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Ghiaccio sottile
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Ghiaccio sottile

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About this ebook

Nascosto per anni nel sarcofago delle nevi himalayane, un cadavere congelato viene rinvenuto per caso durante una spedizione. Tutto lascia credere che sia il corpo di Jean-Pierre Leblanc, figlio di un magnate della chimica e grande scalatore. Jean-Pierre era scomparso durante il disperato tentativo di conquista, in pieno inverno e insieme al fratello Michel, di una delle vette più difficili, il Kinsoru. Dopo quella spedizione maledetta Michel era stato trovato in stato di shock in un villaggio nepalese, mentre di Jean-Pierre non si era saputo più nulla. Fu una disgrazia, come si disse all’epoca, oppure un omicidio, come sospettano in molti? E quali sono i segreti che sei alpinisti, riuniti oggi sulle nevi del Kinsoru, vogliono nascondere a ogni costo? L’affascinante Fiona, l’ambiguo Ian, il conte Von Reichlin e i loro aiutanti, il saggio sherpa Tenzing e il rude Boroda hanno tutti un lato oscuro, come Michel che irrompe di notte nell’accampamento salvando gli altri da una valanga. Qual è il suo scopo, arrivare alla verità oppure occultare le prove del suo crimine? Il tempo a disposizione è poco, troppo poco: una tempesta terribile sta arrivando, il campo base sarà smantellato e loro rimarranno isolati dal mondo, senza provviste né speranze di farcela. Chiusi in una tenda, costretti a una vicinanza esasperante, gli alpinisti dovranno svelare l’indicibile: il reale scopo della loro presenza sulla montagna di ghiaccio. Come in una lanterna magica le ombre assumono forme che cambiano repentinamente, le vesti dei personaggi sorprendono il lettore-spettatore, consapevole della malafede ma tuttavia incapace di sottrarsi all’inganno. Ghiaccio sottile è un thriller ad alta tensione. Il vento gelido, il freddo che modifica la materia, il senso di claustrofobia che contrasta con gli spazi sconfinati dell’alta montagna sono gli elementi dello scenario, allo stesso tempo meraviglioso e spettrale, a cui Degli Antoni dà vita e forma, regalandoci un romanzo raro e appassionante dove nessuno può permettersi un solo passo falso. 
LanguageItaliano
Release dateNov 26, 2013
ISBN9788898475445
Ghiaccio sottile
Author

Piero Degli Antoni

Piero Degli Antoni è nato a Bergamo nel 1960 e vive a Milano, con la moglie e i tre figli. Giornalista dal 1979, ha lavorato in numerosi quotidiani. Ha scritto, tra gli altri, i thriller La verità è un’altra, L’udienza è tolta, Ghiaccio sottile, La notte di Peter Pan, Quel che non è stato, Blocco 11 e Il segreto dei porporati. In realtà, da quando gli sono nati Leonardo (1995), Cecilia (1998), Elisa Allegra (2004) sono loro a essere diventati la sua principale occupazione, equamente divisa con la moglie Rossella. Nessuno riesce a batterlo a puzzle, traforo e memory. I suoi romanzi sono stati tradotti in Francia, Spagna, Germania, Olanda, Serbia, Russia, Corea e Stati Uniti.

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    Ghiaccio sottile - Piero Degli Antoni

    VandA Introvabili

    © Piero Degli Antoni

    © 2013 VandA.ePublishing S.r.l.

    Sede legale e redazione: Via Cenisio, 16 - 20154 Milano

    ISBN 978-889847-544-5

    Prima edizione: Novembre 2013

    Prima edizione cartacea: Rizzoli, 2005

    Edizione elettronica: eBookFarm

    Grafica di copertina: Network Comunicazione

    www.vandaepublishing.com

    Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    A Leonardo, dolcissimo monello,

    a Cecilia, adorabile testarda.

    A Elisa Allegra un cui sorriso basta

    a illuminare un’intera giornata.

    La verità è come l’Everest: fatta di tante rocce,

    ciascuna sfaccettata a suo modo.

    Nessuna di quelle rocce, tuttavia,

    può vantarsi di essere da sola l’Everest.

    Tendzing Dzang-Po,

    Lama capo del monastero di Tengboche

    Urlava

    Le tre e mezza, accidenti.

    Tardi, troppo tardi.

    Da quante ore era in marcia? Dodici, forse tredici. Era partito alle due dall’ultimo campo, nel freddo terribile delle tenebre himalayane, soltanto la lampada frontale a indicargli la strada. Per tutta la notte, dentro la tenda, non era riuscito a chiudere occhio. Il vento soffiava a centotrenta, centocinquanta chilometri all’ora. Infuriava senza un momento di requie. S’infilava negli invisibili spiragli della tenda e la gonfiava come un pallone, pronto a strapparla via dagli ancoraggi per farla volare lontana, a Est, verso il Manaslu. Un momento dopo, invece, il vento la schiacciava a terra, come se una mano gigantesca comprimesse una lattina vuota. E poi il freddo: un freddo intenso, terribile, maligno. Un freddo che saliva dai piedi e dalle mani lungo le braccia e le gambe, fino ad arrivare al cuore. Non avrebbe mai immaginato che si potesse sentire freddo al fegato, ai reni, ai polmoni, al cuore appunto. Il freddo era una creatura che ti entrava dentro e cominciava a rosicchiarti un pezzo alla volta. Muovi le mani, si disse, muovi le mani e i piedi, ininterrottamente, senza fermarti. Muovili di continuo o si congeleranno.

    Con il guanto si pulì gli occhiali a maschera. Dov’era? Si guardò intorno, nella bufera che restringeva la sua visuale a qualche metro appena. Dove si trovava? Da qualche parte sulla cresta est, a… fece per guardare l’altimetro. Per riuscirci avrebbe dovuto sollevare la manica del piumino, forse addirittura togliersi i guanti. Impossibile. Neanche da pensarci. Troppo freddo. Troppa fatica. Si trovava da qualche parte sulla cresta est, a settemila metri, più o meno. Il campo non doveva essere lontano, da qualche parte in basso, due o trecento metri sotto. I suoi compagni l’avevano aspettato, oppure avevano proseguito la marcia, per perdere quota il più in fretta possibile, prima che il freddo e l’altitudine li ammazzassero?

    Era solo, su quella montagna immensa. Come aveva potuto pensare di scalare il Kinsoru, un simile mostro fatto di roccia, ghiaccio e neve? Neve… Tarman Siregar avrebbe sorriso, se avesse potuto, se il viso ormai da molte ore non si fosse trasformato in una maschera di ghiaccio insensibile. Sapeva che in situazioni del genere la prima parte del corpo a congelarsi è il naso: a qualche alpinista l’avevano tagliato. L’avrebbero fatto anche a lui? Ma sì, che si prendessero pure il naso, e anche qualche dito delle mani o dei piedi. Tutto, tutto, pur di scendere da quella montagna, pur di tornare a casa, a Jakarta, a vedere il mare…

    Tarman Siregar si costrinse a muovere un passo. Quanto tempo era trascorso? Con uno sforzo si obbligò a ciò a cui aveva rinunciato poco prima. Sollevò appena la manica del duvet e guardò. Le quattro e un quarto. Erano passati tre quarti d’ora e gli sembrava di essere fermo da cinque minuti appena. Durante l’addestramento lo avevano avvertito: in alta quota il senso del tempo, insieme a molte altre cose, andava smarrito. Il corpo rallentava le funzioni, e anche il cervello s’intorpidiva. A causa dell’altitudine e della disidratazione, il sangue scorreva a fatica nelle vene. Bisognava bere in continuazione, ma per bere serviva un fornello che sciogliesse la neve, e lui non l’aveva. Che ironia: tutta quella neve intorno, e lui stava morendo di sete…

    La neve non l’aveva mai vista, fino a sei mesi prima. Il governo indonesiano aveva deciso di organizzare una salita di prestigio internazionale a uno degli Ottomila himalayani, affidandosi per la preparazione a un noto alpinista polacco. I futuri scalatori erano stati scelti nell’esercito, tra gli uomini fisicamente più forti. Ne avevano spedito un centinaio in Nepal per seguire un corso rapido di alpinismo, e soprattutto per acclimatarsi. Era stato allora che Tarman aveva visto la neve per la prima volta. L’aveva tenuta in mano, come si potrebbe sollevare una bestiola sconosciuta. La sensazione gli era piaciuta, così come lo aveva affascinato il panorama dei ghiacciai incombenti.

    A mano a mano che l’addestramento proseguiva, molti venivano scartati. Prima erano rimasti in cinquanta, poi in venti, poi in dieci. Solo all’ultimo momento il capo spedizione avrebbe scelto i cinque per tentare la vetta. Poche ore prima della partenza Tarman aveva saputo di rientrare nella pattuglia. Erano già saliti varie volte fino a settemila metri, su e giù dal ghiacciaio. Ormai non aveva più paura di attraversare i crepacci sulle scalette, coi ramponi che stridevano contro il metallo. Aveva preso confidenza con le maniglie jumar che gli permettevano di salire in sicurezza lungo i tratti attrezzati con le corde fisse. Si divertiva, perfino, quando capitava di dover superare uno sbalzo conficcando le piccozze nel ghiaccio. Strano passatempo, avevano inventato quei pazzi degli europei. Eppure lui si sentiva a suo agio, in mezzo a quell’ambiente ostile e sconosciuto.

    Ma lassù, agli ottomila metri di quota, lassù era tutta un’altra cosa. Quando entravi nella zona della morte non c’era nessuno che potesse badare a te. Eri solo con te stesso, anzi con la montagna. Un passo dopo l’altro, e dopo ancora. Non ti era permesso pensare a nient’altro.

    Erano arrivati sull’ultima cresta verso mezzogiorno. Il polacco, lui, e altri due compagni. A cento metri dalla vetta Tarman si era accasciato a terra. Non riusciva più a muoversi. Nemmeno un muscolo. Non riusciva più neanche a respirare. Sollevando appena la testa era riuscito a vedere i suoi compagni incamminarsi verso la vetta, segnata da un treppiede lucido. Syamsir Azzam era davanti, Nasib Achmad dietro. Nasib era chiaramente in difficoltà. Aveva lo sguardo fisso, le spalle cadenti, muoveva un passo al minuto. Syamsir sembrava più in forma, riusciva a mettere insieme una sequenza di sei, sette passi, prima di fermarsi a riposare. Poi, in modo del tutto inaspettato, a soli cinquanta metri dalla vetta, Azzam si era accasciato in ginocchio, e non si era più mosso. Nasib invece, alla vista del treppiede, si era come rianimato, attingendo a qualche riserva nascosta di energia. Si era messo ad avanzare a passo di marcia, quasi a correre: come un fante all’assalto, le braccia alzate al cielo, si era precipitato verso la cima.

    Il polacco, già in vetta, lo aveva abbracciato, poi insieme erano crollati a terra. Quanto tempo era trascorso da allora, nella più completa immobilità? Tarman non lo sapeva. Voleva soltanto fermarsi a riposare: non gli importava più del vento, del freddo, soprattutto della cima. L’unica cosa che desiderava era tornare indietro. In quel momento gli era venuta in mente una frase: Quando arrivi sulla cima sei tu che appartieni alla montagna. Soltanto quando riesci a tornare indietro è la montagna che appartiene a te.

    Dopo un periodo che non avrebbe saputo quantificare, il polacco e Nasib gli erano passati accanto. Gli avevano rivolto un’occhiata distratta, come si potrebbe guardare un cane legato davanti a un negozio. Dopo un altro lasso indeterminato di tempo ecco Syamsir. Il compagno si era fermato. Allungando la mano in una direzione vaga, dopo essersi tolto la maschera di ossigeno, gli aveva gridato qualcosa che però, a causa del vento, lui non aveva compreso. L’altro aveva scosso la testa, come si trovasse di fronte a un alunno svogliato. E aveva iniziato a scendere, l’andatura caracollante. Tarman non si era stupito che l’avessero lasciato solo: sapeva che sulla montagna, a ottomila metri, non c’è posto per la solidarietà, per la comprensione, nemmeno per la pietà. A ottomila metri riesci – a fatica – a pensare a te stesso.

    Alla fine ce l’aveva fatta ad alzarsi in piedi, e allora aveva visto le nubi nere salire dal fondovalle. Forse erano quelle che Syamsir gli aveva inutilmente indicato. Le nuvole si erano ispessite nel giro di breve tempo, e salivano verso di lui. Qualcosa che assomigliava al panico aveva cominciato a montargli dentro e, nonostante tutta la stanchezza, aveva iniziato a scendere di buon passo, lungo la traccia marchiata dagli altri. Correva sul filo della cresta, lo spigolo che segnava la separazione tra due abissi di migliaia di metri. Un piede appoggiato male, uno sbaglio, una disattenzione, e della sua vita non sarebbe rimasto niente.

    Alla fine della cresta si era scatenata la bufera. Qualcosa che non avrebbe mai immaginato. Il vento, se possibile, si era rinforzato, e la tormenta lo aveva quasi schiacciato a terra, impedendogli ogni movimento. Per fortuna era arrivato al tratto delle corde: almeno non doveva preoccuparsi di scegliere la giusta linea di percorso. Aggrappato alle funi era sceso, affondando fino all’anca nella neve appena caduta. Sapeva che sull’Himalaya potevano cadere metri di neve in poche ore: aveva provato ad affondarvi fino al petto, fino alla gola. Non sarebbe mai riuscito ad arrivare al campo.

    Le corde erano terminate. Si era trovato su un pendio molto accentuato, o almeno così gli era parso. Non si vedeva nulla. Alto, basso, destra e sinistra: non riusciva più a distinguere nemmeno le direzioni elementari. Con grande fatica – aveva impiegato almeno venti minuti – aveva tolto dallo zaino la lampada frontale e se l’era infilata sulla testa. L’unica speranza era riuscire a trovare le tracce dei compagni e seguirle. Tarman aveva orientato qui e là il debole fascio di luce, e finalmente aveva scovato le impronte. Con un sussulto di felicità ci si era buttato sopra. Poi un rampone aveva ceduto, o forse era scivolato sopra una lastra di roccia nascosta. Tarman era caduto, rotolando per qualche metro. Prima che il ruzzolone divenisse pericolosamente rapido, era riuscito ad arrestarsi.

    Ed ecco, era lì, sdraiato nella neve che cresceva tutt’intorno a lui, come un muro bianco che voleva seppellirlo vivo. Doveva alzarsi, era già tardi. Anche senza accelerare il passo, sarebbe arrivato al campo in un’ora e mezza, forse un’ora soltanto. Avanti, avanti, avanti…

    Tarman si appoggiò alla piccozza, sollevandosi sul ginocchio. Poi, con uno sforzo penoso, insistette e si alzò. Mosse un piede. Quello sbagliato. Senza nemmeno accorgersi di perdere l’equilibrio, si trovò a rotolare lungo il pendio, accompagnato da un’onda morbida di neve che forse era una slavina. L’istinto di conservazione lo spinse ad assestare un colpo violento al terreno con la piccozza. Era la sua ultima possibilità. La lama si conficcò nel ghiaccio, e lui avvertì uno strappo terribile al polso a cui era legato l’attrezzo. La neve gli scivolò sopra, poi proseguì rotolando verso l’abisso. Tarman aspettò qualche secondo, trattenendo il fiato, finché fu sicuro di essere fermo. Solo allora si pulì la faccia con il guanto e aprì gli occhi.

    Un viso.

    C’era un viso, pochi centimetri davanti a lui.

    Il viso di un uomo. Sorrideva.

    Aveva gli occhi azzurri. Spalancati.

    Strano. Gli indonesiani non hanno occhi azzurri.

    Tarman guardò meglio, aiutato dalla luce della lampada frontale che faceva risaltare i tratti dello sconosciuto in un chiaroscuro dalle ombre profonde.

    Barba e baffi, biondi. Poco più di vent’anni. Capelli lunghi, biondi anche questi, incrostati di ghiaccio. Un viso dall’espressione fiera, e allo stesso tempo… ironica. Sì, ironica. Aveva l’aria di prenderlo in giro. Per essere un europeo, aveva l’aria simpatica. Lo fissava senza dir niente, come se non trovasse le parole adatte alla circostanza.

    Tarman lo osservava, aspettando un cenno di saluto che non venne. Poi capì. O meglio il suo cervello, intorpidito dal freddo, dalla stanchezza, dall’eccesso di globuli rossi, cominciò a capire.

    Quello non era un uomo.

    Era un cadavere.

    Nonostante Tarman avesse molto sentito parlare dei corpi congelati sepolti nel ghiaccio, non avrebbe potuto immaginare una simile visione. Era un soldato e, sebbene non fosse mai stato in guerra, era abituato all’idea della morte.

    Ma quella era un’altra cosa. Era una morte che non era una morte. Era un’ombra, un fantasma, un’apparizione venuta dall’aldilà.

    Scattando come non avrebbe mai creduto di poter fare, Tarman balzò in piedi. Si precipitò giù dalla montagna a grandi salti, infischiandosene del ghiaccio, della neve, della roccia, degli strapiombi, dei crepacci, di ogni pericolo.

    Urlava.

    Intervista – 1

    «Lei sta per affrontare una delle imprese alpinistiche più difficili di tutti i tempi. Cosa la spinge a scalare le montagne?»

    «La speranza che almeno a ottomila metri non troverò qualcuno pronto a rivolgermi domande come questa.»

    «Posso capire la sua ironia nei confronti di chi si avvicina al mondo dell’alpinismo da profano. Però credo che i nostri lettori siano davvero curiosi di sapere perché un uomo decide di rischiare la vita in un’impresa così pericolosa.»

    «Va bene: non posso lasciare che i suoi lettori si macerino in dubbi di questa portata. Cercherò di spiegarmi. In breve, posso dire che l’alpinismo è una delle poche forme di autodistruzione ancora concesse dalla società moderna. Guardi cos’è successo alla Formula Uno, o alle gare di motociclismo. Da quant’è che non muore un pilota? Anche nella vita normale si fa di tutto per rimuovere questa eventualità: ha presente cosa c’è scritto sui pacchetti di sigarette? E stiamo parlando di una sigaretta, non di tuffarsi in mare da una roccia alta cento metri! È proibita addirittura l’eutanasia. Persino quando un tizio è ormai spacciato non lo lasciano stare: lo attaccano a un fascio di cavi e si ostinano a tenerlo in vita anche quando tutto quello che desidera è andarsene tranquillamente all’altro mondo. Naturalmente, osservo en passant, nessuno si preoccupa dei veleni che le loro industrie spargono nell’aria e nell’acqua, e dei cancri che provocano. Pazienza. Nell’alpinismo per fortuna non c’è niente di tutto questo: puoi salire a ottomila metri e crepare come ti pare e piace. Nessuno avrà niente da obiettare. Non è ancora stato inventato un Comitato dell’alpinismo autorizzato a rilasciare patenti. A ottomila metri può salire chiunque, e salire a queste quote non è molto differente dall’infilare un proiettile in una pistola, far girare il tamburo, appoggiare la canna alla tempia e premere il grilletto. Ecco: questo è ciò che veramente mi piace dell’alpinismo.»

    «Me lo conceda: è una visione abbastanza curiosa.»

    «Scalare le montagne significa darsi la possibilità di crepare come desideriamo. E cosa c’è di più bello per un uomo che scegliere il modo di morire?»

    Primo giorno

    Un’ora dopo, dormivano

    «Per fortuna la tenda era già montata.»

    Una muffola grigia di lana cotta si infilò nell’apertura, scostando il telo. Il primo a entrare fu l’uomo che portava a tracolla una macchina fotografica. Insieme con lui penetrò una tremenda folata di vento e neve. Camminando accucciato, andò a sistemarsi in fondo, nell’abside. Subito dopo entrò una seconda figura, il cappuccio della tuta ancora allacciato sulla testa, gli occhiali a maschera calati sugli occhi. Sembrava una mummia. Con lentezza, sganciò il cappuccio, lo tirò indietro sulla nuca, abbassò gli occhiali sul collo, poi diede un colpo con la testa, come fanno i cavalli. Una massa scura di capelli uscì dalla tuta e frustò l’aria. Una donna.

    Ultimo venne lo sherpa, che chiuse l’apertura. Saggiò la resistenza della paleria e delle bacchette.

    «Regge?» chiese la donna che aveva seguito la manovra.

    Lo sherpa non rispose, limitandosi a dare un altro strattone al palo conficcato nella neve.

    «Regge?»

    Lo sherpa rimase silenzioso.

    «Tenzing, insomma, dicci qualcosa.»

    «Vento molto forte. E tenda troppo grande.»

    La donna sbuffò.

    «Non riesco proprio a starci, in quelle maledette tendine. Mi sembra di soffocare.»

    «Il vento soffia centoventi chilometri. La tenda non resiste per molto.»

    Come un rappresentante che aspetta in sala di attesa di venire chiamato e infine sente fare il proprio nome, in quel momento una folata più violenta si abbatté sul rifugio minacciando di strapparlo. Un refolo, entrato chissà come, scompigliò i capelli della donna.

    «Ti prenoto il parrucchiere, Fiona?» scherzò l’uomo con la macchina fotografica.

    Lo sherpa aveva abbandonato il collaudo della struttura, scrollando le spalle con fatalismo. Aprì lo zaino abbandonato vicino all’entrata e cominciò a estrarne una serie impressionante di oggetti. Prese un fornelletto Epigas, lo piazzò sul fondo.

    «Volete tè? Dobbiamo bere molto tè caldo.»

    Lo sherpa maneggiò dallo zaino un pentolino di metallo, poi una bomboletta grigia di gas. La bucò avvitandola sul fornello. Prese i fiammiferi e provò ad accendere la fiamma. Il gas mandò un fischio, iniziò a sputacchiare. Tenzing dovette riprovare quattro o cinque volte prima di riuscirci. Allungando un braccio fuori dalla tenda raccolse manciate di neve e riempì il padellino. Lo mise sul fuoco.

    Fiona sbuffò.

    «Quando potremo uscire a continuare le ricerche, Tenzing?»

    «Estate viaggiatore poco puntuale. Difficile sapere orario di arrivo. Magari tra un giorno. Magari tra due. Forse quattro. Siamo a fine di giugno. Alta pressione va via. Arrivano monsoni. Ma un’ultima finestra di tempo bello rimane. Sempre c’è, tutti gli anni. Dobbiamo restare pronti. Meglio pensare a scendere. Se restiamo qui, noi moriamo.»

    «Insomma potremmo rimanere chiusi qui dentro per due, tre, o anche quattro giorni? Io tra due settimane ho l’aereo per Londra. Non posso tornare a casa senza aver trovato quello che cerchiamo.»

    «Molte volte tempo perso è tempo guadagnato.»

    Il fotografo s’intromise. Osservava perplesso il pentolino sul fuoco.

    «Cos’è quella roba?»

    L’acqua bolliva. Produceva una schiuma nerastra che andava addensandosi sulle pareti del tegame, segnando il livello come una riga tirata con la matita. Lo sherpa si rabbuiò.

    «Brutto segno.»

    «Dobbiamo buttare via tutto e ricominciare da capo? Non abbiamo molte bombolette.»

    «Se vede questo, un amico del mio villaggio dice che gli spiriti della montagna sono in arrabbiatura con noi» osservò lo sherpa.

    «Ancora con questi spiriti della montagna, Ten…»

    «La mia gente crede che la casa degli dei è in montagna.»

    «Devono pagare una fortuna di riscaldamento, allora.»

    «Per dare pace agli spiriti meglio preparare tè nepalese.»

    «Oh no, Ten. Non provarci di nuovo.»

    «Questo tè, speciale. Piccola modifica per amico Iaan.»

    Lo sherpa frugò di nuovo nello zaino, ne prese un contenitore di plastica. Versò un liquido biancastro nel pentolino e mescolò con un cucchiaio. Il vapore risaliva verso il colmo della tenda, dove gelava all’istante al contatto con il telo. Anche il respiro si condensava. La parte superiore della tenda era già ricoperta da un sottile strato di ghiaccio.

    «Pensi che lo troveremo?» chiese Iaan a Fiona.

    «Non sono arrivata fin qui per niente. Ten, ci hai fatto venire in Nepal ad aprile, due mesi fa. Avevi detto che cominciava la stagione buona. Ma tre settimane se ne sono andate solo per la marcia di avvicinamento, poi abbiamo perso un sacco di tempo ad andare su e giù dal Campo Base.»

    «Ti ho già spiegato» rispose lo sherpa, senza che il tono della voce tradisse un’eventuale irritazione. «Impossibile restare fermi su in alto troppo tempo. Faticoso. Corpo stanco, moltissimo stanco. Bisogna scendere e riposare. Quando sei riposato, allora risali.»

    Fiona non gli badò.

    «Dobbiamo farcela nei prossimi giorni…»

    «L’indonesiano ha detto di averlo visto» la rincuorò Iaan.

    «Però è scappato proprio sul più bello. Aveva accettato i duemila dollari senza fiatare. Ci ha seguito fino al Campo Base e poi…»

    «Ma pensa al suo choc. Si è ritrovato proprio sul Kinsoru, dove sette mesi fa è sopravvissuto per un pelo. Dev’essere stato terribile.»

    «Può darsi. Ma a me ha dato un’impressione diversa… come se qualcuno l’avesse spaventato. Sì, spaventato… Comunque adesso sappiamo dove cercare.»

    «Magari non è lui. Dicono che la montagna è piena di cadaveri.»

    «Biondo, occhi azzurri, di vent’anni, con quell’attrezzatura? È lui di sicuro.»

    «Certo che colpo, se fosse vero.»

    «Vorrei vedere la faccia di Leblanc quando lo saprà.»

    «Tè pronto» annunciò lo sherpa.

    Usando il tappo del thermos come una tazza, lo sherpa versò la bevanda e la bevve, sorbendola rumorosamente. Poi lo riempì di nuovo e lo porse a Iaan, che guardò sospettoso il liquido fumante marezzato di striature biancastre.

    «È quello dell’ultima volta? Sembra diverso.»

    «Assaggia. Molto buono.»

    Iaan non si decideva. Annusò.

    «Mamma mia, che orrore… cos’è?»

    «Tè con latte rancido di yak. Anche se non credi che serve a calmare gli spiriti, bevi lo stesso.»

    «Latte rancido di yak? Non sperare che io lo avvicini alle mie preziose labbra.»

    «Latte di yak è buonissimo latte per alpinisti. Scioglie il sangue, allontana le malattie. Bevi.»

    «Preferisco morire putrefatto che sorbire un solo sorso di quella brodaglia disgustosa.»

    «Quante storie, Iaan!» s’intromise Fiona. «Quando sei in un Paese straniero, devi provare il cibo locale. Non puoi mangiare sempre bistecca e patatine.»

    Con un gesto sbrigativo Fiona si fece consegnare la tazza e bevve un sorso. Non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto.

    «Accidenti, è davvero forte…» Porse la bevanda al fotografo. «Avanti, provalo.»

    «Prima vorrei fare testamento.»

    «Provalo.»

    Iaan, timoroso, centellinò un assaggio. Disgustato, girò la testa per sputare.

    «Datemi un po’ di arsenico per sciacquarmi la bocca, per favore.»

    «Non esagerare, non è così male.»

    Lo sherpa finì il tè. Fiona era preoccupata.

    «Tenzing, sei riuscito a sapere le previsioni del tempo?»

    «Radio non lavora. Nessuno risponde. Collegamento impossibile con questa bufera.»

    «Magari adesso ci sentono. Dai, riprova.»

    Senza una parola, lo sherpa si avvicinò allo zaino. Prese una piccola ricetrasmittente e l’accese. Dall’altoparlante usciva un brusio indistinto. Tenzing girò la manopola per cambiare canale, mentre parlava piano nel microfono.

    «Tenzing a Campo Base. Tenzing a Campo Base» ripeteva monotono.

    All’improvviso si udì una voce spezzettata.

    «…ui …mpo …ase …ing…»

    Lo sherpa aggiustò la sintonia. Ripeté:

    «Tenzing a Campo Base. Tenzing a Campo Base. Mi sentite?».

    «…ui campo bas …ove siete…?»

    «Tenzing a Campo Base. Siamo quota settemila. Siamo in tenda al Campo 3. Mi sentite?»

    «…mpo base …tete ripetere?»

    «Tenzing a Campo Base. Quota settemila. Siamo a C3. C3, mi sentite?»

    «…fermativo.»

    «Tenzing a Campo Base. Come sono le previsioni?»

    «…variabile …n superano le …ntiquattro ore …vete …brigarvi…»

    «Tenzing a Campo Base. Ripetete.»

    «…vete sbrigarvi …tra una …ttimana il …mpo base sarà …mantellato. Avete …uto?»

    «Tenzing a Campo Base. Tra una settimana Campo Base smantellato?»

    «…fermativo. Tra …ette …orni …nessuno. Tornate… possibile.»

    «Tenzing a Campo Base, Tenzing a Campo Base. Come sono le previsioni?»

    Ma dall’altoparlante veniva solo un brusio. Lo sherpa tentò invano di ripristinare il contatto. Alla fine spense l’apparecchio con un’espressione delusa.

    «Troppo freddo, veloci si consumano le pile. Meglio risparmiare per dopo. Avete ascoltato? Solo sette giorni, poi chiude il Campo Base. Appena il cielo mostra il sorriso, dobbiamo scendere.»

    «Neanche per sogno» rispose Fiona, dura. «Siamo venuti per cercare il corpo.»

    «Sapete cosa

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