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La porta segreta. Alphonius il Rasenna: Alphonius il Rasenna
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La porta segreta. Alphonius il Rasenna: Alphonius il Rasenna

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About this ebook

La Maremma non è solo paludi e vacche dalle grandi corna a lira. Negli anni Sessanta era anche una vasta area dove era facile trovare vasi e bronzi antichi con una nottata di lavoro. La nostra storia inizia da qui, con sei giovanotti in cerca di fortuna e tanta voglia di trovare la tomba buona. Il miracolo avviene, ed è uno di quelli eccezionali: una tomba intatta, piena di oro, vasi attici e affreschi meravigliosi. Così ricca da sistemarsi per un paio di vite. Qualche pezzo viene venduto al mercato clandestino, ma poi la squadra viene scoperta e il sogno va in frantumi. Inizia a questo punto il racconto del grande cratere trovato nella tomba che uno sconosciuto ceramista di Vulci - Alphonius - ha firmato. Non appena Anna, l'archeologa, scopre il nome, la storia si srotola indietro di oltre 2.500 anni raccontando la formazione e la crescita del protagonista. In mezzo il quotidiano della grande lucumonia vulcente, l'incontro panetrusco al Fanum Voltumnae, i commerci e un lungo viaggio fino ad Atene, per imparare dai maestri greci. Il sogno a questo punto diventa realtà. Non solo l'arte ma anche l'amore. Thalia, figlia del vento, compare nella vita di Alphonius e ne sconvolge l'esistenza...
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 18, 2021
ISBN9791220346665
La porta segreta. Alphonius il Rasenna: Alphonius il Rasenna

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    La porta segreta. Alphonius il Rasenna - Stefano Girardi

    - 1 -

    4 settembre 1965, ore 18.30

    Il coniglio si era rifugiato nella cassetta con il numero ventotto e il gestore del gioco lo aveva immediatamente preso per le lunghe orecchie e consegnato al vincitore. Gli altri scommettitori imprecavano alla sfortuna guardando gli occhi rubino della bestia che aveva trovato un nuovo padrone. Il gioco era semplice e allo stesso tempo imprevedibile. I giocatori puntavano poche lire per scegliere una cassetta di quelle messe in cerchio. Erano cassette da frutta usate, alcune di forma diversa. Di identico avevano solo il colore bianco del numero scritto sopra. Ciascuno dei partecipanti al gioco sapeva che le puntate complessive facevano una somma sufficiente per comprare almeno cinque conigli, ma ogni giocatore era convinto che la propria sarebbe stata scelta dal coniglio per renderlo vincente. Completate le scommesse, e dopo aver messo all’asta gli ultimi numeri disponibili, il banditore liberava l’animale da un sacco. Le grida del pubblico salivano rincorrendosi come le onde e lo spingevano a cercare un nuovo rifugio. Per cambiare proprietario il coniglio aveva scelto la cassetta ventotto, fingendo inizialmente di infilarsi nella quindici. Questa aveva così perso e la ventotto vinto.

    Mentre lasciavano la piccola arena gettando a terra i biglietti usati, i perdenti puntarono in ordine sparso verso la piazza, attratti dallo stand dove il fumo indicava la presenza del braciere e l’odore di salsicce la scia per raggiungerlo.

    Il giovane vincitore mosse nell’altra direzione, circondato dagli amici che condividevano con lui il momentaneo successo. Era ansioso di arrivare a casa per mostrare il premio della sua audacia, e di tornare alla festa perché si avvicinava al suo momento più intenso. Dal bar delle Quattroruote sei avventori controllavano quanto succedeva lungo il viale e ognuno di essi, a turno, commentava i passanti che sfilavano sotto lo striscione bianco. Delle due querce che aprivano il viale alberato la più grande era chiamata «l’albero della maldicenza» a causa dei pettegolezzi che aveva ascoltato nella sua lunga esistenza. Venivano legate tra loro ogni anno da quel cordone che portava sempre la stessa scritta: FESTA DELL’UNITÀ.

    Da un anno all’altro cambiava solo la data e questa volta era stato aggiunto un sottotitolo: diciannovesima edizione, perché la sezione locale aveva iniziato la propria attività dopo la proclamazione della repubblica. Era già da un anno che il segretario del partito sollecitava i compagni: la festa del 1965 dovrà diventare memorabile!

    Per questo motivo tutto il viale era occupato ormai da tre giorni dai banchi degli ambulanti. I più conosciuti erano due: Mosconi, il venditore di frutta secca che smerciava cartocci di noccioline, e Marco, il sellaio, che approfittava della festa per mostrare gli stivali di cuoio, le selle alla maremmana e i finimenti. Naturalmente non mancavano i banchi alimentari, con i pecorini locali o le coppiette essiccate, né il porchettaro, che scendeva apposta da Bagnaia per fare concorrenza ai macellai del posto e sfidarli sulla cotenna più croccante.

    La sezione del partito era stata particolarmente attiva per quell’anniversario e le attrazioni che aveva messo in programma erano molte. Nel pomeriggio si erano svolti il palio dei cavalli, nel campo dietro all’ospedale di San Sisto, e quindi i giochi di piazza, come quello del coniglio o la pesca dei premi con la canna. La sera precedente, venerdì, il culmine della festa era stato l’albero della cuccagna, con i giovanotti del paese organizzati in squadre e determinati a conquistare sulla sommità di un lunghissimo palo i premi che vi erano legati. L’abilità dell’aspirante vincitore era ripulire il grasso, messo sul palo per rendere difficile la salita, e arrivare quanto più in alto, fino a raggiungere la sommità, dove i premi erano appesi su legni messi a croce. La difficoltà dell’impresa impediva la vincita di un concorrente solitario e richiedeva invece strategie elaborate e molto lavoro di squadra. I vincitori erano perciò sempre numerosi e membri di un gruppo e finivano il gioco tutti imbrattati di pece, sabbia e segatura. Si riducevano in questo stato solo per conquistare i premi in palio e quindi condividerli in una collettiva abbuffata, che si sarebbe svolta sicuramente in un casale di campagna.

    Per quel sabato sera il programma della festa prevedeva invece la cena in piazza e musica dal vivo. La giornata si sarebbe chiusa prima di mezzanotte con i fuochi d’artificio così da lasciare ai presenti un ottimo ricordo della festa e dei suoi organizzatori. L’estate aveva svoltato da due settimane verso il suo declino, ma le serate erano ancora calde e piacevoli e girare all’aperto era ancora più consigliabile che stare appiccicosi a letto.

    I sei fedelissimi del Quattroruote continuavano a controllare i loro concittadini che si avviavano verso i tavoli. Alzando il cappello salutarono il brigadiere e il suo appuntato di pattuglia a piedi con la tradizionale bandoliera bianca di traverso sul petto. Poco prima era passato anche il comandante dei vigili, che si distingueva per la sua divisa bianca, chiaramente di almeno due taglie più piccola del necessario. Chi se lo trovava davanti era invogliato a mettersi defilato, tanto era concreto il pericolo che qualche bottone dorato partisse di colpo dalla giubba tesa.

    Al rintocco della mezza, dopo le nove, i musicisti abbandonarono il proprio tavolo, tirandosi dietro i bicchieri e i fiaschi di rosso che avevano ricevuto insieme alla cena. Raggiunsero il palco non completamente dritti, prendendo posto, e si accordarono per attaccare tutti la stessa canzone. Il maestro ne scelse una semplice, così che avrebbero potuto suonarla anche a memoria; alzò il braccio destro e al quattro dette il via alla musica.

    Era una polka molto allegra e accattivante e molte coppie uscirono dai tavoli per cominciare a ballare, tutte euforiche e con la stessa gioia dei topi nella favola del pifferaio magico. Il volume della musica cominciò a crescere a mano a mano che i danzatori aumentavano di numero.

    Ennio fece un cenno ai compagni e questi si confermarono uno l’altro che era ora di andare. L’uscita fu molto discreta, due alla volta, come avviene al termine di un pomeriggio a briscola. Apparentemente sembravano amici che avevano passato la serata al bar e che ora si avviavano alle loro case.

    In realtà erano una delle squadre di scavatori più attivi.

    Mario era il più giovane. Era cresciuto giocando con i vasi attici che il padre e i fratelli maggiori nascondevano nel magazzino dell’azienda, in mezzo ai mucchi di grano accatastati dopo la trebbiatura. Piccolo di statura, ma muscoloso e sempre abbronzato per i molti giorni al lavoro sui campi, aveva fatto il militare a Torino e raccontava sempre delle sue conquiste piemontesi. La volta che tornò in licenza malconcio e con un occhio scuro si giustificò raccontando di una caduta accidentale, ma i maliziosi dicevano che le aveva prese per la sua arroganza. La passione per le tombe era così intensa che il fatto di poter ricavare un beneficio dal commercio clandestino era un aspetto trascurabile. Avrebbe partecipato e scavato per ore, anche sotto la pioggia, solamente per essere presente all’apertura della porta e sperare nella visione di un sepolcro inviolato.

    Fabrizio, l’amico più stretto, era anche lui figlio d’arte. Il padre aveva scavato nell’epoca d’oro, quando i primi trattori avevano cominciato a dissodare le terre del latifondo Torlonia. I loro aratri avevano il vomere alto più di un metro e quasi ogni mezz’ora riportavano alla luce pezzi di lastre che segnavano il punto dove era sepolto qualcosa. Quando l’attività clandestina si era trasformata in commercio ed erano aumentati i controlli da parte del ministero, suo padre era riuscito a farsi assumere agli scavi ufficiali di Vulci e quindi poteva conoscere i turni della sorveglianza notturna. Fabrizio si era abituato fin da piccolo a vedere in casa pezzi di ceramica che cambiavano mano o che arrivavano da contadini che si erano improvvisati archeologi. Aveva la fronte ampia e un modo affabile di trattare le persone, ma il suo comportamento non era sincero e lasciava trasparire l’ambizione di ricavare a ogni costo il profitto personale.

    Decimo era il più anziano del gruppo e il suo nome ricordava che la sua era una famiglia numerosa. Molti dei suoi fratelli e sorelle avevano avuto la sfortuna di prendere la Spagnola e avevano vissuto solamente alcuni anni. Lui era scampato a quell’epidemia perché molto più robusto fisicamente e perché, quale ultimo arrivato, aveva avuto a disposizione il latte materno che lo aveva probabilmente protetto più degli altri.

    Il quarto della squadra era Tonino, il figlio del macellaio di piazza, che si era unito alla comitiva solo nell’ultimo periodo, pretendendo di essere accolto dopo aver segnalato un buono scavo. Un anno prima aveva accompagnato il padre a un podere di Cavalupo per acquistare un vitellone e aveva sentito il contadino accennare ad alcuni cocci trovati nello scasso del nuovo oliveto. Lo scavo, organizzato in una notte di luna piena, aveva rivelato la presenza di una tomba multipla con molti buccheri ancora integri, semisepolti nella terra crollata dopo una precedente profanazione.

    Sandro partecipava di diritto alla squadra perché era l’unico che possedeva la macchina e per di più aveva una delle poche familiari che giravano a quell’epoca. Aveva una 500 Giardinetta bianca utilizzata per rifornire la sua drogheria al viale; la macchina permetteva di caricare anche cinque passeggeri e restava spazio per qualche bagaglio. Normalmente nelle loro uscite il posto a fianco del guidatore era occupato da Decimo che non sarebbe entrato dietro, a meno di occupare almeno due posti.

    L’ultimo del gruppo era Ennio, che si atteggiava come capo della comitiva. Questo ruolo lo aveva quasi preteso per la sua attività di sensale. Il suo lavoro ordinario era far incontrare commercianti e produttori, sia che si trattasse di grano sia di animali, e mediava con la sua chiacchiera la domanda e l’offerta, cercando di intuire il punto d’incontro dei due contendenti. Quando la stretta di mano sigillava l’accordo, nella sua testa aveva già contabilizzato la percentuale guadagnata dalla mediazione. Il passaggio dalle vacche ai vasi non era stato difficile e in pochi anni era diventato un esperto anche di anfore e kantharoi. Di tutto il gruppo però era il più spietato e aveva avvisato gli altri che in caso di pericolo ognuno avrebbe dovuto provvedere a sé stesso. Il cameratismo non era un sentimento che lo appassionava e avrebbe scaricato chiunque del gruppo, se questo gli avesse portato anche un minimo vantaggio.

    - 2 -

    Appena saliti in macchina, Tonino cominciò a sudare freddo, immaginando che subito dopo il cimitero avrebbero incontrato una pattuglia dei carabinieri. Non era abituato a quelle uscite e l’adrenalina lo aveva eccitato.

    Sandro guidava senza strappi, nonostante la 500 richiedesse la «doppietta». Si trattava di un espediente per evitare che il cambio grattasse tra il passaggio da una marcia all’altra, e poteva essere messo in atto da un colpo di acceleratore con la marcia in folle. Questa procedura consentiva agli ingranaggi di portarsi in posizione inerte prima di agganciarsi di nuovo e innestare la marcia successiva senza attriti. La tecnica si apprendeva alle lezioni di scuola guida, ma poi era effettivamente applicata solamente con la pratica e dopo parecchie grattate.

    «Stai tranquillo,» lo rassicurò Fabrizio «questa sera non troveremo nessuno. Il giro di controllo sarà solo sotto la città, appena fuori l’Osteria, perché uno dei guardiani è in ferie e l’altro resterà al Castello.»

    L’Osteria era una delle necropoli più ricche della zona archeologica. Aveva preso questo nome perché fin dall’epoca dei primi scavi napoleonici vi era stata costruita una baracca dove gli operai addetti agli scavi e i braccianti del latifondo Torlonia potevano mangiare e dissetarsi con un vino annacquato che li aiutava a finire la giornata.

    Il Castello invece era un maniero in pietra basaltica che si alzava scuro sulle balze del Fiora. I locali lo chiamavano Castello dell’Abbadia, ma pochi sapevano che il vero nome era «Castello della Badia al Ponte». Il ponte era l’arco di pietra che congiungeva le due sponde del fiume, in quel punto infossate in una gola rocciosa, profonda oltre trenta metri. I primi a realizzarlo erano stati gli etruschi, poi seguiti dai romani.

    La Badia era invece la deformazione linguistica di abbazia e, pur non presentando resti visibili dell’originaria struttura edilizia, era associata all’Abbazia di San Mamiliano, anch’essa scomparsa e giunta ai posteri solamente con il toponimo di Musignano.

    Sentendo le parole di Fabrizio, Tonino si rassicurò, ma solo per un attimo, il tempo che Ennio attese prima di intervenire nella discussione.

    «Non essere preoccupato, io sono stato preso già cinque volte e sono ancora in piena attività, e in più ho imparato come rispondere alle guardie e ai giudici. E poi sono convinto che noi non facciamo niente di male, anzi, siamo capaci di trovare tesori che lo Stato lascia sotto terra e per questo ci meritiamo un premio!»

    Ennio era convinto di quello che diceva e riusciva a trascinare nelle sue tesi anche la maggioranza del gruppo; Mario era il suo più acceso sostenitore e la passione lo motivava molto più del potenziale risultato economico.

    Fabrizio era invece molto più pratico e partecipava a questa attività clandestina con il solo scopo di trovare una tomba buona, intatta e inviolata, e tirarne fuori un ricco corredo, magari con molti pezzi di bronzo e oggetti d’oro. Il suo sogno era ottenere dal commercio clandestino il denaro che gli avrebbe consentito di comprarsi una tenuta agricola ed essere così accettato nel gruppo dei proprietari terrieri che rappresentavano le famiglie benestanti della zona.

    Mentre la macchina girava a fianco del parco della Rimembranza per immettersi sulla provinciale, videro Mario che s’inseriva sulla stessa strada, dietro di loro. Era alla guida di una Gilera Giubileo piuttosto rumorosa che usava regolarmente per rientrare a casa. Sentirla in giro anche di notte non era pertanto motivo di preoccupazione.

    La comitiva si avviò verso la campagna. Girarono a sinistra subito dopo aver superato la salita oltre gli archi di Pontecchio. Molti dei passanti che ne vedevano la mole scendendo verso il mare erano convinti si trattasse di un acquedotto romano, analogo a quelli sull’Appia o sulla Casilina. In realtà era un acquedotto molto più moderno, costruito alla fine del ‘700 per superare il dislivello dopo la sorgente del Tufo. Da lì aveva origine la condotta di acqua potabile che alimentava il paese.

    Appena oltre il Cancellone, virtuale confine con il comune di Canino, i sei viaggiatori si trovarono a costeggiare campi destinati a grano, strappati solamente qualche lustro prima al latifondo e assegnati ai coltivatori diretti. Il nome del luogo se lo erano tramandato i vecchi del paese e ricordava il confine tra le tenute di Campomorto, a Montalto, e quella di Cavalupo, a Canino, ambedue possedimenti fondiari della Reverenda Camera Apostolica.

    L’intervento dei nuovi agricoltori era evidente: nei campi erano spuntati filari di ulivi che avevano sostituito la precedente coltivazione estensiva del latifondo. Sembravano scesi dalle colline e aver fecondato la pianura, in quantità, ma in modo tale da lasciare porzioni seminabili tra una fila di alberi e l’altra. I poderi voluti dall’Ente Maremma erano cresciuti uno dietro l’altro e ognuno aveva al proprio fianco un fienile e la stalla.

    Anche gli animali da allevamento avevano assecondato la riforma e si erano adattati alla politica di agricoltura intensiva. I bovini maremmani dalle lunghe corna a lira avevano lasciato i pantani del Fiora o le macchie del Crostoleto per diventare forza lavoro nei poderi della riforma. Altre vacche erano state messe a catena nelle stalle per produrre latte, non da dare ai vitelli, ma da mettere sul mercato o trasformare in formaggio.

    Al ponte sul Timone Sandro accostò la Giardinetta al bordo della strada. Decimo e Tonino furono pronti a scendere per scomparire sotto. Mario arrivò poco dopo con la moto e passò diritto, perché Ennio gli aveva già detto dove li avrebbe dovuti aspettare. Qualche minuto dopo Decimo e Tonino risalirono dal letto del torrente con gli attrezzi da lavoro che avevano nascosto qualche settimana prima. Fabrizio si avvicinò per aiutarli mentre Ennio apriva il portello posteriore dell’auto. I picconi e le pale finirono di traverso in mezzo ai passeggeri mentre un sacco di tela avvolgeva gli spiti che avrebbero usato per sondare l’area dove scavare.

    Questi attrezzi erano i più pericolosi da portare perché erano esclusivi degli scavatori clandestini e farseli trovare addosso era un’indiscutibile prova di colpevolezza. Nel loro caso ne avevano portati quattro, costruiti artigianalmente con un pezzo di tubo, destinato a diventare il manico, su cui era saldato uno spillone in ferro, di almeno un metro di lunghezza, ovviamente terminante con una punta molata. L’utilizzo dello spito era semplice e funzionale allo stesso tempo. Spingendolo a forza nel terreno consentiva al suo operatore di percepire la resistenza degli strati sottostanti e pertanto l’eventuale presenza di un banco di tufo e delle sue possibili interruzioni. Quando queste erano di forma regolare, rivelavano l'intervento artificiale dell’uomo.

    Poiché gli etruschi erano soliti seppellire i propri defunti in tombe di materiale coerente come i tufi lavici di cui è tipica la piana di Vulci, per scendere alle tombe era di solito necessario scavare un corridoio. L’accesso si approfondiva obliquamente dal piano di campagna anche per parecchi metri di profondità, fino al luogo di sepoltura vero e proprio. L’esperienza della squadra, ma ancor più i racconti delle osterie, avevano convinto i più che il corridoio di accesso, il dròmos, fosse il biglietto da visita della tomba. Questa via d’ingresso rappresentava il primo indice dell’importanza del sepolcro. Conseguentemente, anticipava al cacciatore la potenziale ricchezza del corredo funebre che avrebbe potuto trovare all’interno.

    Così, non appena il tombarolo individuava nel banco di tufo una minore resistenza dello spito, restringeva la propria indagine per capire se si trattasse del dromos. Con tasti successivi, a pochi centimetri l’uno dall’altro, provava a capirne l’orientamento e le dimensioni. Poiché dopo la chiusura del sepolcro il dromos era riempito con la terra di scavo, questo strato di riporto più soffice rispetto ai tufi diventava testimone dell’intervento dell’uomo. In questo caso rivelava anche ai posteri la presenza di una struttura sotterranea.

    Caricati gli attrezzi, la squadra continuò il viaggio verso la campagna, mentre la notte cominciava a farsi sempre più scura. Avevano calcolato che poco dopo le dieci la luna si sarebbe fatta vedere e infatti cominciò a spuntare da ovest e a rischiarare poco alla volta la campagna maremmana. Come l’auto raggiunse la curva, a poche centinaia di metri dal ponte sul Timone, trovarono Mario che li aspettava a fianco della moto. Quello era il luogo dell’appuntamento e durante l’attesa la staffetta aveva controllato l’assenza di intrusi o di altri nottambuli. Bastò un cenno per confermare che tutto era tranquillo e i mezzi si avviarono a sinistra sulla strada sterrata che fiancheggiava la cartiera di Pontesodo per deviare poi a destra tra gli oliveti e avvicinarsi alla zona di Cavalupo. Mentre continuavano ad addentrarsi nell'area archeologica Decimo ruppe il silenzio per avere chiarimenti.

    «Chi ha segnalato la tomba?» chiese agli altri passeggeri della Giardinetta.

    Fabrizio fu il primo a intervenire rivelando che un suo parente, assegnatario di un podere con il terreno digradante verso il fiume, gli aveva parlato di una zona dove il suo aratro si bloccava. Durante le arature aveva provato più volte a spingerlo più a fondo, ma dopo la rottura della terza punta si era convinto che quella zona poteva essere seminata solo con una lavorazione più superficiale. Probabilmente sotto i pochi centimetri di terreno ci doveva essere un banco di tufo o, ancora peggio, un banco di travertino. Era probabile che per la posizione dominante sopra l'argine del Fiora potesse essere una zona scelta dagli etruschi per seppellire i propri defunti. Dopo alcuni minuti ancora, il gruppo arrivò in prossimità del luogo segnalato. Non fu difficile individuarlo perché era l’unico podere che aveva metà del terreno in pendenza verso la valle. L’ingresso al casale era contrassegnato da due pilastri in mattoni rossi. La squadra lasciò l’auto e la moto dietro al magazzino, in modo che non fossero visibili dalla strada, e con l’anteriore verso l’uscita, per trovarsi già in posizione di partenza qualora fossero sopraggiunti dei guai.

    - 3 -

    Ennio aveva raccontato più volte, durante le serate trascorse a descrivere i tesori che erano passati per le sue mani, la scena tragicomica che si svolgeva ogniqualvolta lo scavo era stato interrotto dai finanzieri. La legge sullo scavo clandestino prevedeva infatti che il reato potesse essere attribuito se l’autore era colto in fragranza. Da questo dettaglio gli scavatori clandestini traevano il coraggio per la propria impunità.

    Non era sufficiente, infatti, essere stati visti sul posto o anche in compagnia di personaggi già conosciuti dalla Giustizia. Il reato era tale solo se si era scoperti nell’atto di scavo o con gli attrezzi o i reperti addosso. In tutte le altre situazioni, le scene tra scavatori clandestini e forze dell’ordine avevano creato addirittura leggende o battute passate alla storia.

    C’era chi si era dichiarato amante della natura a tal punto da visitare la campagna in piena notte o chi invece aveva affermato di soffrire di sonnambulismo. Un loro «collega» una volta si era invece coperto dietro un piccolo albero, nascondendo la faccia dietro al tronco. Aveva trascurato un piccolo dettaglio. I propri 120 kg di peso - e soprattutto la sua mole in larghezza - eccedevano di parecchio oltre il tronco, e avevano così rivelato al brigadiere la sua presenza!

    Per questo motivo ogni squadra aveva al proprio interno un membro con il compito di fare da palo. Normalmente i controlli della Finanza avvenivano per la spiata di qualche antagonista o per un errore d’imprudenza, come parlare al bar o accendere una sigaretta in piena notte. Solo in rarissimi casi una casualità poteva indirizzare i controlli proprio verso gli scavatori. In tutte le situazioni comunque il palo aveva il compito di dare l’allarme se arrivavano intrusi e aiutare a risalire quelli che si trovavano ancora all’interno dello scavo.

    Quando questo sfortunatamente accadeva, e cioè quando l’operazione veniva scoperta ed era chiaro che sarebbero arrivati gli sbirri, ognuno si dava precipitosamente alla fuga, scegliendo differenti direzioni. La speranza era che i cacciatori fossero in numero inferiore alle prede e soprattutto più lenti. Gli attrezzi di scavo erano abbandonati sul posto e gli spiti avrebbero arricchito le pareti del museo, dove altri dello stesso tipo, variamente arrugginiti, testimoniavano i successi delle precedenti battute.

    La sera dell’azione, nonostante la tradizionale agitazione di Tonino, il resto della squadra era relativamente tranquillo perché i giorni scelti comportavano un supplemento lavorativo per le forze dell’ordine. I vigili comunali erano occupati con la Festa dell’Unità e gli altri corpi di sicurezza si sostituivano a essi nei controlli del territorio e nei normali servizi di polizia. Anche la vigilanza della Sovraintendenza in quel periodo si riduceva sia per la festa sia per i turni di ferie che dovevano far recuperare ai custodi gli straordinari maturati nei mesi estivi.

    Il periodo prescelto si poteva pertanto considerare ottimale e quella sera anche il tempo si era mostrato clemente: temperatura calda, cielo sereno e mezza luna, che si fece più luminosa dopo le 22.30. La squadra restò al coperto fino a dopo le undici. Si avviò verso il campo solo dopo aver finito i panini che avevano portato dietro dalla Festa dell’Unità.

    I sei uomini camminarono in fila indiana, stringendo con attenzione gli attrezzi così da evitare che potessero sbattere tra loro o con quelli del compagno più vicino. Giunsero quindi nel punto dove il parente di Fabrizio aveva parlato del banco in superficie e dell’aratro spuntato. Ennio a questo punto assunse ancora più il ruolo di leader cominciando a scrutare il campo e immaginando cosa potesse nascondere. Gli altri aspettavano di sentire le sue conclusioni e Mario gli si avvicinò per incitarlo e per tentare anche lui una previsione.

    «Io scarterei la parte più in pendenza perché è quella più esposta.»

    Ennio continuava a scrutare il terreno e più volte si era piegato sulle ginocchia per guardare dal basso. Gli altri si tenevano dietro in attesa di istruzioni.

    «Forse hai ragione,» gli rispose dopo un lungo silenzio «ma se mi lasci pensare forse arriviamo a un’ipotesi.»

    «Ma dimmi,» gli si rivolse quindi dopo un altro minuto di silenzio «se tu fossi un etrusco, quale zona avresti scelto per scavare una tomba?»

    Mario si concentrò ancora di più sulla domanda e cominciò a pensare da etrusco, cioè a dove avrebbe potuto scavare un sepolcro sicuro, sufficientemente asciutto da durare nel tempo e abbastanza nascosto da restare inviolato. Si domandava dove sarebbe stato meglio deporre con dignità i defunti della famiglia e quant’altro di necessario per il viaggio nell’Ade. Gli oggetti che si lasciavano nel sepolcro dovevano infatti garantire una vita nel regno dei morti altrettanto felice rispetto a quella terrestre. Mario continuava a pensare e a guardare il terreno. Dopo almeno tre occhiate panoramiche - lanciate da sinistra a destra e viceversa - scelse la zona più piana e pulita, circa trenta metri prima che il terreno cominciasse a scendere verso la valle.

    «Io sceglierei quell’area,» disse a Ennio, ma con tono abbastanza forte da farsi sentire da tutti «mi sembra abbastanza lontana dal costone e sufficientemente comoda per lavorare.»

    «Potrebbe andare, ma non sono completamente convinto» gli rispose il capo. «Mi sembra troppo facile, però voglio darti fiducia. Tu, Tonino e Fabrizio comincerete da quella parte. Sandro ed io proveremo più in là, verso il costone e verso gli alberi.»

    Decimo non aveva bisogno di istruzioni, il suo ruolo di palo era stato già definito nelle precedenti uscite perché si era dimostrato il più attento e responsabile e non avrebbe mai consentito di far rischiare la galera agli altri per essersi addormentato. Due anni prima era quasi accaduto, quando quel compito lo aveva reclamato per sé Fabrizio che si era invece distratto. I due gruppetti cominciarono a tastare il terreno con gli spiti. Nei primi affondi lo spillone di ferro scendeva veloce, ma dopo venti o trenta tentativi le braccia cominciavano a rallentare la velocità di esecuzione e l’acido lattico ad accumularsi nei muscoli. L’adrenalina che inizialmente aveva fornito un’energia supplementare si riduceva a mano a mano che le indagini aumentavano senza dare alcun risultato.

    A questo punto gli scavatori si davano il cambio per cercare di mantenere alto il ritmo della ricerca. Mezz’ora dopo la mezzanotte il gruppo di Mario non aveva trovato alcun segno: il banco presente sotto il terreno coltivato era molto superficiale e anche molto duro, ma non completamente compatto. Dai sondaggi era sembrato di sentire massi irregolari alternati a strati morbidi di terreno, ma senza alcun indizio di strutture che potessero coincidere con un dromos.

    L’altro gruppo con Ennio e Sandro si era spinto al limite della proprietà, dove c’era un piccolo bosco di querce prima del confine. Nel silenzio della notte riecheggiò improvvisamente il richiamo della civetta con tre fischi alternati. La squadra di Mario si bloccò e si diresse subito verso gli altri: il fischio era il segnale convenuto che la ricerca era finita e che sarebbe cominciata a breve la fase di scavo. Come la squadra si ricompattò Ennio spiegò quello che aveva trovato.

    «Ti avevo detto» disse rivolto a Mario «che sul pianoro mi sembrava troppo facile. Abbiamo tastato anche noi sul campo aperto. Penso che avremo fatto almeno duecento buchi, poi mi ha incuriosito il boschetto e ci siamo avvicinati. Anche lì sotto c’è del sodo, ma molto più regolare dell’altra parte. Guardate qui!»

    E accompagnò gli altri appena dietro i primi alberi. Nel terreno si vedevano chiaramente i punti di sondaggio e poco dopo i buchi persero la casualità iniziale e apparvero allineati e ravvicinati.

    «Ho sentito che da questo punto il terreno era molto più morbido e ho provato a restringere la ricerca. Vedete qui? Ho sentito il bordo della pietra correre regolare e poi deviare di colpo a destra e quindi procedere ancora diritto. Non può essere un caso.»

    In effetti, i saggi sul terreno andavano in fila da quel punto in poi, ravvicinati al massimo di cinque centimetri, e indicavano un percorso a elle che passava tra gli alberi.

    «Questa volta hai fatto cilecca,» replicò Sandro «ti pare possibile che gli etruschi si mettano a scavare in mezzo agli alberi?»

    «Lo vedi perché sei salumiere?» replicò stizzito Ennio «Perché non usi la testa e non ragioni.»

    Anche gli altri erano però scettici sull’idea di Ennio e ritenevano più verosimile il ragionamento di Sandro sull’incompatibilità di coesistenza tra tomba e bosco.

    «Quando vi dicevo che è importante tenere le orecchie aperte vi volevo avvisare che è necessario conoscere bene quello che stiamo cercando. Stiamo parlando degli etruschi, un popolo fiero che ha insegnato anche ai romani.»

    Gli altri rimasero in silenzio, sia per capire la motivazione del rimprovero che per seguire il resto del ragionamento.

    «Lo scorso mese il Sovraintendente e il Sindaco sono venuti a pranzo alla trattoria del Ferrarese. Io ero al bar e loro si sono seduti a un tavolo all’aperto poco distante da me. Quando il sovraintendente ha cominciato a parlare della tomba François mi sono concentrato per ascoltare. Spiegava che l’archeologo francese scoprì quella tomba solo dopo aver osservato gli alberi.»

    Il resto della squadra era di nuovo ammutolito in attesa di dettagli.

    «L’archeologo si era incuriosito perché in quella parte del costone gli alberi erano cresciuti molto di più rispetto ad altri poco distanti. Inoltre questa crescita più vigorosa interessava solo un gruppo di piante cresciute affiancate in una zona ristretta. Ordinò ai suoi operai di scavare proprio in quel punto e saltarono fuori il dromos della grande tomba e poi tutto il resto!»

    «Che cosa significa?» disse Fabrizio.

    «Penso sia molto probabile che questa zona della collina sia stata scelta come posto per scavare una tomba, soprattutto perché ha un banco abbastanza compatto di travertino.»

    Quando avevano eseguito i primi sondaggi, avevano capito che lì la pietra era omogenea e che lo strato di terra non era profondo, ma circa di sessanta centimetri.

    «Guardate quella fascia» continuò girandosi di lato e puntando l’indice verso gli alberi in fila. «Le piante sono cresciute meglio delle altre e questo significa che le radici hanno più terreno intorno. Penso che gli alberi siano cresciuti dopo lo scavo della tomba.»

    Era evidente che con questa spiegazione Ennio aveva rafforzato il suo ruolo di leader. I suoi compagni aspettavano di passare all’opera per averne la conferma. Probabilmente gli alberi cresciuti sul riempimento del dromos avevano avuto terreno più profondo e fertile e quindi una crescita più rigogliosa degli altri. Questa differenza aveva svelato il punto dove scavare. In breve la squadra si mise all’opera e il primo turno di lavoro fu affrontato da Mario e Sandro, che misero mano ai picconi.

    «Non dobbiamo sprecare energie» suggerì Ennio. «Scaveremo in verticale per cercare l’apertura della tomba. Se siamo fortunati potremmo finire entro domattina.»

    Mentre da un lato i due rimuovevano le zolle superficiali, Sandro e Fabrizio spalavano la terra dall’altro. Poi lo spazio diventò più

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