L'uomo diviso: La vita del cardinale Paolo Burali d'Arezzo
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L'uomo diviso - Giovanni Burali d'Arezzo
Reliquie
Mio nonno era quello che oggi si definisce un cattolico non praticante. Pubblicamente santificava le feste e si sottometteva all’autorità, ma non entrava in chiesa tranne che nei matrimoni; nel privato, come gran parte dei cattolici, non diceva le preghiere e viveva a prescindere dai principi etico-morali del cattolicesimo. Tuttavia, aveva una predilezione per un uomo santo suo antenato, il Cardinale Paolo Burali d’Arezzo di Itri (che mio nonno chiamava il Venerabile), di cui in paese si era quasi persa la memoria, benché tra i miracoli a lui attribuiti tre fossero avvenuti a Itri: la guarigione di suor Maria, professa del monastero di San Martino, afflitta da febbri e slogatura delle vertebre; quella istantanea di Niccolò, colpito da emiparesi e accorciamento della gamba sinistra; infine, quella improvvisa di suor Costanza, monaca del suddetto monastero di San Martino e immobilizzata dall’artrite.
Mio nonno teneva un ritratto del Venerabile al centro del tavolo della sala, una tela cartonata poggiata al vaso di fiori con stampata sul retro la preghiera. Era un piccolo altare domestico che quotidianamente spolverava e abbelliva con rose fresche di giardino. Il ritratto dalle dimensioni di un A5 era la rappresentazione del particolare di un affresco sbiadito dal tempo, abraso in più punti. Il primissimo piano del Cardinale sembrava immerso in una nebbia cilestrina, i contorni evanescenti, solo gli occhi illuminati e vivi.
Molto più avanti negli anni mi capitò di accompagnare mio nonno ad un convegno sulla figura di Paolo Burali d’Arezzo nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Itri. L’occasione era l’esposizione di una sacra reliquia, un brandello della tonaca cardinalizia indossata durante l’investitura del 1570. Il frammento di tessuto, contenuto in un vetrino quadrato di dieci centimetri di lato, era incastonato in un grande passepartout di velluto color porpora incorniciato d’oro. Terminato il convegno, prima di riaccompagnare mio nonno a casa, mi soffermai sul ritratto del Cardinale che ancora campeggia in un ovale sulla parete laterale della cappella della chiesa, e fui colto alla sprovvista. Il ritratto era quello di un uomo comune in veste cardinalizia appena uscito da un’accurata toeletta dopo un lungo sonno ristoratore: lindo, ben rasato, sorridente e sereno, la pelle del viso rosea e distesa, i tratti di una delicatezza imberbe, quasi androgina. Insomma, un Venerabile rovesciato rispetto all’immagine annebbiata dell’altarino nella sala del nonno. Nell’affresco di fattura artigianale il porporato compariva genuflesso su un inginocchiatoio, non in preghiera, ma intento a scrivere con uno stilo su un foglio di pergamena. Il foglio, posto di scorcio, mostrava il testo vergato in corsivo con inchiostro nero. Ricordo che provai a decifrarne le parole, ma l’affresco era in posizione molto elevata; inoltre, la grafia appariva naturalmente rovesciata rispetto al punto d’osservazione. Fui tentato, perciò, di sollevarmi su un banco. Infine mi rassegnai, persuaso che il pittore avesse disegnato quelle linee svolazzanti solo per dare l’illusione di un testo scritto. In ogni caso, il motivo per cui l’artista avesse rappresentato Paolo Burali nell’atto di scrivere mi risultava oscuro. Per quello che sapevo allora, la sua esistenza eccezionale dipendeva più da atti che da parole. E poi, per me Paolo Burali d’Arezzo era ancora una nube di tanti colori: l’oro della regalità, il grigio della pelle squamata dei vecchi, il rosso della porpora e del sangue, il bruno della terra, l’azzurro dei fulmini. Come diceva mio nonno, il sant’uomo guardava il mondo dall’alto con sguardo severo e infallibile, ma poteva pure essere amichevole, protettivo e a volte, aggiungo io, complice. Prima di dormire recitavo la preghiera stampata dietro il ritratto sul tavolo della sala: «Oh Dio che hai manifestato in Paolo Burali d’Arezzo le multiformi vie del buon cristiano, concedi a noi il conforto della sua protezione per seguire te con tutto il cuore. Per Cristo nostro Signore. Amen». Nelle preghiere recitate dai bambini non potevano esserci parole sconosciute. Quando queste provavano a imporsi, nella bocca e nella mente si trasformavano per lasciare l’ignoto sterminato ed entrare nel piccolo universo linguistico dell’infanzia. Benché facile da memorizzare, la preghiera era difficile perché conteneva una di queste parole. La soluzione dell’enigma non fu per nulla semplice, ma alla fine la trovai: multiformi diventava molti forni. Dio aveva mostrato, attraverso Paolo Burali, che la perfezione cristiana poteva essere raggiunta percorrendo vie disseminate di forni, cioè, fuor di metafora (procedimento che mi era ben chiaro), attraverso una vita di atroci sofferenze. La soluzione scioglieva l’enigma, ma non era incoraggiante. La preghiera mi dava inquietudine, non capivo perché il Venerabile avrebbe dovuto convincere il mio cuore a seguire un Dio che lo aveva fatto tanto soffrire.
Santino
Fronte. Sotto la tiara il volto spazioso a tutto campo dalle linee quadrate, austere, dure, la pelle del viso grigio pietra, occhi leggermente socchiusi, chiari, inquieti e profondi, il naso marcato, lievemente arcuato, le labbra sottili, nere, dischiuse.
Retro. Paolo Burali d’Arezzo nacque a Itri nel 1511 con il nome di Scipione. Laureatosi all’Università di