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L’ultima Bohème
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L’ultima Bohème

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Leo Japinis prende il nome da sua madre Enea de Japinis, di origine greca, una rinomata stilista degli anni Trenta definita dai nobili e aristocratici dell’epoca che frequentavano il suo atelier “l’ago d’oro del Sannio”.
Leo Japinis da Arteneo, artista e scienziato eclettico e versatile, spazia in diverse attività artistiche, culturali e scientifiche. Presidente e fondatore dell’Albo Comunità Artisti Europei e del Centro di Fisica Sperimentale del Museo Arteneo Arti e Scienze. Alchimista sperimentalista e teorico, cosmologo, ha scritto cinque saggi scientifici e ha organizzato conferenze sul tema in una visione d’avanguardia della fisica del XXI secolo, con la diffusione sui social e al vaglio dell’editoria.
Ha al suo attivo numerose interviste su riviste di tiratura internazionale e quotidiani, da giornalisti e scrittori come Renzo Allegri, Roberto Allegri, Federico Toro, Roberta Pasero, ecc. Su: Chi, Di Più, GrandHotel, Gente, Confidenze, Medjugorje, Saint’Anthony, e altri. Con reportage documentati, straordinari del foto reporter Nicola Allegri.
Ha esordito con una mostra delle sue opere presso il Westchester Italian Cultural Center di New York. Alla presenza di autorità e membri dell’ambasciata italiana, con speciale riferimento al Mausoleo di mt 30 (altare della pace e misericordia) in omaggio a Padre Pio. In fase di costruzione presso il suo laboratorio di ricerca sperimentale da dare in visione al mondo. È stato attore, commediografo e scenografo nelle tournée di riviste e teatro d’avanguardia tra gli anni ’70-’80. È pittore e scultore ritrattista, musicista e scrittore. Si può prendere visione del tutto sui suoi siti. Vive e lavora in una sorta di castello segreto dove elabora le sue performance artistiche culturali e scientifiche. È stato definito “l’ultimo Bohémien” come risulta attraverso la lettura di questo avvincente romanzo autobiografico da film. Ambientato nel suo periodo più nero. Con un gruppo di artisti d’avanguardia degli anni Sessanta.
LanguageItaliano
Release dateAug 31, 2021
ISBN9788830649378
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    L’ultima Bohème - Leo Japinis

    Introduzione

    Anni Sessanta. Il periodo d’oro in cui l’autore inizia la sua avventura artistica, istrionica e visionaria da esistenzialista versione bohémien. Fonda uno studio d’arte, dove condivide con il carismatico poeta e pittore Anima, il filosofo e pittore Davide e altri artisti la stanza dei sogni tra pittura, scrittura, musica. Diventa luogo di incontro di artisti e intellettuali a caccia di problemi esistenziali e creatività. Ricordando un poco il caffè Odeon di Hugo Ball, via vai di artisti inquieti, dove nacquero il movimento dadaista e le rivoluzioni artistiche del dopoguerra.

    Questo romanzo si svolge in una suggestiva cornice storica della terra sannita dominata dalla pittoresca e leggendaria montagna della bella dormiente del Sannio. Davide Paradiso vive proprio in un rifugio di pietra su di un costone di quella montagna, San Giorgio. È uno studente universitario pervaso da estrema miseria e tragedie familiari che, tuttavia, non gli impediscono di continuare gli studi. La sua fulgida intelligenza e versatilità d’artista, lo portano a estrinsecare le sue virtù di attore, oratore e saggezza filosofica. Un incontro, quanto mai singolare con l’autore, determina l’iniziazione di questa storia. Una festa di brindisi in cui il protagonista finisce da ubriaco la nottata gelida sotto al portico della chiesa di don Eligio. All’indomani Davide, febbricitante, viene soccorso dal prete e curato alla villa dei De Renzi, suoi familiari. Dopo una serie di diffidenze, nei confronti di quell’estraneo in famiglia, alla fine viene apprezzato per le sue doti artistiche e di cultura; Mara, la nipote del prete di natura libertina e sofisticata, se ne innamora. Inizia in tal senso in una visione passionale, e in una serie di colpi di scena, la storia d’amore più controversa, pazza e ambigua tra amore e odio. Avvenimenti condivisi e intrecciati in una serie di avventure e avvenimenti da bohémien con gli artisti della stanza dei sogni, con i quali Davide sugella un’amicizia fraterna, che darà seguito alla condivisione di storie da brivido e drammi di questa tormentata vicenda al di là di ogni sublime immaginazione del concetto di amore.

    Si respira in questo romanzo avvincente, un’atmosfera poetica, suggestiva e creativa delle avanguardie di inizio secolo, di una Parigi rivoluzionaria, che ha scritto le più belle pagine di storia tra arte, filosofie e scienze sulla scena del mondo.

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Dedico questo libro ai protagonisti che mi hanno ispirato l’ultimo scorcio del periodo storico dei bohémien

    In arte:

    Lello Izzo Japinis LEO JAPINIS

    Mimmo Palladino MIMMO PALADINO

    Italo Francesca ANIMA

    Simone Paradiso DAVIDE

    Giuseppe D’Andrea BEPPE

    Vincenzo Vitulano GIÒ

    Franco Sarti FRANCHITO

    Elio Parrella ELIOPA

    Antonio Persichetti PERSICO

    Lilli De Renzi MARA

    Premessa dell’autore

    All’inizio degli anni Ottanta, dopo infiniti vagabondaggi professionali nel mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo, saturo di me e delle mie storie d’irriverente intellettuale a caccia di gloria in excelsis dei, cominciai a buttare giù dal trespolo dei ricordi e dunque dalla mia mente che non mente, tutto ciò che era stato teatro delle mie vicissitudini, specialmente dal periodo d’oro degli anni Sessanta. Un lungo periodo di tempo interamente dedicato alla mia natura istrionica e visionaria da esistenzialista. Come un novello Ulisse alla continua ricerca di se stesso e dei suoi compagni d’avventura, e dei suoi simili, a ritroso nel tempo, a riesumare ricordi di peripezie esistenziali, ed ecco il riscontro ricordo per ricordo e parola per parola, dopo il ritorno a casa.

    Tutti i tempi andati conservano e alimentano il fascino e la suggestione di una malinconia nostalgica. Sulle note di questa vaga sinfonia d’immagini, i ricordi giganteggiano nella mente e tutti i primi piani di quelle negative sfocate dal tempo, cominciano a incidersi nell’etere della fantasia e a palpitare e schiudersi come corolle di fiori assopiti in una muta sequenza.

    Mi ritrovavo sovente a sedere incastrato tra il letto e la libreria di quel glorioso primo studio d’arte di tanti anni addietro, in un rigurgito di ricordi che riaffioravano tra estreme gioie e malinconie, successi e sconfitte. Nei sogni appariva ogni tanto quello scorcio di avvenimenti, e diventava un’alcova, una cattedra, un regno, un decoro, per urlare e recitare la mia commedia, d’irriverente artista allo sbaraglio, a caccia di gloria. Il primo passo che avevo definitivamente fatto fuori di casa in piena, sacrosanta libertà. Ero sgusciato fuori dal baco familiare come un ladro carico di bottino. Finalmente scaraventato sulla strada, assieme a tutto quel bottino di un bel niente, se non la gloria e il potere della mia estrema e totale disponibilità: uscire o non uscire, non rientrare, o urlare, o stare muto in meditazione o ridere come un matto, o gozzovigliare, o crepare di fame, finalmente fuori dall’incubo dell’articolato, organizzato, premeditato, inevitabile come l’incalzare incessante e sconvolgente dello scandire delle ore sul quadrante dell’orologio. Fuori dall’incubo dello stillicidio dell’acqua piovana, che filtrava attraverso il soffitto marcio di casa, nei lunghi angosciosi inverni. L’incubo dei conti dei miei genitori che non quadravano mai, dei loro litigi, della loro assurda gelosia, delle loro povere risorse di sopravvivenza, del loro grande affetto per tutti noi, dei loro enormi sacrifici. L’incubo dei pianti soffocati di mia madre, dei suoi lamenti, durante i periodi di crisi e malattie, e il freddo catalitico dei lunghi inverni.

    Quella improvvisa uscita di scena in piena libertà incondizionata mi procurò una carica di felicità che non ho più provato per tutti gli anni a venire, compreso i momenti di follie d’amore. Mi ritrovavo in ogni centimetro quadrato di quel meraviglioso ostello di studio, dove si forgiavano con infinito amore i sogni di gloria, di speranza e illusioni per una vita migliore. Ero riuscito a piazzare uno studio d’arte nel cuore di quella gloriosa città storica di Benevento. Una piccola e grande città d’arte, immersa in una valle a forma di mastello, con il grande fiume Calore che spaccava la valle a metà, che nei tempi andati era stata teatro di tanta storia di briganti e condottieri e processioni di crociate, eroi martiri e assassini, del periodo di invasioni barbariche dell’epoca. Anche il grande Impero Romano, che in quel tempo dominava il mondo, si dovette piegare al volere di quello strano popolo orgoglioso e selvaggio. Dovette subire l’onta della sconfitta tra quelle gole, dove secoli dopo diventarono leggende le storie di fauni, streghe, maghi e satanassi che vi si davano convegno per i grandi concili dei sabba e rituali satanici.

    Benevento si ergeva austera e decrepita al centro di quella grande vallata ancora segnata da vecchie cicatrici di guerra. Un’accozzaglia di paesi, arroccati su per quelle giogaie di contrafforti di monti e colline, degradavano dolcemente in una fitta rete di strade rattoppate fino in fondo alla valle. Sullo sfondo si stagliava la sagoma della bella dormiente del Sannio. Una montagna che vantava il dritto di essere la seconda al mondo a possedere quella suggestiva e caratteristica posa di un profilo di donna gravida distesa sul dorso, come a ergersi a simbolo della fertilità di quella terra. Tutta assieme quella parata di monti e colline formavano il baluardo naturale di quella leggendaria città medievale.

    Le origini di quel cratere di città si perdono nella notte dei tempi. Di certo, da alcuni reperti si era risaliti a un gruppo di filibustieri reduci da una delle tante scaramucce di guerre dell’epoca preistorica. Dovettero capitare per caso in quella vallata, e probabilmente, avvinti dal fascino di quella suggestiva e protetta fortezza naturale, da quella abbondante spina dorsale di acqua che attraversava la valle, da quella terra fertile, dalla selvaggina e infine dalla fitta vegetazione lussureggiante, decisero di stabilirvisi definitivamente, e dettero il via a una delle comunità più briganti del mondo. Un paragrafo di storia ricco di personaggi eroici e mitici e avvenimenti romanzeschi degni dei più fulgidi esempi di civiltà dell’epoca.

    Ero riuscito a piazzare uno studio d’arte nel cuore storico di questa piccola città gloriosa, e il primo in assoluto, in tutta la provincia del Sannio, per cui ne andavo maledettamente orgoglioso. A questo punto inizia la mia avventura di fatti e misfatti che mi hanno accompagnato in tutte le direzioni della mia storia di irriverente ‘Pohémien’, che sarebbe una via di mezzo tra poetica ed esistenzialismo versione Bohème. Ero prevenuto e guardingo con tutto e con tutti, per cominciare a fare una selezione per quanto mi apprestavo a elaborare nei miei sogni di artista allo sbaraglio, nell’intrigata faccenda dell’arte e della cultura. Visto che l’amore per la scrittura si fece più insistente, cominciò il mio delirio deliquio a raccontare sulle pagine bianche dei miei taccuini a punta di penna, i momenti di tormento ed estasi che meditavo per le storie del vecchio e nuovo mondo, ove brulicano in gestazione tutte le rogne, le pene, le tragedie del mondo.

    Nel corso di questi viaggi artistici e letterari la buona sorte mi fece incontrare il personaggio chiave della mia avventura artistica, lui il poeta e pittore Anima, al secolo Italo Francesca. Ero intento a eseguire un ritratto al factotum dell’Enalc. Un istituto per la preparazione di corsi per vetrinisti, cartellonisti pubblicitari e figurinisti nel quale mi ero diplomato. La buona amicizia e le insistenze del caro don Furia, mi convinsero a regalargli quel benedetto ritratto. Per tutto il tempo, Anima, restò inchiodato alle mie spalle a seguire ogni tocco e ritocco del ritratto, e una parola tira l’altra, dopo una vigorosa stretta di mano di complicità artistica, per il buon risultato dell’opera, dopo tutta una serie di convenevoli, e di continue visite, venne a vivere nel mio studio. Ebbe così inizio l’avventura bohémien, degna della storia dei grandi del post impressionismo dell’inizio del XX secolo di Parigi.

    Anima aveva una sagoma e un carisma d’artista da quartiere latino, saturo di un fascino che incombeva e tingeva l’atmosfera intorno di un alone di creatività. Quel personaggio insolito divenne un grosso stimolo per continuare in piena consapevolezza il mio credo, la missione che mi era stata affidata dalla mia stessa fatalità. Ogni tanto mi lasciavo distrarre a seguire quegli strani e inusuali atteggiamenti che assumeva nel dipingere. Le lunghe gambe magre che contorceva in tante posizioni per apportare i suoi interminabili filamenti di ritocchi. Restavamo spesso inchiodati in lunghissime stasi introspettive. Ne uscivamo esausti e svuotati con gli occhi rivoltati nelle orbite, per aver guardato a lungo l’anima attraverso l’esofago della mente nel mondo sommerso dell’inconscio, ubriachi di amore per il sapere, e ce ne voleva di tempo per scrollarci dal letargo poetico e riabilitarci alla oggettiva realtà di sempre. Alto, magro con atteggiamenti da nobile decaduto, ma ben protetto dalle intemperie misericordiose che potessero scalfirlo. Grandi occhi a cupola ocrapoeta, buono come un vecchio santone. Con una eccezionale capacità di astrazione, in grado di isolarsi anche in mezzo a un esercito di intrusi. Parlava spesso a monosillabi, a formule, a versi, a parabole, spesso incisive e frustranti come il suo temperamento distaccato e nobilmente cortese. Stava lontano da tutto ciò che reputava superfluo, e disdegnava i ciarlatani, la volgarità, odiava la folla, il traffico, i buoni vicini che spiavano i suoi complessi, le sue fisime, le sue fobie. Amava la sua costante solitudine, l’introverso, il silenzio, la notte, i suoi versi, l’amore come può un vero poeta. Nessuno immagina quanto deve essere grande l’amore dei poeti. Deve essere una specie di adorazione di se stessi, come di una vita ridotta ed essenza di significato... Una coscienza a specchio dove si riflettono le poche immagini che lo riconoscono, su di uno sfondo di angosce e di paure ancestrali, le ansie orgasmiche di un mondo allo sbaraglio, verso derive ignote. Sensazioni ed emozioni parossistiche di eterna bohème. Lui, il poeta Anima, nel più assoluto e sacrosanto significato della parola. Riusciva a proiettare intorno alla sua persona una strana e suggestiva atmosfera di pacata serenità, come una sorta di energia radiante che transustanziava le cose e gli altri nel raggio d’azione delle sue facoltà. Sempre pronto a impugnare la penna per incidere le sue introspezioni letterarie su di una minuscola agenda, nei suoi momenti di gestazione poetica.

    In quella notte di quel giorno di quell’anno dell’inizio degli anni Sessanta, ricordo che mi ritrovai nei pressi della stazione, forse in preda a qualche crisi di solitudine, e dunque di rigetto per qualche storia spiacevole che mi era capitata. Quella fu la notte della grande rivelazione. Scelsi quella notte come principio della mia stessa fatalità, perché accadde qualcosa di diverso dalle tante altre notti che avevo vagabondato per le strade a caccia di movente per i miei soliloqui poetici. Così ebbe inizio questa grande avventura letteraria. Quantomeno scaturì la scintilla, quel quid misterioso per generare l’energia giusta per imprimere il moto perpetuo, e il ciclico succedersi di tracce di ricordi di reviviscenza d’immagini e sensazioni. Eppure c’erano state notti folli, notti da milleunanotte, poetiche fiabesche, tragicomiche, idilliache, d’amore e di avventura.

    Soltanto a distanza di anni, dopo aver rivisitato in una muta sequenza un passato da grande inquisito e inquisitore, ho iniziato a viaggiare nella camera buia dei ricordi, dove negativi di sequenze scorrevano nella mente in una proiezione emblematica. E specialmente quando la grande inquietudine degli anni ruggenti cominciò a vacillare e a mollare gli ormeggi per un lento viaggio verso la deriva dei sogni nel cassetto. In special modo, quando dopo anni di ricerca del famigerato inafferrabile Io che t’interroga e ti cresce dentro l’anima come un intruso che tenta di scacciarti dal tuo abitacolo, per renderti schiavo e succube del mondo, finché non resta l’ombra di te stesso, e butti la vecchia e inutile carcassa che eri prima, e indossi la nuova pelle tessuta dalla saggezza e dalla sapienza... Soltanto allora decidi di dare il via al rosario del mea culpa.

    Dall’alto la visione delle cose è sempre più chiara. Ma per arrivare in cima devi sacrificarti e mollare buona parte delle tue risorse di giustizia e ideali. Salvo per il grande esercito dei cialtroni, ben protetti dai poteri ‘preprostituiti’. Questi rappresenteranno per sempre le disgrazie del mondo. Ricordo a questo proposito la storiella che raccontava spesso un nobile intellettuale da strada. Uno che amava sbandierare in giro la sua sapiente cultura poetica. La regale aquila che, posatosi sulla cima di un monte, interroga un verme che trova tra le sue zampe: Come sei arrivato tu quassù in cima? e il verme le risponde: Strisciando strisciando io sono arrivato in cima.

    Dall’alto, come nella visione di un caleidoscopio, s’inquadra meglio la panoramica del tuo tempo andato, a rimuginare su ciò che è stato, e intercetti come un radar tutte le ecchimosi degli errori commessi, e la tumescenza delle colpe, e il vuoto incommensurabile del tempo inutilmente perduto a correre dietro ai pretesti più futili, alle illusioni di false conquiste e ai miraggi irraggiungibili. Soltanto dopo tanto tempo, dopo che la fatalità aveva percorso e inciso la sua inevitabile farsa, la commedia e l’epilogo, allora ho rimesso insieme i frammenti di fatti e avvenimenti di questa singolare storia, e ne ho riscontrata l’assoluta e autentica unicità. Ho scandagliato nel più profondo dei più piccoli elementi di storie le confessioni più segrete, nei momenti di sfogo e abbandono di tutti i personaggi di questa storia con accurata ricostruzione, come la composizione di un mosaico, in cui il gioco delle sfumature dà risalto al pregio dell’opera.

    Dopo aver impartita l’ultima estrema unzione al mio dissacrante libertinaggio, mi rullò il desiderio di abbandonarmi in maniera definitiva a quel senso di dovere che da troppi anni implorava aiuto e conforto. Non mi era rimasto più alcun attenuante, ne pretesto per continuare la fuga. Il mio tempo inutile si era dilatato oltre misura, tutti gli avvenimenti che l’avevano accompagnato nel suo andare si erano intasati della nostra storia. Una storia che faceva da sfondo e da cornice per circoncidere un passato ricco d’impulsi, di indagini introspettive che trascinavo ormai da anni in tutti gli angoli del mio mondo in cui gli avvenimenti mi spingevano, dove andavo a colmare e nutrire i miei momenti di estasi e delirio. Specialmente in un Sud ancora travagliato dalla peste anemica del caos più totale e dalle lamentose vicende di cronaca nera. Tante infinite piccole e grandi storie, che contribuiscono a mantenerlo costantemente in una sorta di frenesia elettrica, un interminabile delirium tremens esistenziale. Piccoli e grandi focolai di verità e menzogne che divampano e si spengono e si riaccendono in una fantasmagoria senza senso, o a senso unico, per lasciare il sapore inconfondibile di quel tipo di esistenza.

    Il vecchio e glorioso Sud, intasato di belligerante storia sul meridiano del tempo. Una storia cosparsa di allori e di glorie e di tragedie e di miserie e di speranza. Questo nostro vecchio Sud è la capitale mondiale della leggenda e della mitomania, per cui ha il potere di creare dal nulla martiri ed eroi e profeti, e distruggere e galvanizzare gerarchie di valori. Una specie di gigantesca piovra che allunga i suoi tentacoli a ventosa in tante direzioni, per succhiare come un’agave lo scarto di una società disarticolata e anchilosante. La megalopoli dell’ignoranza ignorata, della pseudo sapienza, del corruttibile e del corrotto, della verità e della leggenda, dell’infernale e paradisiaco della poetica, e di tutto e di niente e così sia...

    Era una di quelle notti in cui avviene la rivelazione non si sa da quale dimensione transonirica. Uno di quei momenti in cui decidi di tirare la somma e la sottrazione di una vita ridotta a essenza di significato. Una vita che cominci a considerare non più importante di un bel paio di scarpe che una volta consumate puoi buttare nel ricettacolo delle cose inutili, pronto a cambiarle per continuare a bighellonare per le strade del mondo, a sgusciare tra la folla, a saliscendere scale di case, di chiese, di uffici, di bordelli. La vita fa esattamente la stessa cosa, cozza contro l’esistenza e si consuma lentamente, con la sola differenza che, quando diventi una vecchia ciabatta in ritirata strategica, sarebbe più dignitoso programmarti un bel suicidio silenzioso, per uscirtene da eroe in punta di ciabatta dalla commedia umana.

    Il Cristo non c’è più, il Cristo è morto. Come è fredda e buia la terra che amavo. Sono solo e stanco, vorrei piangere e gridare, guardo le cose e gli altri che non sanno, forse è meglio così, la mia nuova via mi attende...

    Questi versi poetici erano stati il risultato e la conclusione di qualche anno di gloriose infoiate sull’argomento divinatorio del soprannaturale, con il poeta Anima nella nostra alcova dei sogni, del nostro studio. Si dormivegliava di notte a sbrogliare i problemi del mondo, a scrivere epigrafe e aforismi e allocuzioni poetiche o a dipingere da buoni maniaci del colore il tormento e l’estasi delle storie del mondo. In questo modo si aveva la sensazione che neanche al tempo fosse permesso di entrare in quell’alcova del nostro studio. Avevano libero accesso soltanto libri e topi, con i quali condividevamo i nostri momenti di noia e di estasi, a cacciare gli uni e sublimare gli altri. Ogni tanto ci prendeva la smania di attaccare a suonare e cantare le nostre canzoni di protesta per un mondo migliore, e poi le serenate alla spirituals da Franchito, con il suo moncone di clarinetto, e poi con le sue risate a trombetta, e si finiva con lunghe sbudate, batracesche risate di festa, e poi con qualche poesia di Neruda o Garcia Lorca a mo’ di tragedie teatrali, e poi discorsi filosofici, e infine sulla strada, a interrogarci su quel tetto di stelle. Ogni tanto capitavano quei deliri di festa, ubriachi di gioia premeditata, e nessuna droga al mondo la poteva eguagliare, ne sostituire, perché era una gioia profonda e catalitica, condizionata dal messaggio di fede che ruotava intorno al nostro ego di artisti allo sbaraglio, come una forza centrifuga intorno al proprio asse.

    Questo era quanto avveniva nella nostra stanza dei sogni nel cassetto. Ricordo che quella fatidica notte della mia reviviscente rivelazione, ero appena sgusciato da una di quelle sarabande di festa. Il poeta era crollato come uno straccio dalla stanchezza da quella movimentata serata, e gli altri, dopo aver alzato il gomito più del necessario, dopo aver mischiato un insieme d’intrugli tra birra e vino e whisky e gin e coca e caffè, se ne andarono blaterando che non era giusto che io li mettessi gentilmente alla porta, perché avevo un fottuto bisogno di pace. Secondo loro non si era raggiunto ancora il terzo stadio per concludere la serata, mentre io e il poeta, dopo una strizzatina d’occhio, decretammo di aver raggiunto e largamente superato l’ultimo stadio.

    Il che voleva dire filare via alla svelta, perché i padroni di casa ne avevano le scatole piene e che era stato tutto molto bello, e che era molto importante troncare tutto sul più bello prima che diventasse brutto e insignificante.

    Pare che fosse una di quelle sere in cui festeggiavamo la venuta del Persico da Milano, il che voleva dire una montagna di mangime con polli e conigli allo spiedo, e metri di salsicce che arrotolavamo intorno al collo come trofeo della serata, dalla quale si alimentava il bisogno di buttare giù una buona dose di brindisi. Poi ci davamo da fare a massaggiare gli strumenti musicali, e ne veniva fuori quel ben di Dio di spettacolo estemporaneo. Fu una delle rarissime serate che avevamo preso quella drastica decisione di troncare sul più bello quella serata di festa. Eravamo sempre andati avanti fino a stanchezza completa, cioè fino a quando il Persico non ce la faceva più a tirare il mantice della fisarmonica impazzita, e io le dita anchilosate per correre su e giù per la tastiera della chitarra, e il cugino Beppe si ritrovava con le mani gonfie per aver picchiato troppo sulle tumbe, e Franchito il fiato corto per il troppo soffiare nella tromba e nel clarinetto.

    Comunque, se non ci fosse stata quella improvvisa decisione di mettere tutti alla porta, forse tutta questa storia non avrebbe avuto ragione per essere raccontata, perché il personaggio Davide Paradiso non sarebbe esistito, e lui in fondo rappresenta la chiave di lettura e dunque il simbolo e l’emblema di un rarissimo prototipo di essere umano. Dunque, uno stimolante pungolo per alimentare e toccare i vertici di allucinanti considerazioni e introspezioni emotive della nostra natura di bohémien in cerca di gloria. Mi sono spesso chiesto di tutte quelle circostanze e coincidenze di fatti e misfatti della nostra vita sbracata di libertà incondizionata, ma poi ho affidato tutto al Dio caso, e ho riscontrato le stesse fatali analogie in tante altre storie del vecchio mondo fino ai giorni nostri, e forse in quelli dei secoli futuri. È soltanto una questione di eredità che si perpetua nel tempo. Le vecchie generazioni lasciano solchi e segmenti del loro passaggio e le nuove ne cementano il significato.

    Altro personaggio in cerca d’autore, che conobbi in una delle tante scorribande notturne di feste poetiche, fu Giuseppe D’Andrea, matematico e fisico, il braccio destro del Grande Caccioppoli candidato al premio Nobel per la fisica. Un personaggio al di sopra e al di sotto di ogni sospetto, unico e imprevedibile. Poeta e pittore, filosofo e scienziato, una via di mezzo tra il genio e un pazzo visionario. Un’anima sensibile nascosta dietro a un carattere all’apparenza da guerrigliero, sempre pronto ad alzare il pugno contro il mondo della menzogna di istituzioni arcaiche e troglodite, gridava nei suoi interminabili sermoni, e nelle sue poesie esplosive. Con una cultura da biblioteca, ligio ai suoi doveri di ordinario di estetica e di logica matematica all’università di Napoli.

    Con lui ho appreso i primi rudimenti delle scienze, della fisica e della cosmologia, attraverso i nostri incontri e scontri sullo scibile umano. Il suo comportamento fuori dagli schemi tradizionali d’insegnamento lo posero in un’ottica rivoluzionaria e reazionaria rispetto ai severi regolamenti disciplinari dell’università, che gli procurarono una serie di controversie giudiziarie a opera di alcuni colleghi che lo tenevano sotto tiro, incapaci di difendersi poiché vittime dei suoi attacchi di logica della verità, per le quali rischiò l’espulsione dall’università, accusato di anarchia, dispotismo e di essere un sovvertitore dei sani principi d’insegnamento, e dunque incapace d’intendere. Ma la sua intraprendenza e capacità oratoria e preparazione culturale lo scagionarono dalle accuse infamanti, e dunque ne uscì vittorioso, riuscendo persino a rendere meno ingessato e stereotipato e più democratico il rapporto tra allievi e professori, del quale sistema se ne fece un gran parlare in quel periodo storico rivoluzionario del Sessantotto, durante il quale fummo protagonisti a Napoli con accesi dibattiti e conferenze sull’argomento.

    Fu un lungo ventennio di intensi rapporti e scambi creativi e culturali sullo scibile umano e sulla natura della fisica sperimentale, coniati a ruota libera nei vari passaggi da uno all’altro nei miei studi e gallerie d’arte, che ogni tanto ero costretto a lasciare per fallimenti economici, e che riprendevo non appena arrivava una ventata di ossigeno di benessere, con una caparbietà da incosciente idealista. In combutta con il gruppo dei masnadieri intellettuali e artisti che seguivano e inseguivano il mio operato. Fino alla sua morte, dovuta a una infezione da tetano, sempre per la sua folle e irrazionale amore per la natura. Nel caso specifico, dovuto al fatto che quando si feriva, e questo succedeva spesso per la sua propensione a costruire modelli di meccanica ed elettronica e a modificare qualche congegno della sua auto, lui da bravo matematico irrazionale, come tutte le bravi menti matematiche che per leggi ineludibili degli opposti paralleli della natura delle cose, posseggono in egual misura la logica dei contrasti della realtà delle cose; per disinfettarsi, prendeva un pugno di terra e lo spargeva sulla ferita. Non c’è niente di meglio della madre terra per curarsi, esclamava sornione, alle nostre domande apprensive. Una di queste cause gli è stata fatale.

    Ora, a proposito della genialità della natura umana, devo presentare un altro modello di personaggio, visto da un’altra angolazione, e cioè quella della assoluta e pura ignoranza genuina e semplicità carismatica. Lui, Antonio Persico, l’unico testimone oculare di tutte le mie scorribande di successi e sconfitte che erano capitate durante i miei soggiorni Milanesi a caccia di gloria. Lui era il caro fratello di avventure. Un prototipo di personaggio assolutamente unico, il più strampalato, svampito, stravagante, geniale, disponibile, generoso e irripetibile, che il consorzio umano potesse partorire al mondo. Una via di mezzo tra un attore tipo Anthony Quinn a cui somigliava in tutto e per tutto e un pittore e musicista delle avanguardie d’inizio secolo. Comunque con atteggiamenti e gestualità da autentico attore della commedia della vita, ma analfabeta, dovuto a un aneddoto alquanto strambo come lo era il padre che per il fatto che era un patito della fisarmonica, che riusciva solo a strimpellare ritirò il figlio dalla scuola per fargli studiare quello strumento, così che Antonio leggeva la musica meglio del giornale, e divenne un virtuoso alla fisarmonica.

    Quando la famiglia si trasferì da Caracas in Italia e dunque a Benevento, Antonio conquistò numerosi fans per la sua bravura ed eccentricità della sua personalità di artista esistenzialista. Il suo italiano era un misto del dialetto di Puerto Cabello, dove era cresciuto fino ai primi anni della giovinezza, al dialetto napoletano che si usava in famiglia così che ne veniva fuori un linguaggio di tutto rispetto per sbellicate di risate d’avanspettacolo in numerose occasioni. Quando venne in visita alla palestra di pesistica che gestivo, e per il fatto che in Venezuela il Persico aveva disputato diversi incontri di pugilato con un discreto successo, inevitabilmente la nostra conoscenza divenne amicizia fraterna. La mia passione per la musica come chitarrista e ai ritmi sudamericani rinsaldò la nostra amicizia nel tempo, e mettemmo su un complesso tipico del folklore afrocubano, e per numerosi anni proseguimmo quell’attività suonando nelle taverne e osterie e night e discoteche e feste private e feste di piazza e teatri improvvisati. In questo tempo riuscii in parte a scrollarlo da quella condizione di emigrante ignorante, non che diventasse un intellettuale, ma gli modellai la mente a mia immagine e somiglianza, così che fece un salto di qualità da autentico artista, perché lo avviai alla pittura e alla scultura e all’amore per la conoscenza della storia dell’arte, tanto che iniziò tutta una serie di autentici capolavori che sbalordivano per la varietà dei soggetti, e una tavolozza tra l’impressionismo il surreale e il metafisico. Era un autentico diavolo di artista

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