niente in vita sua. La moglie di Natale invece, quando è morta a cinquant’anni, pareva una vecchia di settanta.

    La signorina Magda tiene sempre un libro nelle mani. Si alza a mezzogiorno e fa colazione nel parco all’estremità del prato. Annetta, la cameriera, è costretta a scarpinare col vassoio per duecento metri, in salita, dalla porta della cucina al grande leccio, sotto il quale la signorina fa apparecchiare il tavolo da giardino, perché le piace, dice, guardare il sole fra le foglie.

    Ieri l’altro Natale, che stamani comincia lo sgobbo in questa forra, potava la siepe di bosso intorno alla peschiera, sul lato del prato accanto al leccio. Il dottor Gambassi gli stava a fianco e gli guardava le mani, perché ci tiene che la siepe sia ben squadrata e con i lati perfettamente a piombo. La signorina Magda, alzati gli occhi dal libro, s’era incantata a fissarli, tutti i due.

    — Natale è un trifìdo, sai, Elvio?

    — Cioè? — aveva chiesto Gambassi.

    Lei gli aveva fatto segno con la mano di avvicinarsi. Poi gli aveva sussurrato qualcosa indicando la copertina del libro, e tutti e due si erano messi a ridere.

    Natale, appoggiate le cesoie sulla siepe, aveva fatto i pochi passi che lo separavano dai fratelli: — Scusi, signorina — compìto come un lord inglese — cosa sarei io?

    — Un trifìdo. Come gli alieni di questo libro — la signorina aveva alzato le sopracciglia un po’ seccata. — Stai sempre qui intorno, persino di notte, e tritrì e tratrà con il tagliaerba, con le cesoie, con la zappetta... Ho pensato che sei un vegetale mobile extraterrestre che si sposta di qua e di là come i trifìdi di questo romanzo di fantascienza. Sei estenuante, non te ne avere a male...

    Invece Natale se l’è presa. Non sarebbe ridotto a fare il giardiniere se non fosse fallita la sua azienda di allevamento di cavalli. Era tutto suo, terra, casa colonica e cavallini. Poi ha fatto il passo più lungo della gamba, con l’idea stupida, maledetto chi gliel’aveva messa in testa, dell’agriturismo e del maneggio. Ha fatto un debito con la banca e la banca l’ha fatto fallire. Sennonché ha saputo in seguito che c’era lo zampino del dottor Elvio: dicevano che l’avesse comprato lui il credito dalla banca e che fosse stato lui a farlo fallire. Il fatto è che oggi casa e terreno sono finiti nelle mani di una società per azioni che fa capo al dottore commercialista Elvio Gambassi. Come dire tutto quello che era suo, cavalli compresi, svenduti come carne da macello perché la spa su quel terreno ha voluto impiantare una coltivazione di kiwi.

    A Natale, per le battute della signorina Magda, era andato il sangue maremmano alla testa: — Sa dove se li deve mettere... Come ha detto? I trifìdi? Se li cacci nel sedere, signorina, col libro e tutto.

    Gli era scappata, e il dottor Elvio si era incazzato di brutto. Fuori dal parco! Se voleva lavorare, andasse nel cantiere della superstrada. Che era vicino, per fortuna, a cinque chilometri dalla villa.

    Opera del principale, la superstrada, benché nell’appalto appaia la società per azioni. Alla luce del sole il dottor Elvio sarebbe un nullatenente più povero di Natale, invece ha le mani in pasta nelle più varie e lucrative cose del mondo, straricco a miliardi.

    Oggi è domenica e il cantiere sarebbe chiuso. Ma Natale ha deciso di toglierselo alla svelta quel porco lavoro, roba da lager nazista, scavare e ricoprire buche. La magna opera, d’altronde, non si sa a cosa dovrà servire. A sciupare la campagna di sicuro, ma quanto a utilità... Una superstrada fra Sovana, Panzalla e Roccavìa, ma siamo matti? A cosa può servire ai panzallesi e ai rocchigiani una superstrada? Tutti poveracci, fra i pochi contadini a non avere l’automobile, tutt’al più il trattore. Quando sarà finita – presto, perché si lavora a ritmo infernale – ai bifolchi toccherà zigzagare lungo le poderali sterrate fra i piloni di cemento e i guardrail, per non sciupare l’asfalto con i cingoli.

    Via via che procedevano i lavori affioravano le pietre: i contadini dicono che ci crescono, le togli e tornano a nascere. E si vede subito che non sono sassi normali: alcuni assomigliano a persone incappucciate, vi sono graffiti strani simboli, segni che sembrano scritte. Gambassi li ha fatti ammucchiare, e vuole che siano nascosti. Ha fatto scavare una buca, ed è lì che andranno a finire.

    A Natale tocca la doppia fatica di usare un muletto elevatore, perché un caterpillar si noterebbe troppo, benché il cantiere sia protetto come una base missilistica.

    Natale ingrana la marcia e il muletto scala il pendio. La buca è a forma di imbuto, sul bordo c’è il mucchio delle pietre e nel fondo la base del pilone.

    In questa prima tornata c’è un pietra molto grossa da caricare. Natale fa avanzare il muletto a stratte leggere. I denti raspano la terra, il veicolo si scuote, ondeggia. Uno scatto più deciso in avanti, il pietrone traballa, si stacca dal mucchio, oscilla e cade all’indietro, appoggiandosi alle sbarre che sostengono il carico in verticale. Ecco fatto. Natale tira fuori di tasca il pacchetto sgualcito delle ms e ne accende una. Ora deve tornare giù: ingrana la marcia indietro e comincia a scendere, mordendo il filtro della sigaretta.

    La slittata comincia dopo pochi metri. Natale sente le ruote che frullano a vuoto, impazzite, poi il veicolo prende velocità. Un rovinio di terra precipita verso il fondo come in gara col muletto, un’ondata supera il pietrone e gli cade addosso, è come un cavallone marino. Natale avverte in bocca il sapore del terriccio, si volta indietro e vede il grigio del cemento che si avvicina. Il muletto va a sbattervi contro, ma poteva andar peggio: il peso del terriccio ha bilanciato la spinta, e non si è ribaltato.

    Ma che succede? Sprofonda, va ancora più giù... Natale cerca disperatamente di reggersi alla parete rugosa del pilone, di appigliarvisi con le unghie, ma le unghie si spezzano, continua a sprofondare. Si spegne tutto, anche gli uccelli e il ronzio del motore: buio, silenzio, resta uno sfrigolio come di carne che brucia.

    2

    Scalzi

    Mentre Scalzi aspetta il taxi, gli torna in mente uno dei suoi primi clienti, un mafiosetto che arrivava a colloquio in vestaglia bordeaux, quasi trent’anni fa, quando faceva da carcere un antico convento di clausura.

    Quanto fosse severa la regola di quelle monache lo dice il nome del convento: Le Murate. Il casamento color paglia sporca, con le sbarre delle finestre raddoppiate da reticoli bruni di ruggine, occupa ancora un isolato, dal viale fino al vicolo su cui si affaccia il muro di cinta dell’ex carcere femminile di Santa Verdiana. Oggi è tutto spazio sprecato. Ormai da anni vi spadroneggiano i topi.

    Un tempo Scalzi riusciva a lavorare di fantasia, respirando eroicamente l’atmosfera della galera romantica. Nel vecchio giudiziario, benché scalcinato e senz’aria, persistevano tracce di solennità. Le pareti evocavano il secco principio che Interest civitati ne crimina remaneant impunita, e la scritta nera – vigilando redimere – sopra il cancello che dava accesso alle sezioni, si parava davanti con la prima zaffata di disinfettante, a mo’ dell’avvertimento di Scarpia: Questo è luogo di lacrime.

    Le stanzette destinate ai colloqui con gli avvocati si aprivano su un cunicolo da devozioni quaresimali. All’apparizione del cliente in vestaglia color bordeaux, a Scalzi era tornato in mente un bordello da studenti poveri. Il mafiosetto pattinava con lo sdegno degli innocenti sulle pianelle di cuoio verniciato, puzzava di colonia al bergamotto, i capelli corvini splendevano di brillantina, la fronte luccicava fino alle sopracciglia. Saladino, Paladino, un nome così, da eroe del teatro dei pupi.

    Benché giovane, Scalzi era già smaliziato. Aveva capito subito che non era il caso di sentirsi un missionario al servizio degli innocenti. Tuttavia si era ripromesso di esercitare con dignità. Sicché, quando il mafioso che fumava Marlboro una dopo l’altra, spengendole a metà nel posacenere, aveva estratto dal filtro un bigliettino da consegnare a un complice in libertà, Scalzi gli aveva opposto: Non faccio mica il postino. La visita successiva il picciotto non s’era nemmeno seduto. Non sono affatto contento di lei, dottore aveva detto ‘affatto’, ‘affatto’, ‘affatto’. E gli aveva revocato la nomina a difensore.

    In attesa del taxi Scalzi abbozza un programma per fare più in fretta possibile. Il ricordo del mafioso lo ha messo di cattivo umore. La corvé carceraria più tempo passa e più diventa pesante.

    Prima di Alex l’aspettano tre sverginati, quelli che vanno in galera la prima volta: un piccolo spacciatore, un esibizionista sorpreso davanti all’uscita di una scuola femminile, un rapinatore alle prime armi. Saranno colloqui sbrigativi.

    Alex non è uno nuovo, a lungo andare fra avvocato e difeso si è formata un’amicizia come fra veterani di guerra, che si attenua nei momenti in cui Alex si trova in libertà. Ogni volta che lo incontra in parlatorio Scalzi si sente più vecchio. Da quando aveva vent’anni (oggi ne ha trenta) Alex entra ed esce, salvo rari intervalli, durante i quali s’ingegna subito di combinare qualcosa. È alto due metri, sicché, dopo ogni malefatta segnalata nella sua cittadina, la polizia s’informa: C’era mica uno spilungone di due metri, nei paraggi?.

    — Stavolta l’hanno preso mentre forzava la cassa di un negozio in pieno centro. Quand’è libero riesce a iniettarsi nelle braccia, nel collo e nei piedi una quantità spropositata di eroina. È di famiglia ricca, e non avrebbe nessun bisogno di delinquere. Allora che sarà, pensa Scalzi: il fascino della galera? Un complesso edipico?

    Alex è un piantagrane metodico anche da detenuto. Il mese scorso ha staccato dalla mensola sopra il letto il televisore rotto, scaraventandolo contro il brigadiere che tardava a farglielo aggiustare. L’apparecchio è andato a fracassarsi sulle sbarre del cancello, l’esplosione del tubo catodico ha fatto scattare l’allarme. Tre agenti calzati con gli anfibi l’hanno prelevato dalla cella e trascinato di peso nel cesso di transito. Qui gli hanno buttato addosso una coperta bagnata e se lo sono messo sotto i piedi. Scalzi dovrà decidere se sia il caso di presentare una denuncia.

    Il taxi è fermo al semaforo prima del ponte sul Greve. Da qui si domina il nuovo complesso carcerario. Bianco, blu e rosa, Callasicano somiglia all’hotel mostruoso di una località balneare di consumo popolare.

    Il colloquio con Alex è di routine. Per Idris Fami invece, un caso complesso di uxoricidio, bisogna calcolare almeno un’ora di conversazione.

    Durante un viaggio ad Alessandria d’Egitto la moglie di Fami è sparita. Lo sposo, ritornato da solo, ha raccontato che la moglie si è trovata bene laggiù, ha un nuovo lavoro. Era piaciuta a pochi l’unione di un egiziano sulla trentina, alto e grosso, con una fiorentina di cinquant’anni, ricamatrice in una manifattura di Rovezzano. Dopo tre anni, all’improvviso Fami si è presentato alla manifattura esigendo la liquidazione della moglie. Ma la procura da lui esibita era palesemente falsa, e il contabile ha chiamato la polizia. Dopo l’arresto, al magistrato l’egiziano ha fatto dichiarazioni così contorte da essere sospettato di uxoricidio.

    3

    Olimpia

    Scalzi vive da solo, ma un paio di volte la settimana Olimpia lo invita a cena.

    — Alla fates pensano tutti che l’abbia ammazzata lui.

    Olimpia, segretaria d’azienda nella Fabbrica Accumulatori e Trasformatori Elettrici Scandiccese, non lo dice chiaramente, ma disapprova che Scalzi abbia assunto la difesa di un macho islamico.

    Alle otto del mattino Olimpia inforca il ciclomotore, quando piove impermeabilizzata come un palombaro. Attraversa la città da sud-est a ovest, circa un’ora per arrivare sotto le colline di Scandicci. Olimpia abita a Rovezzano, Scalzi invece ha casa e studio nel cuore di Firenze, a pochi metri dalla basilica di Santa Croce.

    Olimpia conosce tre lingue e non le mancherebbe l’occasione di trovare un posto meno scomodo. Scalzi sospetta che resti alla fates perché nell’età dei sogni, fra i tanti possibili, scelse quello della rivincita proletaria. Si presenta in questo modo: — Io lavoro in fabbrica. Contratto metalmeccanici.

    — Manca il cadavere — dice Scalzi.

    — E la vendita della casa?

    — Quale casa?

    — Lo vedi che non sai nulla? Le ha fregato tutti risparmi e prima s’è venduto la casa. L’ha fatto per i soldi, secondo me. Lui che dice?

    — Che è sparita e basta.

    — Sparita, come? E le cartoline?

    Dopo il ritorno in Italia di Idris, sarebbero arrivate da Alessandria cartoline con l’apparente firma di Verena. Ma la grafia, dicono i giornali, sarebbe contraffatta.

    — Che persona è?

    — Non un tipo da affidargli la nipotina da portare al cinema. Troppo sorridente. Alto e grasso. In faccia non l’ho visto bene, era fasciato.

    — Fasciato? Perché?

    — Gli ha preso fuoco una bomboletta del campinggas mentre lo accendeva. Ha ustioni in tutto il corpo. Non cammina neppure: al colloquio me l’hanno portato a braccia.

    — E se fosse un caso di Poltergeist?

    Da qualche tempo Olimpia frequenta una certa Gertrud, (da lei soprannominata Dolores), tedesca di Norimberga, depressa e appassionata di occultismo.

    — Sono casi più frequenti di quanto tu creda. Dopo la morte di Elisabeth, bruciò il teatro di Richmond dove lei aveva recitato fino a tre giorni prima. Morirono sessanta persone.

    — Elisabeth chi?

    — La madre di Poe. Il teatro bruciò come un fiammifero.

    — Che c’entra, scusa?

    — Come, che c’entra? Elisabeth muore, e il teatro brucia durante la prima recita senza di lei. Quattro anni fa, in Brasile, la famiglia Sithebe venne tormentata per mesi: ogni volta che la signora Sithebe cercava di mettersi a pregare, veniva colpita in testa dalla Bibbia, che poi prendeva fuoco. Lui ti ha detto se la bomboletta gli è volata via dalle mani?

    — Olimpia, fammi il piacere...

    — Secondo me è stata lei. La buonanima di Verena si farà giustizia da sé. Hai visto la foto in barca sul Nilo?

    — Quale foto?

    — È sul giornale di stamattina.

    Olimpia sbandiera un quotidiano. La foto è su cinque colonne. I due sposi siedono a poppa di quella che sembrerebbe una feluca. Entrambi sorridono all’obbiettivo. Sono su un fiume, non c’è dubbio, in lontananza si vede un grattacielo.

    Scalzi capisce che Olimpia, le sue innumerevoli amiche e in generale le donne di Firenze, durante il processo faranno quadrato contro Idris Fami.

    Voglia il cielo che non si formi una giuria con una maggioranza di donne. Anche se Verena fosse davvero sparita, e il difensore riuscisse a provare che s’è spersa in qualche plaga dell’Egitto, le signore continuerebbero a ritenere colpevole il maschio predatore.

    4

    Idris

    Il tavolo trabocca di giornali. Nessun articolo è favorevole all’egiziano. In alcune foto Idris Fami ha una faccia (le foto sono quelle del suo arresto) che non tranquillizza. Eppure non è un lavavetri: il padre, morto di recente, era un funzionarlo del ministero degli Esteri egiziano, ha un fratello ricco, è laureato e professore di lettere e di archeologia, conosce il latino e il greco antico, parla tre lingue, italiano compreso.

    Idris arriva a Firenze che si sta preparando un’esposizione di arte etrusca. Agli organizzatori si dichiara esperto di archeologia egizia e disposto a lavorare sul tema dei contatti fra le due civiltà. Trova così impiego come consulente dei curatori del catalogo. Si distingue segnalando l’affinità fra Tages, il fanciullo etrusco che regalò agli uomini la scrittura, e Bath, il fanciullo egizio maestro di geroglifici e figlio del dio Thot. Dio minore precisa la nota nel catalogo dell’esposizione. Tanto minore e sconosciuto da lasciare perplessi gli studiosi nostrani.

    Chiusa la mostra, Fami è disoccupato. Che cosa lo ha spinto, si interrogano i cronisti, ad abbandonare il lavoro dignitoso nella scuola di Alessandria? Un quotidiano fornisce dettagli, con qualche lirismo: Il sole malato della mattinata domenicale diffonde fino in città le velature pallide delle colline. Poco dopo, si arriva alla quiete del chiostro cioè una chiesa romanica che è in una viuzza a fianco del Corso e porta il nome di santa Margherita, martirizzata col rogo in Egitto. Qui una domenica di luglio dell’86 i fedeli di una comunità religiosa guidata dal parroco don Squarcini aspettano di entrare a messa passeggiando fra i vasi di limone e di rosmarino. Il gruppo si dedica al commento dei Vangeli e compie opere di beneficenza, consacrandole alla balia della Beatrice dantesca che riposa in una navata laterale. La donna – fa sapere il cronista – dal viso severo di una piagnona savonaroliana ante litteram, fu erede di una parte cospicua del patrimonio dei Portinari. Grande filantropa, donò un ospedale alla città, arrivando a un passo dalla beatificazione.

    I fedeli sbigottiscono quando in quel luogo pio e raccolto – fra le piante dei limoni intisichite dallo smog appare un uomo scuro e massiccio, in completo blu da mezza stagione e incravattato nonostante il caldo — che tuttavia sorride, si presenta con garbo, parla un italiano corretto al punto da non tradire l’origine esotica. Fra poco si saprà che è venuto qui per imparare a conoscere Gesù: anzi nello spirito la conversione è già avvenuta, si tratta di benedirla. I devoti della balia sono lieti di catechizzare i pellegrini ben disposti, perciò passa poco tempo e la pecorella smarrita è accolta nel gruppo. Nell’attesa di sigillare il patto col battesimo, Idris partecipa, pagando la quota, pranzo al sacco compreso, a una gita a Roma, meta principale piazza San Pietro a mezzogiorno. Quando la finestra si apre e compare la bianca figura, i fedeli studiano l’egiziano senza farsene troppo accorgere. Lo vedono chinare il capo in raccoglimento e rialzarlo con gli occhi umidi.

    Si arriva così al giorno del santo lavacro: il convertito rinuncia a Satana, l’acqua lo deterge dal peccato originale, il sale lo accresce di vera sapienza, il pranzo offerto da lui alla trattoria Da Pennello consolida l’affratellamento con i membri della comunità, fra cui per costanza e zelo si distinguono due signore.

    L’articolo è accompagnato da una foto delle due fedeli ai lati dell’egiziano. La prima – i capelli diritti lungo le guance ossute e il corpo alto e lineare – si chiama Zoe. La seconda è Verena, non avvenente neppure lei, ma più morbida. Zoe è l’infaticabile animatrice del gruppo, mentre la silenziosa Verena – a detta del cronista – segue l’amica come un’ombra sfocata.

    Nella foto Zoe è tutta angoli acuti, si nota la preoccupazione di tenere le gambe coperte dalla gonna. Idris è accovacciato alla turca fra le due. Il volto è proteso verso il fervore di Zoe, ma gli occhi spiano di sbieco Verena. Scalzi osserva che qui il sorriso della scomparsa è più spaurito che altrove. Verena sembra presentire il peggio.

    Oggi Scalzi ha deciso di dedicare la visita al carcere per intero a Fami.

    Dal corridoio giungono voci concitate. Scalzi si affaccia dalla porta dello stanzino.

    Nell’angolo del corridoio è rimasta incastrata una carrozzella da paralitici, dalla quale deborda il corpaccione di Idris coperto di bendaggi. Un piede, gonfio e bendato, gli si è andato a stampare contro il muro.

    — Dài, spostalo — suggerisce l’agente di guardia senza muoversi dalla scrivania.

    — Non posso, è bloccato — ansima una voce.

    — E tu gira la carrozzella. Che ci vuole, scimunito?

    — Ma non vede che s’è incastrata, maledetta?

    La fonte della voce resta nascosta dietro l’angolo. Si vedono le mani contratte sulla spalliera del sedile.

    — Piantone — s’infervora la guardia — passa davanti, scimunito! Tiralo!

    — Attento al piede! — urla Idris.

    Il piantone si infila fra il muro e la carrozzella, s’inginocchia davanti alla sedia, ne afferra le ruote con entrambe le mani, dando uno strattone violento: la carrozzella s’impenna e rovescia il carico sul pavimento. Fami urla, rotola da bocconi a supino, alza una mano sporca di segatura come per un estremo saluto.

    — Lo sapevo! — commenta immobile la guardia. — Si’ ’na mappina’e cesso ’e transito!

    Scalzi si avvicina allo sfacelo per dare una mano, e constata che la metafora della guardia non è incongrua. Il piantone gronda di sudore e puzza anche di altre cose.

    Mentre lo sollevano e lo trascinano nello stanzino dei colloqui, da Fami emana un afrore di disinfettante.

    Il piantone si allontana e riappare spingendo dentro la carrozzella. Con una spinta le fa varcare la soglia. La sedia rotola a fianco di Fami uggiolando come un cane che ritrova il padrone. Fami le lancia un’occhiata rancorosa: — Lo vede questo coso, avvocato? Cigola, si blocca, manca il poggiapiedi. Andava bene in un ospedale da campo della prima guerra mondiale.

    Fami perde sangue da una mano perché i raggi di una ruota gliel’hanno ferita.

    — Avvocato, qui non mi curano, mi fanno morire, in questo carcere. Ho ustioni di terzo grado. E ora ci mancava questo.

    — Vuole che rimandiamo il colloquio?

    Fami tocca con la punta delle dita una macchia rosata sulla fasciatura del braccio: — Contro le ustioni il mercurocromo non serve. Anzi, è controindicato. Io gliel’ho detto, al dottore. Lo sa cosa mi ha risposto?

    — Posso tornare domani, se crede.

    Il sangue sgorga copiosamente. Il taglio è frastagliato ed esteso per tutta l’ampiezza del palmo. Con due dita della mano sana Fami estrae dal taschino della camicia un biglietto, poi punta sullo scritto che è in caratteri arabi un’unghia lunga da suonatore di chitarra: — Vorrei sapere se la legge italiana...

    — Se dobbiamo andare avanti — lo interrompe Scalzi — preferirei farle io, le domande.

    La galera stimola il ragionamento. I carcerati, salvo rare eccezioni, diventano in poco tempo sottili giuristi, persino gli analfabeti, figurarsi questo che è professore. Certi discorsi vanno bloccati sul nascere, altrimenti il colloquio rischia di infognarsi sui se e sui ma.

    — Quando ha visto sua moglie l’ultima volta? — domanda aprendo il fascicolo.

    Fami s’incupisce, piantando in faccia a Scalzi uno sguardo diffidente. Non è raro che al primo approccio il difeso sospetti che il suo avvocato sia uno spione della polizia.

    — Sanguina forte — dice — forse dovrei metterci sopra qualcosa.

    — Vuole andare in infermeria?

    — No. Mi darebbero il mercurocromo che non serve a nulla. Rischio l’infezione. È tutto tremendamente sporco in questo carcere.

    — Si va avanti, allora?

    Idris sospira, con un soffio finale che è quasi una sbuffata di noia.

    — Guardi che mi ha incaricato lei di difenderla — interviene Scalzi.

    — Questo carcere è sporco. Nelle celle ci piove.

    — Sono più comode in Egitto, le carceri?

    — Non lo so. È la prima volta che finisco in galera. Non è piacevole, sa?

    — Ci credo — conviene Scalzi.

    Fami soffia sulla ferita, cava di tasca un fazzoletto e la tampona.

    — Dunque — dice Scalzi — l’ultimo incontro. Voglio sapere dove e quando vi siete visti: il momento e il posto precisi.

    — Dove vuole che ci siamo visti? Dovevamo andare ad Alessandria e siamo arrivati ad Alessandria. Prima io e poi lei. Quando lei è arrivata ci siamo incontrati.

    — È scomparsa subito?

    — Chi ha detto questo?

    — Lo sta dicendo lei. Si ricorda cosa le ho chiesto? Vuole che ripeta la domanda?

    — Eravamo ad Alessandria, va bene? Lei ha preso un taxi. Ci sono due tipi di taxi ad Alessandria. I taxi mashrua appartengono all’amministrazione municipale e costano meno — sono come piccoli autobus, fanno sempre lo stesso percorso e si fermano quando qualcuno fa cenno. Voglio dire: è prestabilito il percorso, non le fermate. Poi ci sono le limousine dei tassisti privati...

    — Non questo tipo di dettagli, per piacere. Mi faccia la fotografia dell’ultimo incontro.

    — Stava salendo su un taxi del municipio. La foto è questa: la signora Verena ferma un taxi mashrua e ci sale sopra. Va bene?

    — Dove?

    — Davanti all’hotel.

    — Quale hotel?

    — L’hotel Mamaya, quello in cui eravamo alloggiati. Vuole sapere dove si trova? Poco lontano dal consolato italiano, un po’ nell’interno. Si lascia il lungomare all’altezza della piazza del consolato, e si sale per mezzo chilometro verso la città vecchia...

    — Lasci perdere. Perché Verena è salita in taxi da sola?

    — Gliel’ho detto: era una macchina del servizio municipale; i passeggeri salgono finché c’è posto.

    — C’era posto per una persona sola?

    Fami abbassa la testa scrutando la mano ferita: — Seguita a sanguinare.

    — Eh? — insiste Scalzi. — La ragione è questa?

    Fami lo guarda in silenzio e scuote il capo: — No.

    — E allora?

    — È un discorso lungo.

    — Lo faccia.

    — C’è un’altra cosa importante che devo chiedere — e studia di nuovo il suo appunto.

    — Giudico io quello che è importante. Allora?

    — Verena era stata invitata a una festa di nozze da una parente della sposa, la sorella o la cugina, una che faceva la cameriera al Mamaya. Io gliel’avevo vietato, ma voleva andarci a tutti i costi.

    — Avete avuto un litigio? Per questo motivo?

    — Avvocato, vorrei che mi facesse ricoverare d’urgenza in un ospedale civile. Con molta urgenza, capisce?

    Scalzi decide di fare la faccia scura.

    — Senta, Fami. Lei è imputato di uxoricidio. Sono l’avvocato difensore, non il medico. Se si sente male rimandiamo il colloquio a quando starà meglio, ma se si continua bisogna parlare del processo.

    — Del processo?

    — Del processo, sì. Le stanno facendo un processo, non lo sapeva? Lei è accusato di avere ucciso sua moglie.

    — La signora Mammoli non è stata uccisa, è scomparsa.

    — Questo lo dice lei, il pubblico ministero ha un’opinione diversa.

    — La scomparsa della signora Mammoli non ha niente a che vedere con quello che mi succede. Sono stato incarcerato ingiustamente per un’altra ragione.

    — E quale sarebbe?

    — Non posso dirglielo. Mi faccia prima ricoverare in ospedale.

    — È per questo che mi ha nominato difensore? Perché presenti al giudice un’istanza di ricovero?

    — Non solo per questo. Voglio che mi difenda, naturalmente, ma è urgente che venga ricoverato in ospedale.

    — Va bene, farò l’istanza. Ma l’avverto: non abbiamo la minima possibilità che venga accolta. Quando verrà respinta mi faccia un telegramma e io torno qui. Per parlare del processo, intesi?

    Scalzi si alza, chiude

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