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Quella strana luce delle quattro
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Quella strana luce delle quattro

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About this ebook

Un uomo di nome Michel, mentre carica i bagagli nella sua macchina, si accorge che una donna del palazzo di fronte si scaraventa dalla sua finestra, giù, in un cortile deserto, oscurato da alcune siepi. La donna si chiama Martine. È la migliore amica di Cecilia, moglie di Michel, anche lei testimone del gesto terrificante, ma da una prospettiva diversa: il balcone semibuio della sua camera da letto, che fronteggia la finestra ancora illuminata da cui si è lanciata la sua migliore amica. Michel e Cecilia, sconvolti dall'avvenimento, rinviano la loro partenza. Intanto Martine è prelevata da un' ambulanza misteriosa che in poco tempo, senza che Michel e Cecilia abbiano modo e tempo di verificare le sue condizioni, la porta via nella notte fonda, in un luogo di cura non ancora definito. Dal palazzo di Martine non si muove più nulla. Tutto continua a scorrere indisturbato – appena uno scroscio di tapparella, una luce che si spegne e l'apparizione improvvisa di una figura maschile, che fuma una sigaretta dalla finestra dell’orrore, poco prima di scendere in strada e di svanire nel nulla. 
Dall’episodio tragico di quella notte, nella vita di Michel e di Cecilia si snodano una serie di avvenimenti vorticosi e incontrollabili, che attraverseranno la costante narcosi e i conflitti insanabili della coppia come delle volute e gli arabeschi della storia. 
Lo scenario labirintico della struttura diegetica rimarrà quasi sempre in un suo bilico di ossessioni, murato tra il teatro desolante e mostruoso dei due palazzi, in perenne oscillazione tra più livelli archetipici di morale, di linguaggio, di realtà, in una costellazione di personaggi satelliti cospiranti,  alla ricerca disperata di un luogo iniziatico e insieme claustrale, ultimo approdo e definitiva espiazione dalla tenebra del vuoto e dell’inconsolabilità di una borghesia allucinata e in piena deflagrazione, alla ricerca delle macerie del suo stesso mito.

Luigi Salerno nasce e vive a Napoli. Autore di romanzi, racconti, poesie, pièce teatrali e sceneggiature, nel suo percorso di ricerca assimila il contagio delle nuove forme, ottenendo diversi riconoscimenti in premi letterari e rassegne internazionali, anche nell’ambito della drammaturgia contemporanea.
È cofondatore, autore e sceneggiatore del circuito di cinema indipendente Nocte Film, nato dall’incontro con il filmmaker Fabrizio Fiore. I suoi scritti sono pubblicati su diverse riviste letterarie (Terra Nullius, Musicaos, Tuffi, Microtales, Risme).  Ha pubblicato con Il Pavone, Il Foglio letterario, Ferrari Editore, Oedipus Edizioni (Collezione di Teatro), Passerino editore e Ali ribelli edizioni.
Tra gli ultimi riconoscimenti: Best Feature Script New York Movie Awards 2021 (“The desert rose”).
Per il dettaglio delle opere e dei riconoscimenti:  luigisalerno.org
 
LanguageItaliano
PublisherPasserino
Release dateJan 10, 2022
ISBN9791220883986
Quella strana luce delle quattro

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    Quella strana luce delle quattro - Luigi Salerno

    Luigi Salerno

    Quella strana luce delle quattro

    immagine 1

    The sky is the limit

    UUID: 73466e98-cb9c-4a11-9b39-5417084c5827

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

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    Indice dei contenuti

    Meno I

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    XXVIII

    XXIX

    XXX

    XXXI

    XXXII

    XXXIII

    XXXIV

    XXXV

    XXXVI

    XXXVII

    XXXVIII

    XXXIX

    Quindi è più che giusto dire,

    camminiamo all’interno di questo pensiero, come se dicessimo, entriamo in questa casa spaventosa.

    Thomas Bernhard, Camminare

    Io avevo undici anni e giocavo ad appendermi. Il cancello mi è caduto addosso.

    Una foglia di ferro battuto mi ha rotto la faccia.

    Franco Arminio, Cartoline dai morti

    Meno I

    Mentre carico in macchina l'ultimo bagaglio dei sette, stai fumando una Gauloises Caporal sul nostro balcone. Sembri una ragazzina annoiata a morte durante una festa di classe, che si esibisce nel suo cimento di oscurità e indifferenza. Prima che io scendessi, stavi guardando un film con Bette Davis, senza pronunciare una sola parola o chiedermi se mi servisse una mano. Ti ho visto abbastanza inquieta e poi anche distratta, mentre cercavo nel tuo armadio la racchetta da tennis col manico corto e una mia Lacoste – trovate poi sepolte tra i tuoi body Sparkling rain e gli asciugamani di tela. Ho continuato a scrutarti dallo specchio vacillante di un’anta: hai spento di colpo la TV sfilato gli occhiali e tirato fuori i tuoi stivali marroni da una busta di Coin, insieme a due prese scart e ad alcuni vecchi quaderni di scuola, rilegati alla perfezione in una plastica opaca. Hai preso a sfogliarli sul tuo tavolino, con quello zelo che può solo la nostalgia e la fatica che a volte sovviene a una maestra elementare per un accesso di tristezza infinita, demenza o lieve agonia. Tenevi il capo chino, che addolciva la linea chiara della tua nuca da studentessa, appena rosata dalla lampada a stelo. Te l’ho annusata di nascosto, poco prima di uscire. Vi ho riposato l’orecchio e ho chiuso gli occhi, nell’attesa di un tuo ultimo suggerimento, percependo ancora il tuo buon odore, che sprigionava l’aria straniante dei primi di giugno e della fine delle scuole. Stanotte non si avverte un solo filo di musica nell’aria. Come sempre rimani sopra e non mi aiuti. Il mio sforzo è umiliato dalla tua indifferenza, che pesa ancora di più dei sette borsoni da viaggio messi insieme. Adesso respiri a fondo e guardi verso l’alto: i tetti bianchi e grigi, le antenne paraboliche del palazzo di fronte. Sembri assente, o forse ispirata da qualcosa di sordido e misterioso, che sono certo non mi dirai mai, ma che un po’ ti rappresenta e ti appartiene. Un merlo stappa un fischio al silenzio, che risuona nella notte come champagne. Ti sveli appena dal fumo di sigaretta, mentre posi le braccia conserte sul bordo umido della ringhiera – nel pomeriggio ha piovuto un bel po’. È notte fonda, ormai. Non appena sollevo il capo, stacca dal buio il tuo bel profilo studentesco, che come sempre mi annienta. Ti guardo e ti sento ancora lontanissima, come un’invitata solitaria a un ballo autunnale di liceo, eppure sempre così accattivante nel tuo campionario di crudeltà. L’idea catastrofica di un viaggio non è stata la tua, ma ti ci sei adattata alla perfezione, senza particolari problemi. Qualsiasi cambiamento catastrofico ti sarebbe andato bene, purché avesse arricchito la tua vita di nuove tempeste epocali – ormai è la tua natura, credo di conoscerla abbastanza bene. Sono i cambiamenti, in fondo, la tua sola ancora di pace. La tua stasi. Dentro il naufragio riconosci il filo incrociato della tua amaca e così vi sprofondi. Intanto ritorno ancora a ritroso: le mie braccia continuano a lavorare e i sette borsoni non sono ancora del tutto sistemati come vorrei. Combatto con lo spazio angusto del mio portabagagli, ripensando ancora a te, come al motivo di una canzone, Cecilia, e riconoscendo alla perfezione il tuo spirito di adattamento, che mi sconforta, ancora di più delle tue polemiche e ritrosie adolescenziali. Non rimanere sempre nello stesso luogo è un movente perfetto per qualsiasi viaggio, anche il più inutile e dispendioso sarà sempre giustificato dal vantaggio di cambiare aria, abbandonando la tana deprimente che da anni condividiamo, per issare le vele verso l’ignoto. Abbracciare un tifone, come dici ogni tanto tu, quando sei più in vena, per rimanere ancora vivi, dopo una domenica di tempo cattivo passata in casa, con le luci spente e senza neanche vestirci. Ma intanto il nostro viaggio è di terra e ci sposteremo con la mia macchina, vecchia di sette anni, tra l’altro, sette come i sette borsoni e i tuoi peccati capitali e un senso di morte diffuso nel cuore, me lo ha fatto così, all’improvviso. Aspetta che ora passa. Respiro, respiro meglio, credo che va già meglio. Il nostro viaggio senza motivo non rappresenta, a parer mio, uno spostamento salutare, ma solo un disagio in più. Si può continuare a rimanere fermi spostandosi, e viceversa. Ne parlammo a letto, poche sera fa, dopo una cena con una coppia di amici appena sposati, fanatici dei viaggi estremi all’estero, ma in zone tassativamente impervie – ricordo che lei voleva organizzarsi con un altro gruppo di viaggiatori fanatici come lei, che aveva conosciuto, ancora da fidanzata, su di un forum di appassionati del Kenya, poverini. Tu rimanevi impassibile, mentre l’altra – Loretta il suo nome, adesso lo ricordo bene – tentava a tutti i costi di coinvolgerti, passando dalla lista delle vaccinazioni, alla cucina, alla gestione oculata delle diarree come alla violenza dei tramonti africani. Lo faceva con arte, a modo suo, per includerti a tutti i costi nella ciurma della sua spedizione, dicendo che ne possedevi l’indole, l’audacia, lo si vedeva dallo sguardo, ne era certa, ti diceva, ma tu niente, eri sempre dall’altra parte. Aspettavamo tutti una tua risposta, una tua minima reazione alle parole appassionate di Loretta, e tu che non battevi ciglio. Ascoltavi con interesse, certo, poi ti accendevi una sigaretta e rimanevi muta, così come sei muta adesso, dall’angolo del nostro balcone. Ma io e te siamo così diversi da Loretta e da suo marito. Non siamo appassionati di viaggi impervi, forse perché la nostra relazione è assai più impervia di un qualsiasi viaggio in Kenya. Il nostro rimanere a casa per anni interi, nella giungla fitta delle nostre abitudini, in certi casi ha rappresentato una sorta di arrembaggio verso un nuovo mondo, ancora più vasto del presagio di una savana. È quello che pensavo e che tu pensavi, ma senza dircelo mai, Cecilia, come quasi tutti i punti che ci accomunano, che non ci riveliamo mai apertamente, ma che vengono fuori sempre per ragioni implicite e trasversali, mai dichiarate, un po’ per caso, ecco. Quando poi ho pensato di partire per Fiesole, te l’ho comunicato solo all’ultimo momento, ma tu non hai battuto ciglio. Ma perché proprio Fiesole, poi? Per abitare la casa di mio fratello, partito misteriosamente per Stoccarda. Lasciandoci le chiavi e la libertà assoluta di poter rimanere quanto tempo avremmo desiderato. Una cucina rossa, nuova di zecca e tutta per te – il tuo colore preferito, tra le altre cose. Una casa nuova di zecca anche lei, fiammante di nuovo, come la casa che tu hai da sempre desiderato, la reggia dei miei brutti sogni, con una libreria immensa, stracolma di libri antichi mai letti e nemmeno sfogliati, se non da sguardi e dita ingiallite di generazioni lontanissime. Tutto pronto per accogliere il calore di una famiglia incompleta come la nostra, prossima all’esplosione, immaginando già le tue scarpe alte rintoccare nelle stanze dalle pareti intonacate a calce, le tue mani spalancare finestre, ante di armadi cigolanti e porte in legno massello per poi, distrutta di ozio, leggere John Grisham, distesa sui tappeti persiani poco prima di crollare di sonno. Ma il motivo del nostro spostamento rimane ancora oscuro e forse, come diresti tu, sublime, proprio per la sua latenza di oscurità. Mio fratello non mi ha mai ospitato a Fiesole, a sostituirlo durante una sua qualsiasi assenza, pur sapendo benissimo che non ci avrebbe mai impedito di andare se gli avessimo espresso il desiderio. Ma nemmeno tu, Cecilia, hai mai espresso il desiderio di raggiungere Fiesole, per abitare la casa di mio fratello, nemmeno in sua presenza – nonostante mio fratello sia una persona che tu adori e con la quale non ti stancheresti mai di parlare –, eppure sto caricando il quinto borsone dei sette, per una migliore disposizione e sono in procinto di partire di notte per Fiesole, senza individuare un solo motivo che giustifichi il nostro viaggio, tra i mille possibili che mi porti lì, insieme a te, che stai ancora a braccia conserte, rinchiusa nel tuo cardigan e nel tuo mutismo, in attesa che ti lanci un segnale in grado di riportarti alla realtà, tipo un colpetto di clacson o di tosse, se non un fischio da corteggiare bavoso. Ti avverto fumare e pensare, perduta ancora nel tuo bel nulla, e anche senza più guardarti, Cecilia, lo so che sei ancora ferma, con un palmo sotto il mento e sul nostro balcone anonimo, uno dei pochi senza piante, a dispetto delle altre giungle che circondano le facciate del nostro palazzo, come quello di fronte. Credo che siamo davvero i soli ad avere un balcone spoglio di qualsiasi forma vivente. Ancora una volta una tua scelta, o meglio: una tua imposizione. Né piante né animali: divieto tassativo! Perché non volevi avere pensieri, incombenze di accudimento per nessuna forma vivente di alcun tipo. Nemmeno un geranio, un garofanino di Spagna, una piantina grassa, un pesce rosso, un canarino giallo. Nulla, nemmeno implorandoti e dicendoti che me ne sarei preso cura io, personalmente – lo avrei fatto con gioia –, e tu allora mi rinfacciavi diverse occasioni nelle quali avrei dimenticato incombenze ancora più semplici, anche se non ricordo e comunque non riesco a immaginare incombenze più semplici dell’accudimento di una piantina grassa; ecco perché desisto e preferisco non avventurarmi troppo in certi discorsi, che portano sempre in territori lontani e impraticabili. Ne è la prova il nostro balcone cimiteriale, stessa tinta fredda dell’acciaio, senza nessuna forma di vita, prova tangibile della mia resa incondizionata alla tua dittatura di specie. Forse, mentre ti intravedo dall’uscio del garage, fumare e pensare, allora immagino che starai rinvangando le mie stesse apprensioni, che non ci siamo mai detti e che forse davvero non ci diremo mai, specie prima di una partenza difficile come la nostra. Non è così, mia cara Cecilia? E con il settimo i bagagli sono a posto. Ho finito!

    I

    La prima moglie di mio fratello era rimasta uccisa nella gola di un bosco. Colpita da un fulmine che la stramazzò al suolo, nella località tedesca dell’Harz, durante una passeggiata pomeridiana. La prima moglie di mio fratello era da sola nella gola di un bosco, sorpresa da un temporale, quando avvenne la tragedia. Non c’era nessun altro con lei, per cui morì in profonda solitudine, senza nessun testimone vivente che potesse quanto meno soccorrerla o sostenerla. Fu ritrovata diverso tempo dopo, per un caso, da un giovane minatore dei luoghi, divorata dalle bestie selvatiche, quindi per buona parte irriconoscibile. Mio fratello era a Stoccarda, quando gli fu comunicata la notizia della sua scomparsa – prima – e del tragico ritrovamento della povera moglie – poi –, ma senza che lui facesse un solo, minimo sforzo per ritornare. Non gli era possibile ritornare, aveva detto. Non era in grado di poter lasciare Stoccarda, era impossibilitato, davvero, come ripeteva a tutti coloro che gli chiedevano con insistenza, sollecitandolo più volte a raggiungere casa, sia prima – nel periodo della scomparsa della sua prima moglie –, che poi – quando il corpo martoriato della donna fu ritrovato dal giovane minatore nel fondo oscuro del bosco, all’imbrunire di alcuni giorni dopo il temporale nell’Harz. Mio fratello arrivò giusto in tempo per il funerale. Tutti lo condannarono, per il suo totale disinteressamento alla sua prima moglie, chi – una minoranza – dicendoglielo in faccia, chi – i più numerosi – pugnalandolo alle spalle. Solo una persona si mosse apertamente in sua difesa, dicendo che se mio fratello avesse davvero potuto si sarebbe precipitato sul posto, sia prima che dopo, ma che evidentemente le circostanze avverse glielo avevano impedito, dicendo che, in ogni caso, la presenza di mio fratello sul posto non avrebbe cambiato nulla della situazione, definita ormai irreversibile per le sue particolari dinamiche. Ormai la tragedia era avvenuta, semmai ancora prima che a mio fratello avessero riferito della sola scomparsa della sua prima moglie, quando ancora il corpo non era stato ritrovato dal giovane minatore e nessuno avrebbe mai pensato a una sorte così spaventosa. L’irreparabile si era manifestato, senza speranza, come tutto ciò che risulta concluso sin dal principio , ancora prima del suo compimento. L’unica persona che si mosse, contro tutto e contro tutti alla difesa di mio fratello, fu Cecilia. Mia moglie, già all’epoca. Potevo immaginarlo, conoscendola. Difatti il suo comportamento non mi stupì per niente, anche se per altri risultò scandaloso, come prevedibile. Anche io fui piuttosto comprensivo – come fratello mi sembrava davvero il minimo –, ma non a tal punto da giustificare l’atteggiamento che mio fratello mostrò di fronte a un evento di tale portata, che interessava la sua prima moglie, la donna che aveva scelto per condividere un’intera esistenza, senza poter immaginare, come nessuno di noi, ciò che poi le sarebbe accaduto per una passeggiata solitaria nell’Harz e di quanto breve sarebbe stata la loro esistenza in comune, spezzata dalla sciabolata di un lampo: l’attimo che infranse l’eternità – non accade mai il contrario, è sempre l’eternità a soccombere. Non riuscivo a difenderlo, come invece faceva mia moglie Cecilia, ma nemmeno ad attaccarlo come tutti gli altri, sia davanti che alle spalle. Ero in una zona intermedia, una zona sospesa e per qualche lato protetta. Una sorta di limbo, dove tentavo di smorzare gli eccessi delle due fazioni, temperandone gli umori, ma senza riuscirci mai troppo bene, purtroppo. Mio fratello, una sera che eravamo da soli, a circa un mese dal fatto tremendo, mi disse che per alcune persone, il fulmine lo avrebbe scagliato lui, attraverso un maleficio covato da tempo. Da Stoccarda, un solo lancio potente, dal palmo ben chiuso di mio fratello alla gola da capinera di sua moglie – la ricordavo così anche io –, ecco che cosa immaginavano, secondo lui. Io ascoltavo con attenzione le parole gelide di mio fratello, mentre era chino, sulla sua poltrona, di fronte a me, fissando il suo bicchiere di cognac che ogni tanto si roteava nelle mani, guardandovi l’oscillazione del liquido attraverso, mentre pensavo alla sua condizione sentimentale nel suo irreversibile disfacimento, come alla sua teoria sui colori più vaghi dei sentimenti umani, che da sempre mio fratello aveva espresso, insieme alla sua concezione singolare dell’esistenza, dei valori, dell’impermanenza del bene e del male e di tanto altro. A volte venivo assalito anche io da alcuni dubbi, pensando che mio fratello non aveva mai amato davvero la sua moglie morta, la sua prima moglie – preferisco ricordarla come prima moglie e non come moglie morta –, vedendomela ancora davanti agli occhi, come se fosse qui, ora, mentre mi salutava sulla porta, il suo ultimo Natale, con il suo pullover rosso cremisi a collo alto. Cecilia, invece, ha sempre ribadito che l’amore di mio fratello per la sua prima moglie si muoveva in una dimensione diversa, superiore, per niente appariscente come le altre, e che poteva percepirsi solo a certe profondità, e che poi in alcuni casi contava soprattutto il sentirsi amati, ancora di più delle modalità di come si amava e di come si appariva in pubblico come amanti, più o meno perfetti o felici. Per cui, a detta di Cecilia, mio fratello e la sua prima moglie erano stati una coppia felice, fino all’ultimo attimo della loro storia – interrotta per la disgrazia di un lampo di temporale e non certo per altre ragioni – e che la povera prima moglie, fino a un attimo prima che il fulmine la raggiungesse alla gola, sarebbe stata, fuori da ogni dubbio una donna del tutto felice e appagata, perché profondamente amata da mio fratello, senza alcun dubbio anche a distanza, come insisteva ancora mia moglie Cecilia, schierandosi al suo fianco contro tutto e tutti, sin dal primo istante successivo alla tragedia. Cecilia lo poteva assolutamente garantire, dal momento che aveva un rapporto stretto con mio fratello, al quale lei confidava ogni cosa, ogni segreto, tutto ciò che agli altri, compreso me, teneva nascosto, allo stesso modo di come mio fratello facesse con lei. Tutto il resto non c’entrava nulla con il destino, secondo lei. L’epilogo tragico, a detta di Cecilia, non doveva necessariamente decantare la moglie di mio fratello come un’eroina, abbandonata a se stessa e al suo destino, ma nemmeno immolarla come una donna incompresa, quasi a voler attribuire ad altri fattori, e non all’istante funesto del lampo, la causa principale della disgrazia. Nulla di tutto ciò: una donna morta in solitudine, uccisa da un lampo di temporale, quindi per un caso, non doveva necessariamente giustificare una vita affettiva di estrema solitudine, così come si era configurata la sua fine temporalesca. Erano del tutto incomparabili, secondo Cecilia, i piani della vita e della morte, anche se tragica. Ancora una volta Cecilia proteggeva con ostinazione mio fratello, contro ogni possibile attacco più o meno trasversale che riceveva da più fronti in relazione alla sua improvvisa vedovanza. È sempre stata una sua naturale attitudine proteggere a tutti i costi solo mio fratello – e mai me: io ero invece continuo oggetto di attacchi, anche violenti, da parte di mia moglie Cecilia. Proteggerlo davanti a tutto e a tutti, in qualsiasi circostanza, era un suo diktat. Non mi sono mai spiegato l’atteggiamento di mia moglie nei confronti di mio fratello, ma forse una reale spiegazione nemmeno esiste. Così come non esiste una ragione del nostro viaggio a Fiesole, allo stesso modo di questa mia testimonianza scritta, che mi sta trascinando in territori così poco rassicuranti, e direi anche impervi – gli stessi che adorava la nostra amica Loretta –, contro la mia volontà, probabilmente, ma solo per l’ostinazione di una sorta di flusso diaristico che mi conduce alla cieca, pago solo della sua energia devastatrice: un viaggio ostile nell’ignoto, è proprio il caso di dirlo. Oh, dimenticavo: mio fratello si chiama Ricardo, con una sola c, non è un errore, ma è un vezzo con cui mia madre amava chiamarlo fin da bambino, per differenziarlo da un altro cugino, che aveva lo stesso nome. Il mio nome invece è Michel, senza la e, ma comunque pronunciato come un nome italiano, senza francesizzarlo o americanizzarlo in alcun modo. Da pronunciare come in italiano, quindi, con la sola sottrazione dell’ultima vocale ma con il ch duro, soprattutto, come quando in italiano si comincia la parola chiave. La mutilazione dell’ultima vocale al mio nome non me la sono mai spiegata. Non avevo nessun parente che avesse, come nel caso di mio fratello Ricardo, il mio stesso nome, eppure hanno mutilato qualcosa del mio anche a me, giusto sul finale. Ormai mi ci sono abituato, non ricordo nemmeno se avessi mai chiesto delle spiegazioni in merito alla vocale mozza, ma ormai, come mi dico sempre, da diverso tempo, non ha più nessuna importanza. Che cosa cambierebbe la forma e la sonorità di un nome in una persona fisica ma invisibile, poi?

    II

    Erano passati diversi anni dalla tragedia dell'Harz. Mio fratello Ricardo aveva trovato delle soluzioni pratiche al suo dolore. Alcune di tipo filosofico, altre di tipo affettivo, conoscendo, frequentando e poi sposando una donna più giovane della sua prima moglie, con cui mio fratello era riuscito a ripristinare un suo nuovo equilibrio sentimentale, che un po’ tutti, tra noi più intimi, credevamo perduto per sempre, a causa della sua vedovanza improvvisa, a ciel sereno, nonostante fosse stata cagionata da un lampo di temporale. Intanto, ritornando al nostro viaggio in Toscana, una volta giunti a Fiesole con mia moglie Cecilia, avrei preso, come concordato, le chiavi di casa di mio fratello Ricardo da un vicino, un suo amico professore, e una volta dentro avrei fatto il padrone. Ma io non ero in animo di essere mai un padrone di niente, né nella mia abitazione né a casa di mio fratello. Era così lontana da me una dimensione di dominio, pur se autorizzata da un congiunto stretto. La vera padrona della situazione, in fondo, sarebbe stata soltanto mia moglie Cecilia. Mio fratello Ricardo dedicava forse solo a lei la possibilità di dominio che mi aveva concesso. Un padrone – il termine ancora mi scuote dal profondo, quando me lo ricordo pronunciato dalla voce di mio fratello Ricardo, mentre si rade e mi parla al telefono, nello stesso istante; è sempre stata una sua abitudine, radersi e parlarmi al telefono, la stessa abilità che non veniva riconosciuta agli americani nel camminare e nel masticare chewing gum contemporaneamente, credo negli anni Settanta. Il suo vicino di casa, da cui avrei prelevato le chiavi dell ’ abitazione, era un professore di greco antico in pensione. Un uomo anziano e pieno di gatti bianchi e pezzati, che non usciva mai dalla sua abitazione e che soffriva di un’ insonnia funesta – motivo per cui a qualsiasi ora della notte del nostro arrivo, lo avremmo trovavo sveglio per consegnarci le chiavi di casa dell’ abitazione di mio fratello Ricardo. Con mio fratello il professore di greco in pensione aveva un ottimo rapporto, a detta di Cecilia, che era informatissima sui più piccoli dettagli di ogni frequentazione di Ricardo, molto più di me, ormai è cosa nota. Spesso, durante le serate invernali successive alla morte della prima moglie di mio fratello, i due, Ricardo e il professore di greco, si intrattenevano a parlare fino a tardi, sorseggiando del cognac o giocando a scacchi. E fu proprio grazie al professore di greco che mio fratello conobbe la sua seconda moglie la quale, guarda caso, era stata una sua brillante allieva al Liceo classico Torquato Tasso. L’ex allieva aveva fatto una visita a sorpresa al suo ex professore, una sera in cui c’era anche mio fratello Ricardo – davvero un puro caso, come il lampo di temporale nell’Harz, immaginai, quando lo seppi. Il professore di greco, preso dall’euforia per una sorpresa così gradita, invitava a cena sia mio fratello che l’ex allieva di liceo, attualmente insegnante di italiano in una scuola privata, e fu proprio grazie all’improvvisata della cara studentessa di un tempo, che i due si conobbero e si piacquero da morire, a quanto ricordo fu un coupe de foudre. Parlo di piacersi e non parlo di amore soltanto perché conosco il modo di ragionare di mio fratello Ricardo e sono certo che mi avrebbe chiamato sconsiderato e approssimativo nel limitare il loro incontro con una parola così abusata e ormai, specie nell’era post-moderna del tutto priva di significato, così come Ricardo considerava la parola: amore. Cosa ben diversa è il considerare il piacere e l’insieme dell’attrazione fisica come nucleo vitale del loro incontro. Neanche quando con entusiasmo lessi a mio fratello l’incipit di Andrew Sean Greer, dal romanzo «Le confessioni di Max Tivoli» riuscii a coinvolgerlo, se non per sprigionargli una serie di reazioni poco piacevoli, nei miei confronti e anche nei confronti dell’intero universo. L’incipit diceva così: Siamo tutti il grande amore di qualcuno. Tutte le persone con cui lo avevo condiviso, ne erano rimaste folgorate: chi per una ragione chi per un’altra, ciascuno al solo sentire il suono dell’incipit aveva riconosciuto una verità lontana in una regione intima del loro essere. Chi mi aveva chiesto il nome dello scrittore e poi il nome del romanzo; chi mi chiedeva di ripetere l’incipit per appuntarselo – un po’ di carta, per favore. È importante! – qualcuno mi domandava dove sarebbe stato possibile acquistare il romanzo e qualcun altro ancora, un tantino più avaro, mi chiedeva se potevo prestargli la mia copia per qualche giorno, o ancora peggio fotocopiarsi gli estratti più significativi. Mio fratello Ricardo, invece, fu l’unico a rigettarlo e poi a bollarlo con la sua gelida aria di sufficienza, come qualcosa di retorico, ma soprattutto di falso e di illusorio, se non di sentimentalista. Ricardo era infatti convinto che la frase dell’incipit non avesse alcun fondamento di verità e che fosse fuorviante, per la stessa ragione per cui lo stesso concetto illusorio di amore, secondo lui, fosse avulso da ogni forma riscontrabile di verità e di logica. Tutto fumo, secondo lui. Per mia fortuna mi ero limitato a condividere con Ricardo solo l’incipit del romanzo di Andrew Sean Greer, romanzo che non regalai più a lui, così come avevo in animo di fare nel giorno del suo compleanno, ma a un mio vecchio compagno di scuola, che guarda caso era nato nello stesso giorno di Ricardo e che invece, al contrario di mio fratello, lo apprezzò e mi ringraziò tantissimo del pensiero, che a suo dire rifletteva alla perfezione il mio modo di sentire il mondo. Magra consolazione.

    Il rapporto con mio fratello Ricardo risultava sempre alquanto problematico, per una serie di svariate ragioni, legate soprattutto al nostro passato. Passato nel quale Ricardo, più grande di me di ben nove anni, aveva sostituito l’assenza dei miei genitori esercitando un influsso terrificante sulle mie emozioni, soprattutto negli anni più teneri della mia crescita e della mia formazione caratteriale e interiore, anni a dir poco devastanti per il mio equilibrio del tempo. Ma questo aspetto preferisco congelarlo qui, anche perché Cecilia ne è del tutto all’oscuro e anche io sto cercando con fatica di voltare pagina per affrontarlo più avanti, semmai in un suo preciso contesto e con maggiore serenità. Al momento la mia è stata una semplice precisazione, che non vorrei pregiudicasse gli avvenimenti del mio diario, riguardo ai preparativi del nostro viaggio a Fiesole e del suo inatteso sviluppo. Nessun pregiudizio su Ricardo, quindi: almeno per ora.

    Proseguendo, ripartendo dal mio garage: mentre stavo caricando la mia macchina con i vari borsoni, cercando di sistemarli nel modo più razionale, da una finestra del palazzo di fronte spiccò di colpo una luce rossa da night club, che adesso spezzava come un quadrato le tenebre della notte. La finestra era dell’appartamento dove da anni viveva Martine, la tua amica del cuore, mia cara Cecilia. Ogni tanto la tua amica compariva a braccia conserte, proprio dalla finestra della sua camera, sempre un po’ assonnata, come se fuori dal tempo, e tu, sempre un po’ assente, allo stesso modo di Martine, dall’angolo del nostro balcone ti fumavi la tua sigaretta della notte. Notavo, nella pausa tra uno sforzo e l’altro, che ogni tanto la tua amica Martine compariva e ti guardava. Tu, Cecilia, pareva che le sorridessi, ma poi, quando mi voltavo verso di te, smettevi subito e ti facevi più seria, come se un po’ ti vergognassi di sorriderle in mia presenza. Mentre ti guardavo, tu mostravi il broncio, che deformava il tuo bel viso studentesco in un’altra maschera, che mi faceva capire con chiarezza che tra di noi non vi fosse ancora – o forse non più – un impianto affettivo così solido da poter resistere a possibili smottamenti e scossoni, che ormai avvertivo così prossimi. Nessuno di noi due aveva idea di che cosa fosse una relazione d’amore. Nemmeno di che cosa fosse una relazione. Una relazione poteva non avere niente a che vedere con l’amore. Così come un’amicizia. Ma anche una relazione d’amore poteva non avere niente a che fare e a che vedere con l’amore, forse. Una storia d’amore era infatti la cosa più lontana dal mondo dell’amore, tra le dimensioni che io riconoscevo vive e ancora possibili, tra le più sensibili all’esperienza vissuta, o anche solo riferita dagli altri. In diversi casi la relazione soffocava l’amore nel suo stesso incubo, ancora di più che l’assenza luminosa dell’amore nella relazione di un’esistenza. Lo pensavamo entrambi, ma senza mai dircelo, come sempre, non è così, Cecilia? Qualche sera, in vacanza a Lugano, ne parlavo anche con mio fratello Ricardo della relazione tra le persone. Dell’impossibilità di essere davvero relati a qualcun altro, a qualsiasi qualcun altro in cui ci si potesse imbattere. L’incompatibilità la ritenevo una caratteristica della condizione umana e mio fratello mi ascoltava, senza parlare. Ma nello specifico della relazione d’amore, non ne parlavamo mai. Eravamo in difficoltà. Pensavamo entrambi, forse per via della nostra educazione ma soprattutto della nostra diversità, che fossero delle parole del tutto inutili da pronunciare e incapaci di focalizzare il punto cruciale del mistero. Nemmeno dei tabù, ma forse solo qualcosa di fittizio. Per cui desistevo, e guardavo ancora oltre, con gli occhi stanchi che mi bruciavano. Tentando di intravedere nelle nostre ultime ombre appena uno scorcio di sereno, come qualcosa di illusorio e nello stesso tempo di confortante, come solo le illusioni riescono davvero a esserlo.

    III

    Caricati i sette borsoni e tutto il resto, guardai verso i due palazzi, compreso l’angolo del mio balcone e la finestra illuminata di rosso e di Martine. La luce dalla finestra di Martine, ogni tanto si muoveva, come se qualcuno facesse dondolare per sbaglio, semmai con il manico di un ombrello, la sua lampadina nuda. La luce del garage si spense di colpo. Rimasi ancora fermo sull’uscio, parte del nuovo buio, senza accenderla. Fissando la stessa finestra alla deriva, che nello stesso istante fissava anche Cecilia. Spuntava arcigno il viso di Martine. Martine era già in pigiama. Stava guardando Cecilia e credo che le stesse facendo segno di qualcosa. Lo faceva con una serie di segnali cifrati che mi facevano fuori; non sarei mai stato in grado di decifrarli: erano parte di un loro linguaggio personale, piuttosto ermetico, a cui non avrei mai avuto accesso, in nessun modo. Cecilia ignorava il fatto che io la guardassi e che nel frattempo riuscivo a osservare anche Martine. Cecilia a un certo punto si guardò intorno, come se qualcosa l’avesse disturbata. Rientrò dentro. Martine spostò lo sguardo sulla mia figura e mi sorrise. Io la guardai e accesi una sigaretta. Tirai una prima boccata nel buio, il tempo di alzare di nuovo il capo e di sentire lo schiocco finale del merlo e il tonfo di Martine, giù a piombo, dalla sua finestra rossa nel buio. Schiantata al suolo nel giro di pochi istanti. Un tonfo raggelante, indimenticabile. Ero certo che fosse lei, Martine. Non lo so il perché, ma non avevo alcun dubbio sulla maternità dello schianto. Alzai subito gli occhi al palazzo. Pochi si affacciarono, direi nessuno, se i pochi visi più che affacciarsi adombrarono l’eco di una loro presenza, appena uno sguardo fugace, per poi chiudere di furia la tapparella e assentarsi da ogni possibile testimonianza sull’accaduto. Le siepi che avvolgevano le grate tra le due cooperative impedivano di scorgere le condizioni reali di Martine dopo il balzo dalla sua finestra. Mi girai di scatto, alzando poi la testa al nostro balcone e guardai Cecilia, che era di nuovo affacciata nello stesso angolo, adesso sporgendosi tutta, per cercare di capire cosa fosse successo, rischiando anche lei di precipitare giù, come era appena successo alla sua amica del cuore. Mi chiese più volte, Cecilia, dopo avermi intercettato con lo sguardo, che cosa fosse successo. Io le dissi che avevo sentito il rumore di Martine, ma di non averla vista durante il balzo. Soltanto lo schianto dell’impatto. Cecilia rimase pietrificata. Non mi disse altro, per diversi minuti, che mi sembrarono giorni, forse anni luce, direi.

    IV

    Martine fu prelevata da un’ambulanza, arrivata dopo pochissimo tempo dal suo schianto. La presero e la trasferirono da viva in un ospedale, da noi non ancora identificato, come constatammo dopo aver sentito la voce di un operatore del 118 dire, ad alta voce: respira. Il verbo scandito al presente ci aprì i polmoni alla speranza. I nostri occhi, una volta pronunciata nel buio la parola respira si accordarono in una particolare sintonia di pace, che per diversi minuti ci avvinse in un abbraccio rincuorante, che non ci accadeva da tempo. Martine fu salvata grazie all’intervento tempestivo dei soccorsi. Il nostro viaggio a Fiesole, dopo il balzo inatteso di Martine dalla sua finestra, fu rimandato a data da predestinarsi. Cecilia sarebbe rimasta vicina alla sua amica Martine quanto più possibile. Come una sorella o forse ancora di più di una sorella, mi disse, con la voce tremante. Era comunque la sua amica del cuore, Martine. Quella notte non si chiuse occhio. Cecilia doveva rimettere ordine, fuori e dentro di sé, prima di agire. Aveva bisogno di capire prima di precipitarsi in ospedale da Martine. Temeva ancora il peggio, nonostante la parola respira, che avevamo entrambi percepito con chiarezza dal nostro balcone. La finestra di Martine rimase così, aperta e accesa, come l’aveva lasciata lei un attimo prima di lanciarsi. La tendina blu sventolante nella notte dava al concerto di ombre una sua particolare trama surreale, rendendo quell’angolo del palazzo un palco di un teatro dell’assurdo. Tutto fermo e inanimato. Perché in casa di Martine non c’era nessuno. Martine viveva da sola. Mangiava da sola. Puliva la casa da sola. Non entrava mai nessuno nella casa di Martine. Eccetto me e Cecilia. Ma noi non andavamo mai per aiutarla, ma solo per bere in sua compagnia la birra artigianale che le preparava la portinaia tedesca del suo palazzo. Nessuno, al di fuori di me e di Cecilia, conosceva un solo angolo della sua casa. Quella notte, però, guardandola da insonni e dal nostro letto, per noi due la sua casa diventò come per tutti gli altri: sconosciuta e avvolta nel mistero dei luoghi più tenebrosi e isolati. La luce sempre accesa dava la suggestione che Martine fosse ancora dentro a prepararsi una camomilla o a fare un solitario. Quando ancora non sapevamo se Martine, ormai prelevata dall’ambulanza, fosse ancora viva o se fosse morta, nonostante il conforto della parola pronunciata dall’operatore del 118: respira. Ecco perché Cecilia aveva preferito non muovere ancora un passo verso l’ospedale, non prima di ricostruire eventuali dettagli o particolari che l’avrebbero aiutata a capire meglio che cosa poteva essere successo nella mente della sua amica Martine. Ed è per lo stesso motivo se Cecilia mi impedì di raggiungere con la mia auto l’ospedale più vicino, dove pensavamo l’avessero portata. Me lo impedì proprio perché aveva bisogno di dissotterrare tutti i possibili dettagli dalla nostra memoria delle ultime cose rimanendo fermi a rielaborare di fronte al luogo del fatto, prima di procedere a qualsiasi tipo di azione concreta, anche delle più elementari. Non ero riuscito a vedere per bene Martine nella dinamica troppo rapida – avevo percepito tutto dai suoni e non dalle immagini. Ero ancora vicino alla mia macchina, nel momento del fatto tragico. Ricordo che stavo sintonizzando la mia radio, quando qualcosa di interno, come un impulso, mi aveva fatto sollevare la testa. Non era ancora un suono. Non era nemmeno il tonfo raggelante di Martine. Era arrivato dopo, come una sorta di riflesso, un segnale radio interno. Con gli occhi sbarrati, continuavo a guardare il soffitto della nostra camera da letto, poi ogni tanto giravo il viso verso la nuca di Cecilia e la finestra rossa di Martine. «Tu invece l’hai vista?» chiesi a Cecilia, con un filo di voce. «Quando era già caduta, ma non subito. Ho dovuto fare un po’ di fatica, per via delle siepi. Non era più la persona che conoscevo, Martine schiantata al suolo, intravista solo attraverso le siepi. Non sembrava una persona viva, ma nemmeno una persona morta. Non sembrava nemmeno la stessa che avevo salutato con un sorriso fino a pochi istanti prima che rientrassi dentro. Ma nemmeno un’estranea, una sconosciuta, capisci Michel? Era trasformata in una nuova persona, che trascendeva tutte le possibili combinazioni umane mai immaginate o ricordate. Ho visto i suoi capelli, che le nascondevano la faccia: sembravano siepi anche loro. Ho visto il suo sangue. Dello stesso colore della luce che adesso le trema nella stanza e del riflesso del pigiama da uomo che indossava e che andammo a comprare insieme, ancora me lo ricordo. Era pomeriggio; pioveva forte e ci bagnammo tutte, come due stupide» disse Cecilia. «Ha versato tanto sangue?» le dissi.

    «Penso di sì. Credo che i capelli fossero spugnati, forse anche il pigiama. Spero che non le uscisse dalla testa e neppure dalla bocca. Forse da un orecchio. Una sensazione...» mi disse Cecilia.

    «Non poteva uscirle dal naso?» le dissi. «Dal naso non avrebbe avuto la forza di spugnarle tutti i capelli. Sembravano dentro un vortice di sangue i capelli di Martine. Dal naso il canale è sottile. Se esce a fiotti dovrebbe bagnare il collo, la faccia, ma allontanarsi dai capelli, capisci?» disse Cecilia.

    «Sono d’accordo. Ma il discorso vale anche da una posizione eretta. Ma da distesi o da rattrappiti, le cose cambiano. Potrebbero invertirsi le regole dell’emissione, e così il flusso dal naso raggiungerebbe i capelli, o anche i capelli, riversi in avanti, potrebbero raggiungere il fiotto di sangue del naso e imprimersene copiosamente, oltre ogni possibile previsione» dissi.

    «Sono supposizioni. Anche se da distesa a rattrappita, cambiano ancora le condizioni. Cambierebbe anche il percorso del fiotto. Tutto dovrebbe essere soggettivo e relativo al soggetto, all’impulso come all’emozione simultanea, a tutte le condizioni pregresse che hanno coordinato la sua scelta, la sua opera prima» mi disse.

    «Ma tu che eri sul balcone, quindi dall’alto, come la vedevi la tua amica Martine? Distesa oppure rattrappita?» dissi a Cecilia. «Adesso è difficile dirlo con precisione. Non era esattamente distesa e non era nemmeno esattamente rattrappita. Credo che avesse una percentuale di entrambe le posture suicide mischiate tra loro, ma c’erano le siepi a filtrare il tutto. Maledette siepi!» «Perché le chiami posture suicide, poi?»

    «Perché tutti coloro che si gettano dai balconi, tradiscono di solito una serie di inclinazioni posturali, che determineranno il tipo di esito dell’impatto, ancora prima dell’accadimento. Il tipo di direzione del fiotto sanguigno, per esempio – sempre se si evidenzierà un percorso definito interno. Ciascuna variante posturale impressa al tipo di balzo inciderà sui fattori consequenziali, relativi al destino del suicida» disse Cecilia, con serietà - sembrava di ascoltare mio fratello Ricardo, che strano.

    «Perché parli già di suicida prima ancora di sapere che cosa sia successo, perdonami?»

    «Io andavo per le linee generali. Non mi riferivo solo a Martine» mi disse Cecilia.

    «Sono d’accordo, ma nel nostro caso si parlava solo di Martine.»

    «Anche se ci si salva, dopo il balzo in ogni caso si diventa e si rimane dei suicidi, quindi per sempre, direi.»

    «Tu lo pensi davvero? Martine rimarrà una suicida anche se si salverà? Lo trovi giusto?»

    «Non lo so, ma non è così importante. Ci sarà tempo per parlarne e ragionarci su. Intanto adesso conta il fatto che da domani cambieranno molte cose tra di noi, lo capisci, Michel? Martine da ora in poi dovrà venire prima di ogni altra cosa e persona, quindi anche prima di te. Mi dispiace, ma credo che dovrai rassegnarti.»

    «Lo comprendo, Cecilia. Avrei fatto lo stesso anche io con un mio migliore amico» le dissi, con la voce calma, rassegnata.

    «Ero sicura che tu avresti compreso, Michel» mi disse, allungandomi una carezza sulla guancia, poi nei capelli e sul collo.

    «Che strano, però...» le dissi. «Cosa?» ritirando la mano destra della carezza.

    «Dopo che l’ambulanza ha portato via Martine, insomma, è calato lo stesso silenzio di prima del fatto. Come se non fosse accaduto niente. Non è arrivata la polizia, non sono arrivati i curiosi, nessuno dei condòmini del nostro e del suo palazzo. Ma tutto è rimasto fermo com’era. Tutto tranne Martine.»

    «E noi due, naturalmente.» «Perché noi due?» le dissi, ancora frastornato.

    «Perché siamo gli unici del palazzo che abbiamo avuto un accesso diretto alla sua vita. E adesso, per un principio di consonanza, siamo anche noi dei suicidi» mi disse Cecilia.

    «Ma che cosa dici? È assurdo!»

    «Non nel senso letterale del termine, naturalmente. È chiaro che non lo siamo per il balzo fisico che Martine ha compiuto, e che mi auguro sia rimasto incompiuto, ma per tutto ciò che ci avvicina al mistero del suo gesto nell’attimo preciso in cui è avvenuto e nel mentre lo abbiamo percepito. Per il privilegio che ci ha concesso la nostra testimonianza, dovrà esserci per forza una matrice di connessione profonda.»

    «Che cosa significa?» le dissi. «Non significa niente. È una supposizione. D’altra parte la stessa Martine sarebbe stata suicida anche se non si fosse lanciata dalla finestra. Il gesto è secondario a una condizione precedente dell’essere, altrimenti nemmeno noi due, che non ci siamo mai lanciati da nessuna finestra, potremmo appartenere, come unici eletti testimoni, alla sua stessa categoria.» «Ma perché insisti così tanto solo sullo stesso abbinamento? Non credi che ve ne siano altri che ci possono legare? Come la simpatia e l’interesse per Hölderlin, per la letteratura. La passione per il cinema muto, la poesia, il tennis da tavolo? Perché adesso vuoi leggere solo un’affinità così tragica.»

    «Hai mai pensato di morire?»

    Dopo la domanda di Cecilia rimanemmo in silenzio. Era l’unica risposta possibile quando si è atterriti da una circostanza del genere. Eravamo distesi sul letto, gli occhi sbarrati, l’uno accanto all’altra, come due annegati. Dall’esterno tenebroso, che dava sui due cortili adiacenti dei due palazzi si avvertiva un leggero brusio, simile a un segnale radio disturbato. Fu Cecilia ad accorgersene per prima.

    «Credo che sia la tua autoradio, Michel. L’avrai lasciata accesa, quindi anche il finestrino aperto. Sarebbe meglio che tu vada a controllare. Te la senti, vero?» mi disse Cecilia.

    «Tu ricordi che avevo la radio accesa mentre caricavo i sette borsoni? Ne sei sicura?» le dissi, con una voce stanca, ancora disteso.

    «Prima di ogni viaggio che facciamo insieme, tu fai sempre due cose fisse, in sequenza. La prima: carichi i bagagli, con la massima precisione, a tal punto da diventare nervoso se qualcuno vuole consigliarti una modalità diversa di sistemazione. Il qualcuno in questione, naturalmente, sarei soltanto io. Perché è sempre e solo con me che hai assunto un atteggiamento così irritante, e anche perché è sempre e soltanto con me che tu hai viaggiato da adulto. È possibile che con altri soggetti il tuo atteggiamento sarebbe del tutto diverso, non dico opposto, ma di certo più collaborativo» mi disse.

    «In che senso più collaborativo? Se io sono l’unico a occuparmi della sistemazione dei bagagli prima di ogni viaggio, perdonami?»

    «Collaborativo alla condivisione dell’intento e nell’aprirti a nuove ipotesi in corso d’opera, per esempio. Ma tu non le accetti mai. Ormai ti conosco bene e ho deciso di lasciarti fare, anche se mi accorgo che commetti sempre una serie di errori madornali nel disporre i bagagli nella macchina. Minimo tre, come media, intendo, anche se negli ultimi viaggi ne ho riscontrati addirittura il doppio. Ma non te ne ho mai parlato, perché tu sei sempre stato troppo suscettibile alle mie interferenze, credo legate al fatto che te le faccia una donna, che dovrebbe invece affidarsi o come minimo aiutarti, secondo te. Tu sei convinto che qualsiasi cosa io ti dica, Michel, sia dettata da un affronto alla tua persona, da una sorta di sfida che metta in discussione le tue capacità organizzative e anche il tuo valore come individuo, ma non solo riguardo alla sistemazione dei bagagli per il viaggio in auto, ma a tutta la tua figura di riferimento, alla tua dimensione umana nel suo insieme, che pensi vada in frantumi solo perché mi permetto di contraddirla. Sei sempre così nervoso quando allungo un braccio e accomodo meglio un borsone, una valigia, una volta che tu hai già completato l’operazione. Me ne accorgo dal tuo viso. Diventi un altro, un altro che non riconosco, chissà se il vero Michel o solo una sua maschera. Io, pertanto, conosco e riconosco i contenuti di ogni bagaglio, perché li ho memorizzati per forma, per colore, per peso, così come conosco ogni contenuto di ogni tua espressione. Ma ritornando ai bagagli, quindi, io valuto la loro disposizione in base a criteri più sofisticati, che puntano, al contrario dei tuoi, alla salvaguardia del loro contenuto, e non solo alla praticità di inserimento nel bagagliaio e alla bellezza dell’ordine, alla sua estetica, che tu prediligi come fattore primario, tra l’altro. Tu sei convinto che i bagagli debbano figurare nell’auto come i volumi nello scaffale della nostra libreria. Cerchi la stessa disposizione dei dorsi, a volte sei sempre orientato dal crescente al decrescente, ma poi hai combattuto con lo spessore e quindi con la larghezza dei volumi e non solo con l’armonia progressiva della loro altezza, per non parlare poi della tua ossessione per l’assortimento cromatico: tutti i gialli, poi subito dopo gli arancioni, prima dei rossi – granata, porpora, cremisi –, ma anche gli stessi colori devono rispettare la gradazione dell’intensità e della varietà cromatica di pertinenza che li accomuna e li distanzia. I verdi a parte, in un’altra zona. Mentre io, al contrario di te, ho sempre guardato al loro pregio, al tipo di copertina, intendo al materiale e ai dorsi più fragili dei volumi a cui avrebbe fatto più male la luce del sole, se disposti troppo vicino alla finestra, che al mattino è sempre baciata dal sole. Sono sempre stata io la prima ad accorgermi che nella tua disposizione alle geometrie vi siano delle falle e che il tutto sia mosso da una coazione ossessiva ma poco funzionale alla salvaguardia dell’oggetto, quindi del suo contenuto e non solo della sua estetica interiore, come la chiami sempre tu. Avresti sacrificato il criterio di protezioni di testi antichi e delicati, che solo per la loro forma o per la loro misura, dovevano scolorire e cuocere accanto alla fornace del mattino, se non fosse stato per un mio intervento riparatore, non te lo ricordi, Michel? Ma tu preferisci l’ordine formale all’equilibrio funzionale che preservi il valore dell’oggetto. Lo stesso con i bagagli. Ma so benissimo che ogni mio intervento in merito alle tue disposizioni, viene letto come un affronto alla tua persona. E così decido di tacere e ti lascio fare, anche se tu ti accorgi, anche dal mio silenzio, che il mio viso non è mai d’accordo con te e allora ci rimani male. Sono contrariata quando intervengo e quando mi assento da ogni possibile giudizio. E allora procedi con rabbia, per pura vendetta. Perché ti accorgi che nel seguire la tua linea, non riesci a essere graziato dalla mia ammirazione o quanto meno dalla mia fiducia, che immagini andare sempre in altre direzioni, tutte opposte alla tua, Michel. Quindi, nella tua disposizione dei bagagli, così come nei libri, cominciano ad affiorare soluzioni mostruose e irrazionali, senza un minimo di giudizio e di senso logico, dovresti riconoscerlo, Michel. Dopo ogni viaggio, quando nella stanza dell’albergo mi occupo dell’apertura dei bagagli, ho il quadro completo della tua cattiva disposizione e quindi della tua assoluta incapacità di gestione nelle operazioni più elementari, dalle quali mi allontani perché non vuoi riconoscere l’evidenza del tuo fallimento. Questo riguarda la prima fase della sequenza, che anche stanotte stavi portando a termine, con lo stesso rigore di sempre, mentre fischiava il merlo, in un’ora troppo tardiva per le abitudini di un merlo cittadino e abitudinario. Quando ho alzato gli occhi per vedere se fosse davvero un merlo, allora ho scorto Martine, in pigiama rosso da uomo e con i capelli legati, che ci osservava partire con un’aria afflitta e insieme ispirata, non so. E allora ho letto nel suo viso, anche se era piuttosto lontano, un filo di malinconia o forse anche di asfissia, non so dirlo con precisione, ma così diverso dal solito, capisci, Michel? Poi, Martine ha sollevato la mano verso di me, e io le ho risposto, con una boccata di fumo dalle narici, come mio solito, quando sono in vena di misteri. Poi ho visto che lei ti guardava. Tu eri così preso che nemmeno hai alzato la testa per percepire la delicatezza del suo sguardo di addio. Stavi accendendo già la radio, per cercare il canale di musica classica della filodiffusione che avrebbe accompagnato il nostro viaggio. Ecco il secondo punto del meccanismo prima di ogni partenza: bagagli e ricerca della stazione radio adeguata. Anche in qual caso non hai mai tenuto conto dei miei gusti; del fatto che a me piace sentire le trasmissioni di dibattiti, di poesia o di tematiche spirituali o filosofiche e non la tua dannata musica classica. Vi sono altri canali, ancora più interessanti della musica classica, Michel, e che potrebbero arricchire anche te, ma che tu ignori, dicendo che sono affari legati al mondo di tuo fratello Ricardo e non al tuo. Ecco perché mi hai sempre proibito di ascoltare i dibattiti e soprattutto le trasmissioni di poesia o di tematiche spirituali o più o meno esoteriche; credo per via di una certa attinenza con il mondo e il sistema di pensiero di tuo fratello Ricardo, che tu detesti, inutile nascondercelo, lo sappiamo benissimo entrambi che cosa pensi di lui. Adesso c’è un nuovo canale che si occupa di tematiche sullo spiritismo. Lo gestisce una medium tedesca, naturalizzata italiana. La trasmissione comincia intorno alle undici della notte, e si divide in una parte di teoria e di analisi sui fenomeni, in base a citazioni e a stralci su letteratura del settore, e un’ altra, molto interessante, sulle telefonate di coloro – e non sono pochi, Michel –che hanno avuto particolari esperienze in materia e desiderano condividerle. Una trasmissione meravigliosa, ricca di mistero, di approfondimenti e colpi di scena. È proprio grazie a tuo fratello Ricardo che l’ho scoperta e l’ho amata. Ma tu ti sei sempre opposto al fatto che io ascoltassi la mia trasmissione preferita quando si viaggiava. Dicevi che potevo esaltarmi, e che fossi una persona troppo influenzabile per le trasmissioni che indagavano sui percorsi oscuri dell’anima, come dell’interiorità e della mente. E allora ho rinunciato a viaggiare con i miei canali radio preferiti, e ho dovuto subire solo la tua musica, la tua dannata musica classica, mio caro Michel» mi disse Cecilia. «Ma se mi hai sempre detto che ti piaceva ascoltare la musica classica di notte con me, mentre si viaggiava insieme, perché ti portava lontano, in un altro luogo, in quelli che tu ogni tanto chiamavi i tuoi non luoghi o cantucci dell’inverosimile, possibile che non te lo ricordi più, Cecilia?» «È probabile che lo abbia detto così, senza nemmeno pensarci, come si dicono tante cose in momenti diversi, non lo so, non ricordo a che proposito parlavo dei non luoghi, possibile che non c’entrasse niente la musica classica; o forse l’avrò detto per farti contento, che a volte mi sembri un ragazzino quando non condivido in pieno le tue idee, le tue passioni, ecco. È quindi avrò forse anche detto di amare la musica classica senza esserne per niente convinta, così come anche tu avrai detto tante altre cose diverse, in determinati momenti, cose nelle quali poi stentavi davvero a riconoscerti, solo per accontentarmi, Michel. Ma non per questo le cose dette devono cambiare le proprie convinzioni o essere del tutto invalidate. Un pensiero può perfezionarsi in un suo mutamento, o comunque espandersi, ma non va necessariamente negato. Anche tu qualche volta mi parlavi del jazz, per esempio, una musica oscura, di trasgressione, secondo te, che poi nemmeno capivi che cosa fosse il senso profondo di una musica così caotica, fatta di colpi di gomito e di fumo, ma in qualche modo ti incuriosiva, soprattutto per capire che cosa ti impediva di contagiartene come invece era successo a me e a tuo fratello, e forse speravi di innamorarti anche tu della musica jazz, come di tutte le cose alle quali non arrivavi ancora, o che non arrivavano ancora a te, per esempio. Perché vi sono sempre due tipi di distanze, come dice sempre tuo fratello Ricardo. La nostra dall’oggetto e l’oggetto dalla nostra. In alcuni casi siamo noi a non arrivare all’oggetto. In altri casi, è invece l’oggetto a non arrivare a noi. Nel tuo caso con il jazz, se ti incuriosiva così tanto, potevano esserci dei motivi combinati, tra una tua incompatibilità al linguaggio e una tua pigrizia o forse sospettosità del suo valore o anche accanimento a non amare qualcosa che amassi prima anche io, forse. È probabile che se ti fossi dedicato o abbandonato di più e non ti fossi trincerato dentro la pigrizia del sospetto, il jazz sarebbe arrivato lui da te, senza alcuno sforzo, in modo assai più fluido e naturale; come ti è accaduto con la musica classica, non credi, Michel?» «Sì, certo. È anche possibile. Ma, adesso non capisco perché ci stiamo allontanando dal discorso su Martine. Mi guardi, per favore?» le dissi, fissandole la nuca in penombra. «Preferisco tenere gli occhi chiusi, adesso. Parlare e tenere gli occhi chiusi. Ecco perché ho avvertito la radio accesa dall’auto. Stavamo parlando proprio del fatto che dovresti scendere a spegnerla. È tardi, qualcuno potrebbe protestare; adesso devi andare, Michel» disse Cecilia. «Hai ragione. Metto le scarpe e scendo. Ci metterò un attimo.» «Cerca di non perdere tempo. Stanotte non mi va di rimanere da sola. Spero davvero che...» «Accenditi la televisione, così non ti senti troppo sola.» «Passami il telecomando. Stanotte ho desiderio di un film sporco che mi rimetta al mondo. Dovrebbero darlo al canale 1297, dopo la mezzanotte» disse Cecilia, trafficando con il telecomando che le avevo dato.

    «Credi che sia il caso, dico... dopo quello che è successo a Martine guardare un film sporco al canale 1297?» «Che cosa c’entra Martine, adesso? Anzi, se proprio vuoi saperlo, è proprio in suo onore che voglio guardarmi il film sporco del canale 1297: è il canale che Martine accende sempre alla stessa ora e che preferisce, al di sopra di tutti gli altri canali della notte. È un appuntamento fisso per Martine assistere almeno a due film del canale 1297. È solo grazie a Martine che ne ho scoperto l’esistenza. Ed è solo da lei che ho ricevuto le password per riuscire a vederlo. Anche se mi fossi buttata io dalla nostra finestra, adesso Martine starebbe vedendo lo stesso canale, ne sono certa. Siamo simili, come due sorelle. Lo dici sempre anche tu, non te lo ricordi più, Michel?». «Fai come ti pare. Io vado e torno» e nel mentre uscivo dalla camera Cecilia lanciò un grido e mi costrinse a ritornare. «Corri a vedere, vieni qui, Michel! Hanno appena spento la luce! La luce della stanza di Martine! Ci sarà qualcuno in casa, presto!» disse Cecilia, dimenandosi. Mi precipitai sul letto, con lo sguardo

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