Un Panda Estinto: Il mestiere dell'inviato speciale
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Un percorso dentro la memoria emotiva, non ripescato dagli archivi, utile a chi vuole entrare nel pianeta comunicazione. Non bastano scuole e master per abitarlo: serve conoscere tecniche, strategie e perfino i trucchi del cronista spericolato e romantico, al tempo della vecchia lira. Ma anche confessioni a sorpresa di un collezionista di vite altrui, diventate a caro prezzo la sua. Non un manuale. Semmai un romanzo di in/formazione.
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Un Panda Estinto - Vittorio Monti
Vittorio Monti
UN PANDA ESTINTO
Il mestiere dell'inviato speciale
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.
commerciale@giraldieditore.it
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ISBN 978-88-6155-894-6
Proprietà letteraria riservata
© Giraldi Editore, 2021
La foto in copertina è di Lucrezia Monti
Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo
IN PRINCIPIO FU UN SOGNO
Vita da giornalista. Non tutte uguali. La mia così poco uguale alle altre. L’ho passata a scrivere articoli. Ben poche volte in redazione. In sostanza mai, almeno per i trent’anni e passa al Corriere della Sera. Strana condizione, quella di avere come casa il mondo, non via Solferino 28, Milano. Perciò sono sempre stato in soggezione, in quelle gloriose stanze al piano nobile, soprattutto nel fascinoso salone Albertini. Molto a mio agio, invece, quando da pastore errante vagabondavo per entrare nell’esistenza del prossimo sconosciuto, per raccontare vicende che hanno fatto cronaca o addirittura storia. Quasi un intruso, nel tempio milanese. Anche se un’impronta statistica nella sua storia l’ho lasciata, con una lunghissima collana di servizi preceduti dall’etichetta dal nostro inviato
, la qualifica inseguita come un’incoronazione da chi si innamora del mestiere di giornalista. Non ho mai sentito un giovanotto alle prime armi nutrire la speranza di diventare capo servizio, redattore capo o addirittura direttore. Inviato speciale
è diventato il sinonimo di un mestiere da film, ma per effetto ottico sbagliato, poiché la qualifica contrattuale è sempre stata di minoranza nell’organico redazionale. I sogni sono anarchici, galoppano liberi e generano il mito, come quello ingenuo dell’accesso ovunque senza pagare, basta dire stampa
e si aprono tutte le porte. Sbagliato. Sono più quelle che si chiudono. Spesso sbattute in faccia. A chi pensa di potere andare a scrocco, in virtù del tesserino, consiglierei di scegliere altre strade.
Ho sentito direttori, forse più diplomatici che entusiasti nei giudizi, definire gli inviati speciali l’argenteria della testata
. Difficile resistere al complimento. Magari sono stato soltanto un cucchiaino da caffè, altri colleghi i vassoi scintillanti. Ci vuole poco a montarsi la testa. Per non farmi inebriare dai complimenti, ho sempre tenuto bene in mente che gli argenti sono sfoggiati nelle occasioni speciali, mentre per l’uso quotidiano vanno meglio i piatti di ceramica. Di qui il dubbio che l’etichetta prestigiosa servisse per compiacere e tenere a bada le bizze professionali delle grandi firme. Per quanto mi riguarda, ho misurato la stima goduta più dai fatti che dalle parole, ho dato importanza alla concretezza dei riguardi ricevuti. Macchina con autista per portarmi alla stazione o in altra città per un servizio urgente, ricorrente approvazione delle mie proposte e accettazione di varie critiche, aumenti di stipendio, trattamenti speciali in nota spese, oggi si direbbe premium. Essendo risaputa e diffusa la disponibilità economica del Corriere, la cosa che più mi appagava era l’affetto da parte dei big del giornale. Sempre per mantenere i piedi per terra, mi sforzavo di pensare che le gentilezze fossero dovute in buona parte al fatto di non intasare i corridoi redazionali. Il lavoro a distanza ha un vantaggio: meno occasioni per mormorii, malumori, invidiuzze, beghe varie. Insomma, lontano dagli occhi, più vicino al cuore. Un paradosso da studiare, ora che lo smart working ha fatto irruzione nelle nostre vite. Forse sono stato una cavia ante litteram. Con me il sistema ha funzionato.
Per chi aveva cominciato da ragazzo di bottega, retribuito poco o niente, faticatore continuo in cerca di grandi fatti che restavano quasi sempre soltanto notiziole, un bel cambio professionale l’ingaggio al Corrierone. Quando con Piero Ottone, mio primo direttore, usavo il tu fra colleghi, ero sempre titubante. Temevo di essere rimesso in freezer con un secco Giovanotto, stia al suo posto
. Invece proprio quell’algida incarnazione di autorevolezza, presto mi chiese di scrivere l’articolone di terza pagina, ascesa all’olimpo del giornale. Consacrazione sognata e insperata. Le stesse sensazioni che calano su un giovane calciatore quando viene lanciato da titolare in prima squadra.
Sì, in via Solferino mi hanno sempre voluto bene. In cambio, ho dato la vita. Con intensa felicità. Felice di lavorare a Natale e Capodanno, il primo maggio e a Ferragosto. Non ho mai passato una festa in famiglia, domeniche comprese. Bisogna essere un po’ matti, oppure molto innamorati: del Corriere più di qualunque donna. Il contratto di lavoro, che cos’è? Ogni tanto trattavo per farmi ritoccare la busta paga, in realtà non per i soldi ma per ottenere una concreta prova d’amore, come si chiedeva alle fanciulle titubanti. Avrei scritto anche per la metà dello stipendio, per fortuna sono riuscito a non farlo mai capire all’editore. Sarei entrato in depressione, m’avesse costretto a prendere ogni anno tutte le ferie. Un direttore premuroso provò a sostituirmi con un collega, visto che il servizio stava diventando una faticaccia infinita. Ma si arrese subito. Capita anche a Mourinho di fare i conti con qualche giocatore che non vuole tornare in panchina. Nella mia visione professionale, il concetto di turnover non ha mai avuto diritto d’asilo. Appena assunto, ero partito da casa il 28 giugno per tornarvi – un servizio tira l’altro come le ciliegie – il 2 settembre. Per niente contento di interrompere la serie. Dicono sempre che partire è un po’ morire. Per me, il contrario: peggio tornare. Stare fermo, non viaggiare, non vivere dentro la notizia: ecco il vero male del giornalista drogato dalla voglia di raccontare la cronaca e di andare a cercarla dove si svolge. Vuole poter dire presente
su ogni fatto importante, senza farsi limitare dalla fatica e dai rischi. È l’essenza del mestiere, la vocazione. Scrivo questo racconto dedicandolo a chi, come me, ha identificato il giornalismo di scrittura nella vita (e in molti casi l’ha persa).
Oggi qua, domani là. Ci scherzavamo, sulla nostra esistenza un po’ balzana e un po’ zingara, fra inviati speciali dei diversi giornali, quella comitiva cartacea che si componeva in occasione degli eventi e si scomponeva appena il fatto perdeva appeal. Gente mattoide. Chi più chi meno. Ma viva, scapigliata, creativa. Ciascuno con la sua storia. A volte leggenda. Come quella di Mario Cicelyn, inviato de Il Mattino di Napoli, famoso perché gli strilloni di strada lo reclamizzavano urlando alla Tony Dallara: Chiagnite, chiagnite. Oggi l’articolessa di Cicelyn
. Tra noi si mormorava che fossero una claque ben ricompensata. Mario ha sempre sorriso compiaciuto e mai negato. Giornalisti capaci di portare a casa l’articolo, anche ci fosse da superare una montagna con difficoltà di sesto grado superiore. L’ossessione ricorrente: il timore di arrivare sul luogo dell’evento a cose fatte, quando gli altri avevano già scritto e trasmesso. Soltanto uno, il sublime Graziano Sarchielli del Giorno, non ho mai visto sotto tensione causa ritardo. Per il semplice, decisivo motivo che non è mai arrivato puntuale. L’eccezione poteva realizzarsi a San Gimignano, quando due reclusi violenti si ribellarono prendendo ostaggi. L’assedio dei carabinieri al carcere andò avanti tutta la notte, dunque impossibile perdersi il finale di partita. Con noi testimoni, combattuti fra la paura di finire in mezzo a una sparatoria e la necessità di seguire in diretta l’epilogo incombente. Nella tarda mattina, con tutto comodo, apparve anche Graziano, sigaro in bocca. Presto annoiato, e in modo visibile, dal prolungarsi dell’attesa, come accade a chi chiede molte cose alla vita. Soltanto molte ore dopo, un tempo sospeso di logorio e tensione, scatenate l’inferno, come urlano gli speaker alla partenza di un Gran Premio. I carabinieri scattano all’assalto del carcere, nel cuore storico di un paese da cartolina. Una sequenza di spari. Noi costretti a ripararci dentro un portone, dietro una macchina, per terra, ovunque pur di non restare in mezzo al fuoco, tra attaccanti e assediati. Finito il frastuono ci cerchiamo, con un appello ansioso. Dove sei? Tutto a posto? Poco alla volta la comitiva si ricompone. Ma Graziano non c’è, chi l’ha visto? È l’unico assente. Cominciano le ricerche, cresce lo spavento. Finché arriva un urlo. Non per il peggio, per il meglio. Sarchielli sta sopravvenendo tranquillo, sempre sigaro in bocca, reduce da una bella scampagnata. Ha una borsa gonfia. Ragazzi, porto olio bono e vino rosso per la cena. Ma che è successo?
. Il serafico, caro compagno di serate in allegria e zingarate varie, non aveva resistito all’abitudine di mancare nel momento clou. Un eterno presenzialista che all’incontrario va.
Comitiva di maschi, quella degli inviati, perché nella specialità allora le donne scarseggiavano. Una gang maschile e maschilista, però sempre pronta ad allargare la cena ad amiche varie, ingaggiate sul posto o portate al seguito per il relax serale. Qualcuno raggiunto dalla moglie, furba strategia per addormentare i sensi di colpa domestici o per non ribaltare matrimoni traballanti causa perenne nomadismo. Sul filo di certe cronache, ho visto amanti salire al rango di consorti e le signore legittime rotolare fuori gioco. Spigliate laureande sono state premiate, per la disinvolta dedizione, con utili spintarelle. Fidanzate instabili hanno scambiato il partner con un modello nuovo. A volte guadagnandoci, altre no. Il bello e il brutto delle scommesse. A quanto mi risulta,