Ai morti si dice arrivederci
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Ai morti si dice arrivederci - Luigi Guicciardi
Luigi Guicciardi
AI MORTI SI DICE ARRIVEDERCI
La nuova indagine del commissario Cataldo
Prima Edizione Ebook 2022 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104559
Immagine di copertina su licenza
Adobestock.com
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave 60 - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
catalogo su
www.librisumisura.com
img1.pngLuigi Guicciardi
AI MORTI SI DICE ARRIVEDERCI
La nuova indagine del commissario Cataldo
Romanzo
img2.pngINDICE
PROLOGO
PRIMA PARTE
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
SECONDA PARTE
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
TERZA PARTE
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
EPILOGO
NOTA DELL’AUTORE
L’AUTORE
CATALOGO
PROLOGO
Quindici anni prima
Avrebbe voluto ubriacarsi fino a crollare dal sonno, se solo ci fosse stata abbastanza birra, ma non ce n’era. Lo sapeva bene.
Allora, spostandosi lentamente, si mise a sedere sul letto. E proprio in quel momento sua sorella entrò nella stanza tenendo fra le dita un foglietto. Senza guardarla lo posò sul comodino, spingendo di lato la biancheria intima che lei ci aveva messo sopra.
— Ho l’indirizzo, Giulia. Se vuoi ti accompagno.
Giulia guardò la sorella dritta negli occhi, sorpresa dal suo tono. L’altra si strinse nelle spalle.
— È inutile tergiversare, no?
— Senti... — La ragazza distolse lo sguardo. — Non ho intenzione di abortire.
— Come sarebbe a dire non ho intenzione di abortire? Abbiamo la possibilità di scegliere, signora mia?
Giulia incominciò a piangere e a gridare insieme. Rabbiosa. — Voglio tenere il bambino.
— E dopo? Sei già stata avvertita. Ancora un giorno senza lavorare e quello ti caccerà.
— Stavo male... Capirà.
— E quando il bambino sarà malato e non potrai fare diversamente, pensi che capirà? Cazzo, Giulia, sei tu che non capisci proprio niente. Non riuscirai a tenerti nessun lavoro. E non credere che possa badare io al tuo marmocchio.
— Non preoccuparti. Non ti avevo messa in conto.
— E allora?
Giulia mandò giù la saliva. — Potrei darlo in adozione. C’è un mucchio di persone perbene che non riescono ad avere figli. Persone ricche. — La donna le rifilò una sberla e Giulia strillò. — Perché...?
— Per svegliarti, stupida. È facile dirlo adesso, quando quella cosa non è che un pugno nella tua pancia. Aspetta a sentirlo crescere, muoversi e venire fuori, un bambino in carne e ossa. Allora vedrai se vorrai lasciarlo andare. Tanto varrebbe tagliarsi un braccio o una gamba.
— No, ti giuro...
— Qui c’è l’indirizzo. — Afferrò il foglietto. — Su, vai a prepararti. Io resterò con te tutto il tempo, anche se dovessi tardare al lavoro.
Giulia piangeva, sconsolata. — Non posso... Ho lui dentro di me. Lo porto dentro di me. Non posso liberarmi del suo bambino.
L’altra l’afferrò per le braccia e cominciò a scuoterla. — Cretina che non sei altro! Pensi che gli importasse dove bagnava il pennello? Eh? Rispondimi! Voglio una risposta, perdio! Pensi che gli importasse in che buco di merda lo infilava? Ho lui dentro di me, col cavolo. Quello se l’è data a gambe, giusto? Come fanno tutti.
Ora non si ribellava, rigida per lo shock. — Forse sta male. Potrebbe essere per questo che non s’è presentato... Tu non lo sai. Pensi di sapere tutto, ma non è così.
La sorella la lasciò andare, disgustata. — So che è come tutti gli altri. Un sacco di paroloni, poi cominciano a insistere e, prima che una se ne accorga, si ritrova incinta e senza un marito.
— Lui mi ama. Lo so che è così.
— Bene. Bene. Se è così, allora ti sposerà, giusto?
Giulia scosse il capo. — Te l’ho già detto che non può. Perderebbe il lavoro.
— Sei una bugiarda, Giulia. Non è questa l’unica ragione. Può trovarsi un altro lavoro. Cos’è? Non sarà per caso che è già sposato?
— No.
— E allora? — Una lunga pausa, poi lei sollevò una mano. — Dimmi!
— Non lavora. Va all’università...
L’altra fece una smorfia. — Ah, be’, allora ci penserà la sua famiglia. — Le tolse la camicia da notte e le allungò gli indumenti intimi. — Andiamo a fare due chiacchiere con lui... Com’è che si chiama, quel bastardo?
— No, no, guarda...
— E dove abita?
— No, non possiamo andare là...
— Possiamo e lo faremo.
Giulia piegò la testa, testarda, ma la sorella l’afferrò per i capelli, costringendola ad alzare gli occhi. Finché, dopo un sussulto, disse:
— Non so il numero esatto dove abita... È un bel palazzo, in corso Canalgrande. Una volta me l’ha fatto vedere dal di fuori, una domenica...
— Che peccato, che non sia stata quella l’unica cosa che ti ha fatto vedere. — La lasciò andare. — Vestiti, e prendi la spazzola. — Fece due passi verso la porta, riflettendo, e poi: — Dai, trova quella spazzola, se no farò qualcosa io per farti sbrigare.
Giulia ricacciò indietro un singhiozzo. — A volte ho l’impressione che tu mi odi.
L’altra tornò indietro, afferrò di nuovo la sorella per le braccia e la scosse, ma stavolta con meno violenza. — Cretina che non sei altro, certo che non ti odio. Sei mia sorella, no? — Le diede un bacio sulla guancia. — Ora vestiti, su. — Annuì due o tre volte. — E dato non vuoi abortire, andiamo a scambiare due parole con questo bel ragazzo…
PRIMA PARTE
Il presente ci sfugge
1
Venerdì 5 maggio. È una mattina di vitrea luminosità, gelida; e di gelidi aculei nelle ossa, nelle giunture.
Cataldo s’è appena seduto nell’ufficio del questore, Pietro Fassarini, all’ultimo piano di via Divisione Acqui. Attraverso la vetrata dietro alla scrivania si vedono il luna park e il palazzo dello sport. Una bella vista, e anche un bell’ufficio.
— Come va, Cataldo?
Fassarini non è male come questore. Scrupoloso, furbo, tenace, con una giusta dose di scetticismo. L’unica cosa che non va in lui è il non avere l’aria del questore. Ma forse dipende da lui, Cataldo; dal fatto che ha visto troppi film americani e ha maturato la convinzione che tutti i capi debbano somigliare a Edward Robinson o a Fred McMurray o ai personaggi dei noir di Melville. Quello invece è Fassarini, alto sì e no un metro e sessanta, con una parvenza di pinguedine, forse per il viso quasi tondo e la paffutezza delle guance lucide, che deve rasare in continuazione. Il corpo invece è sodo, e lui è un tipo attivo, che si muove con agilità. E poi ha dei vezzi: uno, di parlar forbito (o poetico, come dice lui).
— Non mi lamento.
— Bene.
Adesso lo sta guardando con occhi da cerbiatto da dietro la grossa scrivania, come un ragazzino che giochi a fare il dirigente. È così maledettamente carino e fa tanta tenerezza che un bel po’ di donne che lavorano in quel palazzo hanno una gran voglia di coccolarlo e di portarselo a casa. E alcune lo fanno anche, e non certo per offrirgli latte e biscotti. Per essere un omino così, sulla cinquantina, si dice che svolga un’intensa attività sessuale, pari a quella di certi fighi che frequentano i bar per single. Lo conosce da anni, è sicuro di questo.
— Ti sarai chiesto perché ti ho fatto venire...
— Già.
Il questore allunga una mano, prende un paio di mentine e se le ficca in bocca. Jean Gabin si sarebbe acceso un sigaro o la pipa, avrebbe fatto un sorrisetto sarcastico, avrebbe sfogliato un po’ di carte e avrebbe detto qualcosa di acuto sulle gang di città. Lui invece... le mentine!
— Conosci le Pie Operaie di San Giuseppe?
— No.
— Sono suore. Hanno un convento, qui alla Sacca. E domenica ci sarà un evento molto importante, da loro.
— Ah, sì?
— Sì. La presentazione alla città di alcuni preziosissimi dipinti di Guido Reni, che si credevano perduti. — Legge da un foglio che ha davanti. — Santa Cecilia e l’angelo e Il giudizio di Paride... — annuisce, — del primo Seicento. Più altri due quadri della sua scuola, anch’essi ritrovati... Un Lana e un Boulanger. — Alza gli occhi. — Ma li vedrai.
— Io?
— Sì — sorride. — Perché sto per chiederti un favore, e spero che mi dirai di sì. Dovresti andare tu alla cerimonia, al posto mio. Sei commissario capo... — sorride ancora. — Mi faresti davvero un gran piacere.
— Tu non puoi?
— No. Io... — Lo fissa. — Perché, avevi altri impegni?
— Be’... no. No, niente.
A Cataldo viene in mente che ormai è arrivato a un’età in cui un uomo si prospetta i propri piaceri meno intensamente di quando era giovane, ma si sente lo stesso un po’ afflitto quando i suoi progetti vengono scombussolati.
— Bene — ripete.
Ha gli occhi piccoli e rivolti all’insù. Ora che sembra soddisfatto, li stringe fino a trasformarli in due grinze di carne. Ma la caratteristica più notevole del viso è l’irrequieta mobilità della bocca, piccola e delicata; la stringe per esprimere disapprovazione, la piega in basso quando è deluso, l’allunga e la curva quando sorride.
— Come stavo per dirti — continua, — c’è un collezionista miliardario, senza eredi, che ha fatto tempo fa questa ingente donazione... un po’ in segreto, devo dire... e la Banca Popolare ha finanziato il restauro.
Il solito esercizio di relazioni pubbliche, pensa Cataldo, organizzato dalle alte sfere... Mentre il questore fa un gesto vago verso le poltroncine nere girevoli davanti alla finestra e mormora qualcosa a proposito di un caffè.
— Per me no, grazie.
— Capisci? È un’occasione pubblica importante, ci sarà una rappresentanza dei carabinieri, dell’Accademia militare, oltre alle autorità civili e religiose... il sindaco, il vicario episcopale, due o tre assessori. Le tivù locali. — Ora sogghigna. — E anche una mia vecchia fiamma, che ha sposato l’assessore alla cultura.
— Sì?
— Si chiama Clara. È una donna robusta coi capelli castani, il seno pieno e i fianchi larghi, una donna che per ironia della sorte ha scelto di non avere figli pur essendo dotata di un corpo, come dire... sì, progettato per la gravidanza. Oggi che esser magre e restare giovani sono le aspirazioni di ogni donna dopo la pubertà, lei, che adesso ha quarant’anni, arriccia il naso davanti a tutte le modelle dei rotocalchi e si definisce voluttuosa — sogghigna di nuovo, — anche se in effetti ha almeno cinque o sei chili in più in base a tutte le tabelle.
— Vedo che te la ricordi bene...
— È sempre stata un tantino sovrappeso, anche da ragazza, ma non è mai sembrata grassa... — Cerca un attimo le parole. — Gradevolmente rotondetta, questo sì, con un che negli occhi azzurri che prometteva un’allegra sessualità, sufficiente a stimolare i desideri di parecchi giovanotti foruncolosi come me.
— E lui com’è?
— Chi, suo marito? È un assessore alla cultura, quindi è uno stronzo. — Ride di gusto. — Dunque, dovrai presentarti alla madre superiora, suor Ersilia. A nome mio. Ci conosciamo molto bene, noi... Anzi, ho un debito di riconoscenza con lei, che non ti sto a spiegare.
— Ci mancherebbe.
— La cerimonia ci sarà domenica, nel primo pomeriggio. Seguita da un rinfresco. Allora, siamo intesi?
— D’accordo.
— Grazie, Giovanni. A buon rendere.
Cataldo si alza. — E tu, quanto al resto? Tutto bene?
— Non mi lamento. Si costruisce, piano piano — sospira, — anno dopo anno si aggiungono rametti al nido della vita, e si crede di imparare qualcosa durante il viaggio. Che si stia stabilendo un equilibrio. Almeno è quello che vogliamo immaginare. Vero?
— Il viaggio però deve proseguire — commenta Cataldo.
— E il tuo, di viaggio? Eh, Giovanni?
— Niente di nuovo.
Si alza anche il questore, si ficca in bocca un’altra mentina e gira intorno alla scrivania. Poi guarda Cataldo da capo a piedi e scuote la testa con aria ammirata. — Devo proprio ammetterlo — dice. — Sei in forma. Quanti chili hai perso?
— Quasi otto.
— E quanto tempo ci hai messo?
— Tre mesi, più o meno.
— Come hai fatto? Solo rinunciando a mangiare?
— Già. Un sacco di uova in insalata.
Fassarini fa una smorfia di disgusto. — Io le odio, le uova in insalata.
— Anch’io.
— Ci vuole molta forza di volontà, eh? Come vorrei averla anch’io. — Un’altra lunga occhiata. — Hai proprio un bell’aspetto. A parte... — ridacchia. — Si può sapere cos’è quella strana cosa che hai lì, sul labbro superiore?
Cataldo alza d’istinto la mano. Non ha ancora perso l’abitudine di farlo, ogni volta che qualcuno vi accenna.
— Sono baffi — risponde, piccato. — Cosa pensavi che fossero?
— Sembra che ti siano rimaste appiccicate le ciglia finte di una battona.
— Ah, ah. Che ridere.
— Non è che li curi molto, eh? O hai appena cominciato a farli crescere?
— Li ho da un mese — replica. — E a me sembra che vadano benissimo.
— Perché te li sei fatti crescere? Pensi che ti facciano sembrare più giovane?
— No.
— O per far colpo sulla tua ragazza?
— Neanche. — Scuote la testa. — Sono single, come si dice oggi. Mia moglie se n’è andata in Calabria col suo compagno e ha portato con sé i figli...
— Lo sapevo. Ma avevi un’altra donna, mi pare.
— Più di una, se è per questo. Ma non è mai durata molto.
— Mi riferivo all’ultima. Quella ricercatrice...
— ...di chimica, sì. Annalisa — annuisce. — Partita anche lei.
L’altro non insiste. Si salutano.
2
Venerdì sera, prima di cena. Una spesa veloce al discount a due passi da casa sua, in via Valdrighi.
C’è poca gente, per fortuna. Una vecchietta è china sulle patate, intenta a scegliere con mano sicura, senza guanto, le più piccole e sode. Le esamina attentamente una per una, alla luce, per poi infilarle nel sacchetto.
Lui paga e va via. Posa tutto sul tavolo di cucina, si mette le pantofole senza cambiarsi, si siede in poltrona. E chiude gli occhi.
Forse è per le ultime parole del questore, stamattina, che gli torna in mente lei, Annalisa Iori. Una storia breve, ma importante. L’aveva salvata dalla galera, e dopo le si era legato. Certo, sarebbe stato suo dovere denunciarla. Ma i doveri possono avere sfumature molto complesse.
Gli aveva lasciato un disegno, quando era partita. È di là, nel cassetto della scrivania. Aveva anche pensato di metterlo in cornice, tempo prima. Ho cercato di ricordare casa mia, gli aveva detto lei. C’era la scuola, lì vicino. Un cortile grande come una caserma, nient’altro che finestre e grondaie. Nell’intervallo giocavamo sempre a palla. Poi un cancello e un viale verso la chiesa, e il fiume dall’altra parte.
Apre gli occhi, si alza in piedi. La maledizione della memoria è di indugiare sulle possibilità di considerare non solo quello che è stato, ma anche quello che sarebbe potuto accadere.
Due mesi fa il suo shampoo era ancora appeso nella doccia, e sul pavimento del bagno, sotto il lavandino, un suo lungo capello rosso formava una sorta di punto interrogativo. Poteva ancora sentire il suo profumo sul guanciale, e intuire la sagoma della sua testa sul cuscino del divano vicino alla finestra, dove le piaceva sdraiarsi a leggere.
E ricorda ancora la sua mail, l’ultima. Quella definitiva. Non l’ha mai cancellata.
Poche righe. Lei non era mai stata prolissa, nemmeno nei messaggi d’amore, ma c’era una stringatezza brutale in quelle ultime frasi. E perché no? Il loro era un basilare dilemma umano. Si poteva passare una vita ad analizzarlo con fatica, o lo si poteva risolvere, appunto, in poche righe. Aveva deciso di accettare il lavoro offertole da un centro americano di ricerca. Quando lui avesse letto quella lettera, lei sarebbe stata già a New York. Non sopportava più di ciondolare ai margini della sua vita aspettando una sua decisione. O un po’ del suo tempo, tra un’indagine e l’altra. Non credeva probabile che si sarebbero più rivisti. Era meglio così per tutti e due. Le frasi erano convenzionali, quasi banali. Era un addio senza ostentazione o personalità. E se era stato scritto con dolore, quelle parole non ne portavano il segno.
Sabato sera. Sempre a casa sua. Sempre da solo.
Contempla due uova fritte che lo fissano dal piatto. E pensa che domani andrà al convento delle Pie Operaie di San Giuseppe. Chissà che suore sono, lui non le ha mai sentite nominare. Neanche a Catania, dove proprio dalle suore aveva fatto il catechismo. Domenica dopo domenica. Col sole che splendeva attraverso le lunghe vetrate sui due lati della chiesa, col pulviscolo che saliva verso il soffitto mentre dall’organo si alzavano note a galleggiare nell’aria scintillante, e lui col vestito nuovo e il ciuffo appiattito con l’acqua da sua madre il giorno della prima comunione. E il giorno prima, la confessione, e lui, ancora, perdonato, assolto con una manciata di ave Maria, un paio di Padre nostro e un atto di dolore. Di nuovo puro...
Pugnala un uovo e guarda il tuorlo giallo sperdersi nel piatto.
E ancora le suore, della sua infanzia. Nel cortile della parrocchia faceva i turni sull’altalena, sotto i loro occhi, piegando le gambe per aumentare la velocità. Si rivede seduto sul seggiolino, la curva della sua oscillazione che aumenta a mano a mano che spinge, le sue nocche bianche serrate attorno alle catene. E quando raggiunge il punto più alto della parabola, ecco che rovescia la testa all’indietro, fissando il cielo per un istante, poi si lascia trasportare a terra con gli occhi chiusi...
Sorride. Ha finito la cena, si alza. Attraverso la finestra aperta intravede delle ombre confuse e una strana luminescenza, come quella della luna sull’acqua.
Va a sedersi sul letto. Senza accendere la luce. E pensa.
Ad Annalisa, ancora. Una storia così non poteva durare. Vivevano in mondi troppo diversi. Lui col suo lavoro, appunto: che provocava in lei scontento e amarezza.
Forse è stata colpa sua. Del suo egoismo, della sua insensibilità. Della sua indisponibilità a una vera tenerezza. Com’è stato con Alice, anche. Tanto tempo prima.
Torna in cucina, si versa un whisky. Con due cubetti di ghiaccio. Non beve subito, aspetta. Non vuole pensare più a niente.
Ma squilla il cellulare, all’improvviso.
— Ciao, sei a casa? — Una pausa. — Come stai?
Alice. La sua voce, inconfondibile.
— Bene. Lavoro... Cioè, no. Adesso no. E tu?
— Io sto bene.
— Eleonora? Francesco?
— Stanno bene. Non ci sono novità. — E poi: — Non pensavo di trovarti a casa, sai.
— Perché?
— È sabato sera.
Il telefono emette qualche piccolo rumore sulla linea, mentre tutti e due restano zitti.
— Ah, già. Be’, per me non fa nessuna differenza. Mi riposo...
— E domani?
— Vado a un ricevimento. Niente di speciale, sostituisco il questore... E tu? Stai per uscire?
— Non lo so ancora. Lui è appena rientrato, non so se è stanco o no... L’Eleonora è in pizzeria, con delle amiche.
— E Francesco?
— È in camera sua, davanti al computer.
— Sta bene?
— Sì. Lui sì.
— E tu?
— Me l’hai già chiesto.
Dal suo apparecchio ora giunge solo silenzio. Se non fosse per il lieve sussurro del suo respiro, lui potrebbe pensare che ha chiuso la comunicazione.
— Spero di incontrarti presto — dice lei, alla fine. — Ho voglia di vederti.
Perché? vorrebbe chiederle. — In luglio — mormora invece. — Le prime ferie le ho in luglio. Ti chiamo e vengo in Calabria.
— Ci conto. Buonanotte, allora.
— Anche a te.
Di là dalla parete, il suo uomo ha ascoltato la telefonata. S’è tolta la cravatta, ha aperto il colletto della camicia, e ora la raggiunge in camera da letto.
— Perché l’hai chiamato?
— Per sentire come sta. — Alice è seduta davanti alla TV accesa senza l’audio. — È il padre dei miei figli.
— Quanti anni son passati?
— Da quando io e te... — Gli sorride, senza affetto. — Sono certa che lo sai benissimo.
Lui manda giù la saliva, comincia a passeggiare nervosamente avanti e indietro. Alto com’è, sembra occupare l’intera stanza. E capisce cosa sta provando, dentro di sé. Timore. Gelosia. Non quella che si sente per un nemico vicino. Non quei dettagli piccolissimi che segnano la fine di una storia. A cosa pensi?... A niente... Gli occhi che distolgono lo sguardo, un’ombra che passa sul viso. I silenzi, una pettinatura cambiata. Le assenze sempre più lunghe e sempre più frequenti. La sensualità che rimpiazza la tenerezza. Le piccole distrazioni, poi le dimenticanze: Hai visto la mia sciarpa? Dove l’avrò messa? E all’improvviso un rossore, un imbarazzo... No, così no. Ma è pur sempre gelosia.
— Che cosa c’è fra noi, Alice? — le chiede a un tratto. — Sono un semplice diversivo, per te?
— Lo sai benissimo che non è così — replica la donna, distogliendo lo sguardo dallo schermo e voltandosi verso di lui.
— Io so solo che non dici più cosa provi per me. Io sono stato sincero, ti ho aperto il cuore con franchezza. Cos’è che ti trattiene qui, Alice? Perché l’hai cercato, stasera? Sei schiava del bisogno che ha di te?
— Non litighiamo. Se non te l’ho più detto, non è certo perché ho dei dubbi, ma piuttosto... — S’interrompe, cercando il modo di spiegargli un concetto che non ha così chiaro neanche lei.
— Piuttosto?
— Non lo so — risponde. — Mi dispiace, ma non lo so. E no, non sono schiava del bisogno di mio marito. Non c’è nessun bisogno. Ho solo paura che soffra, qualche volta.
— E quindi tieni il piede in due scarpe.
— Non è questione di tenere il piede in due scarpe.
Lui riprende a camminare, ma stavolta si ferma davanti alla finestra a guardare il giardinetto. Fissando quello, e non lei, dice: — Lui non è l’uomo giusto per te. — Si volta, forse per vedere che effetto le hanno fatto le sue parole. — Non lo è mai stato.
— Non litighiamo, ti prego.
Lui le torna vicino, la aiuta ad alzarsi. La abbraccia.
— D’accordo — sussurra. — Sulla verità non c’è da litigare.
Chiusa la comunicazione, Cataldo resta seduto a