Hannah Arendt e il ’68: Tra politica e violenza
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Eugenia Lamedica
Laureata in filosofia a Venezia, si è interessata specialmente di microstoria, fenomenologia e marxismo, pubblicando alcuni contributi. Ha conseguito il Dottorato in Storia del pensiero filosofico presso l’Università di Verona. Autrice della monografia Dal fondamento alla fondazione. Hannah Arendt e la libertà degli antichi, la sua ricerca attuale mira a valorizzare alcuni elementi del pensiero arendtiano nell’ottica di una fenomenologia dei paradigmi post-fordisti.
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Anteprima del libro
Hannah Arendt e il ’68 - Eugenia Lamedica
POLITICA
© 2018
Editoriale Jaca Book SpA, Milano
tutti i diritti riservati
Prima edizione italiana
maggio 2018
Copertina e grafica
Break Point/Jaca Book
Redazione Jaca Book
Impaginazione Elisabetta Gioanola
ISBN 978-88-16-80322-0
Editoriale Jaca Book
via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520
libreria@jacabook.it; www.jacabook.it
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INDICE
Introduzione. «Arendt sì! Arendt no!»: Arendt pensatrice sessantottesca
1
LA POLITICA DAI CONSIGLI RIVOLUZIONARI ALLA DISOBBEDIENZA CIVILE
1.1Crisi della Repubblica
1.2La felicità pubblica in America
1.3La disobbedienza civile e il dissenso democratico: il tesoro perduto dai sessantottini
2
LA SVOLTA IMPOLITICA DEL MOVIMENTO STUDENTESCO
2.1La zavorra marxista
dei giovani ribelli: dal potere alla violenza
2.2Alle radici della violenza: ingiustizia, vitalismo e frustrazione
Conclusioni
Bibliografia essenziale dei testi di Hannah Arendt
Introduzione
«ARENDT SÌ! ARENDT NO!»: ARENDT PENSATRICE SESSANTOTTESCA
Hannah Arendt non ha probabilmente bisogno di presentazioni: l’incessante produzione di saggi sulla sua vita e il suo pensiero e perfino l’uscita di una pellicola cinematografica¹ – privilegio concesso raramente a filosofi e pensatori – sono altrettanti segni di una popolarità che non accenna a diminuire. Più interessante sarebbe forse indagare le ragioni di questa fortuna. Una cosa è certa: in Italia l’interesse per questa pensatrice estranea a tutti gli schemi non avrebbe mai potuto affermarsi finché permaneva l’egemonia culturale della grande famiglia marxista. Non è un caso se il primo convegno che le fu dedicato nel nostro Paese, che riscosse un immediato successo di pubblico e di critica, sia avvenuto nel 1985, a dieci anni dalla sua morte e alle soglie della dissoluzione del blocco sovietico².
Senza dubbio la concomitante crescita sia della popolarità sia dell’accettabilità accademica di Arendt (due cose che, fino a non molto tempo fa, non sarebbero andate troppo d’accordo), è in gran parte spiegabile con il vuoto teorico lasciato da questa dissoluzione. Un’autrice che si presta sia a interpretazioni liberali sia neocomunitarie, fino a essere citata come autorità dalla moda neorepubblicana degli anni Novanta³, per non parlare del suo reciso anti-marxismo, non sgradito a quanti improvvisamente scoprirono che a Ovest non si stava poi così male, ha avuto buon gioco nel colmare i tanti vuoti concettuali prodottisi con il crollo del comunismo, venendo in soccorso all’affannosa ricerca di nuove categorie con cui dare un senso agli eventi di un mondo in tumultuosa trasformazione. Basterebbe soltanto ricordare l’appropriazione di certi elementi del suo pensiero (la teoria dell’azione performatrice
di identità narrabili⁴) da parte della letteratura femminista, coinvolta a vario titolo nella costruzione (de-costruzione?) di una cultura post-comunista che, partita dalla battaglia per i diritti civili delle minoranze, è giunta a teorizzare il pensiero della differenza
⁵ come un paradigma alternativo al progetto universalistico della modernità di cui il comunismo si proclamava legittimo erede, sebbene in modo certamente discutibile⁶.
Se l’arruolamento di Arendt per questa operazione di supplenza
teorico-culturale abbia poi avuto successo è questione che si deve qui tralasciare. Tuttavia, se gli anni Sessanta rappresentano un periodo fondamentale di critica delle vecchie ideologie e di elaborazione di quell’ideologia
dei diritti civili che negli anni successivi scalzerà il primato del lavoro e dei diritti sociali (basti vedere nel nostro Paese l’evoluzione della sinistra negli anni Novanta), allora ritornare alla Arendt testimone e interprete di quegli anni potrebbe risultare interessante al lettore italiano anche al di là dell’occasione che ci fornisce l’opportunità di farlo, vale a dire il cinquantenario degli eventi che scossero dal torpore e dal conformismo post-bellico le società di tutto il mondo. Potrebbe essere interessante, cioè, apprendere che Arendt considerò i movimenti studenteschi un fenomeno prettamente politico e che sul piano politico interloquì con essi. Non si trova in lei alcun accenno alle forme della controcultura giovanile che sarebbero state di lì a poco sfruttate da un capitalismo alla perenne ricerca di nuovi mercati. Il collegamento tra la critica della società dei consumi di massa fatta da Arendt in Vita activa, testo del ’58 ispirato al soffocante conformismo della Golden Age americana, e il ’68 inteso come rivoluzione dei costumi e dei consumi, indubbiamente l’immagine del ’68 che più si è impressa nella mente delle generazioni successive, dovrà trovarlo per conto proprio il lettore accorto⁷.
Alla fine degli anni Sessanta, la protesta studentesca fornisce ad Arendt l’occasione di scrivere alcuni tra i suoi saggi più brillanti, nei quali mette alla prova le categorie coniate in vent’anni di lavoro intellettuale e tenta nuove distinzioni chiarificatrici, come quella tra potere e violenza. Non sono poi molti gli intellettuali testimoni di quell’anno per certi versi cruciale che, come lei, accolsero la protesta divampata in tutto il mondo con sincero entusiasmo.
A seguito delle polemiche sorte dopo la pubblicazione del suo reportage sul processo Eichmann come inviata del «New Yorker» (1961), negli anni Sessanta Arendt è ormai un personaggio pubblico. Oltre agli svariati impegni accademici, partecipa attivamente alla vita intellettuale statunitense scrivendo per riviste come la «New York Review of Books», rivista dell’intelligencija radical che le valse da parte di un giornalista la definizione di «eminenza grigia delle eminenze grigie»⁸; entra a far parte di redazioni, commissioni, organizzazioni pacifiste, partecipa a convegni (due perfino sulla sua stessa opera), dibattiti nazionali promossi da istituzioni pubbliche e private, riceve innumerevoli onorificenze per meriti culturali, firma petizioni e, da personaggio influente, fa sentire con forza la sua voce «sugli affari della Repubblica americana»⁹. In mezzo a questo vortice di attività istituzionali ella non tralascia di confrontarsi con gli studenti in rivolta contro le istituzioni, in primis quella accademica. Nel 1966, a Chicago, aveva approvato, cogliendone l’«alto contenuto morale»¹⁰, le proteste contro l’esenzione di leva concessa ai migliori allievi, considerata dagli studenti un privilegio discriminatorio (spesso infatti i migliori
erano coloro che godevano di una maggior disponibilità economica, sicché inevitabilmente in Vietnam ci finivano i più poveri). Come ricorda la sua biografa, E.Y. Bruehl, in quell’occasione ella «aveva accompagnato uno dei suoi studenti in un edificio occupato del campus e salito a due a due gli scalini fino al quartier generale degli studenti – eccitata come una ragazzina
[…] – per discutere dei loro progetti e delle loro idee»¹¹, tanto che il suo corso all’Università di Chicago era stato «l’unico a essere esentato, con una votazione, dal boicottaggio della frequenza»¹². Arendt era profondamente interessata a comprendere il punto di vista degli studenti e polemizzava contro chi, come la maggioranza dell’establishment accademico, in accordo con il punto di vista del governo americano, bollava le occupazioni studentesche come stato di eccezione
da liquidare con la forza. Ma il pensiero di Arendt da sempre andava inseguendo proprio la normalizzazione di simili stati di eccezione
, una politica in cui il riunirsi e il discutere di tutti con tutti diventasse la normale prassi di una repubblica democratica.
L’idea di politica di Arendt nasceva del resto in diretta ed esplicita antitesi alla