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La notte di Peter Pan
La notte di Peter Pan
La notte di Peter Pan
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La notte di Peter Pan

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About this ebook

Una villa sul mare, completamente isolata, in un angolo di Liguria ancora selvaggio. Unico accesso, una galleria ferroviaria abbandonata. Leonardo ha dieci anni e vive solo con il padre. Soffre di una leggera forma di dislessia, è timido, insicuro, avviluppato nelle proprie fantasie, tra eroi, pirati e isole inesistenti. Una sera, uscito dalla vasca, trova il padre legato, in balia di uno sconosciuto - un cattivo, un orco - che lo minaccia con un coltello. Leonardo deve affrontarlo da solo. Il bambino e l'adulto si osservano, si studiano e tra i due sembra nascere una strana complicità. Ma chi è e che cosa vuole quell'uomo, che conosce il suo nome e suona il piano meravigliosamente? In una partita tesissima, sempre sul filo della violenza fisica e psicologica, il piccolo, sperduto Leonardo, tira fuori tutto il coraggio e l'astuzia che non sapeva di avere. Nell'arco di una sola notte si scontrerà con le sue paure più segrete e le sue ossessioni più angosciose, e quando il nuovo giorno sorgerà sulla villa la sua vita non sarà più la stessa.
LanguageItaliano
Release dateNov 26, 2013
ISBN9788898475452
La notte di Peter Pan
Author

Piero Degli Antoni

Piero Degli Antoni è nato a Bergamo nel 1960 e vive a Milano, con la moglie e i tre figli. Giornalista dal 1979, ha lavorato in numerosi quotidiani. Ha scritto, tra gli altri, i thriller La verità è un’altra, L’udienza è tolta, Ghiaccio sottile, La notte di Peter Pan, Quel che non è stato, Blocco 11 e Il segreto dei porporati. In realtà, da quando gli sono nati Leonardo (1995), Cecilia (1998), Elisa Allegra (2004) sono loro a essere diventati la sua principale occupazione, equamente divisa con la moglie Rossella. Nessuno riesce a batterlo a puzzle, traforo e memory. I suoi romanzi sono stati tradotti in Francia, Spagna, Germania, Olanda, Serbia, Russia, Corea e Stati Uniti.

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    La notte di Peter Pan - Piero Degli Antoni

    VandA Introvabili

    © Piero Degli Antoni

    © 2013 VandA.ePublishing S.r.l.

    Sede legale e redazione: Via Cenisio, 16 - 20154 Milano

    ISBN 978-889847-545-2

    Prima edizione: Novembre 2013

    Prima edizione cartacea: Rizzoli, 2007

    Edizione elettronica: eBookFarm

    Grafica di copertina: Network Comunicazione

    www.vandaepublishing.com

    Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    A Leonardo, quello vero

    Dio ci ha donato la memoria, così

    possiamo avere le rose anche a

    dicembre.

    James Matthew Barrie

    Ore 21

    Ciao

    «Papà, ho finito.»

    Silenzio.

    «Papà, ho finito.»

    Leonardo trattenne il respiro.

    Niente.

    Papà non rispondeva. Eppure era di là in soggiorno, sicuro. Forse non l’aveva sentito. O forse faceva finta di non sentire. Non che avesse veramente bisogno di lui. Sapeva benissimo uscire dalla vasca da solo, e ormai era abbastanza alto per afferrare l’accappatoio appeso al gancio. Fino a qualche mese prima non ci arrivava ancora. Ma dopo l’ultima febbre il suo corpo aveva acquistato i centimetri mancanti. Insomma, avrebbe potuto benissimo uscire e vestirsi da sé. Era anche in grado di asciugarsi i capelli. Papà diceva sempre di non usarlo mai da solo, il phon, che era pericoloso e poteva ucciderlo. Ma quando papà era chiuso nel suo studio a suonare, qualche volta lui l’aveva adoperato lo stesso. Aveva infilato la spina nella presa, stando ben attento che il filo non sfiorasse nemmeno una goccia d’acqua, e l’aveva acceso. L’elettricità, quello era il pericolo, lo sapeva bene. Si poteva prendere la scossa. Per fortuna, gli aveva spiegato papà, c’era comunque il salvalavita che avrebbe tolto automaticamente la corrente a tutta la casa.

    «Papà, ho finito.»

    Ancora niente. Certe volte faceva finta di non sentire. «Hai quasi dieci anni» gli diceva in tono di rimprovero. «Possibile che hai ancora bisogno di qualcuno per fare il bagno?» Alcune volte scuoteva la testa, prendeva l’accappatoio e glielo porgeva. Altre volte lo fulminava con la solita frase – «Arrangiati» – e se ne andava.

    «Ho finito.»

    Sapeva che lo avrebbe fatto arrabbiare. Ma era pronto ad affrontarlo perché gli piaceva quando papà lo avvolgeva nell’accappatoio e lo sfregava forte fino ad arrossargli la pelle. In quei momenti si sentiva piccolo: gli sembrava di tornare a tantissimo tempo prima, quando aveva soltanto sei anni, e il bagnetto glielo preparava la mamma. Lo lavava, lo sciacquava, giocava con lui e le barchette e i pupazzi. Poi lo sollevava di peso e gli avvolgeva intorno l’accappatoio, sfregandolo con dolcezza. Papà non era così bravo: era soltanto un compito da sbrigare, non un gioco. Però lui si accontentava: quello strofinio brusco e frettoloso era meglio di niente.

    Ancora nessuna risposta.

    Leonardo rimase fermo nell’acqua che andava raffreddandosi. Fissò le minuscole piastrelline rosse che coprivano le pareti. Rubini. Rubini che papà in uno dei suoi giri intorno al mondo aveva rubato da qualche tesoro di pirati. Poi li aveva fatti tagliare a fette, sottili sottili, e li aveva fatti appiccicare al muro. Un vero colpo di genio, concluse ancora una volta con un sorriso. Se anche i ladri avessero fatto irruzione in casa, mai e poi mai avrebbero potuto immaginare che lì, attaccato alle pareti del bagno, c’era un tesoro. Il tesoro di riserva, lo chiamava tra sé e sé: perché era sicuro che ce ne fosse un altro, di tesoro, nascosto da qualche parte in giardino.

    Vabbe’, se papà aveva deciso di ignorare i suoi richiami, lui sarebbe rimasto nell’acqua. In mezzo ai giocattoli – che comprendevano anche un peluche e uno yo-yo blu di plastica: lui non faceva differenza tra materiali impermeabili e no, trascinava tutto dentro la vasca a seconda del momento – una barchetta galleggiava sbilenca sull’acqua insaponata. La nave dei pirati, la nave di Capitan Uncino.

    Dalla superficie dell’acqua Leonardo fece spuntare un alluce, appena appena. Il coccodrillo. Non era verde, non aveva le scaglie e nemmeno i denti, ma comunque era il suo coccodrillo. Per un secondo la consapevolezza che si trattasse del suo dito sparì, e Leonardo ebbe davvero paura del coccodrillo. Si ritrasse di colpo perdendo l’appoggio sulla mano, e scivolò abbastanza perché la sua testa finisse sott’acqua. Fu solo un secondo: il tempo necessario per riequilibrarsi e riemergere. Ma, quando riaffiorò, Leonardo era terrorizzato, la bocca spalancata alla ricerca spasmodica dell’aria, i polmoni bloccati in un’apnea da panico.

    Finalmente ricominciò a respirare, cercando di cacciare le ondate di paura che l’avevano sommerso. È soltanto un po’ d’acqua, soltanto un po’ d’acqua, continuava a ripetersi. Se papà l’avesse visto… «Ancora con questa storia, Leonardo? Vuoi provare ad affogare in una vasca da bagno? Guarda che è piuttosto difficile.»

    Leonardo si riprese. Quei maledetti pirati… quasi avevano avuto la meglio su di lui. Per fortuna il coccodrillo si era tenuto alla larga.

    Una goccia di acqua saponata gli colò nell’occhio. Bruciava. Solo allora Leonardo si rese conto di essersi bagnato i capelli. Accidenti. Tanto valeva lavarli, uffa. Una delle cose che odiava di più, lavare i capelli. Tutta quell’acqua che gli cadeva sulla testa e gli toglieva il respiro. Senza contare lo shampoo che gli bruciava gli occhi.

    Allungò la mano verso uno dei flaconi disposti intorno alla vasca. Lo afferrò e lo portò davanti agli occhi. Cosa c’era scritto? Fissò i caratteri stampati sull’etichetta, che fluttuavano davanti a lui. Cercò di stare calmo. Bastava ricordare il trucco, tutto qui. Ormai era diventato un processo quasi automatico: quando restava tranquillo era capace di leggere abbastanza bene. Il primo segno era tutto curve, sembrava un serpente… S , sì, non poteva che essere una S . Il secondo assomigliava a… Leonardo studiò il carattere, diffidente. Cos’era? Non riusciva a riconoscerlo. Pareva una scala. Una H , certamente. Il terzo era più facile: due linee inclinate che si univano in alto, con una sbarretta in mezzo. Un Abete. Dunque una A . La quarta lettera era semplice: si trattava della prima che aveva imparato. Quattro linee inclinate che si congiungevano a due a due. Con la fantasia ci aggiunse un po’ di marrone in basso, una spruzzata di neve in alto. Montagne, senza dubbio. Una M . Poi… una Paletta, come quella dei vigili. P . E infine due bocche spalancate, come quando si ha una sorpresa e si dice Oh. Due O . Leonardo ricompose l’insieme: S , H , A , M , P , O , O . Quindi… shampoo, sì, certo. Sorrise, soddisfatto. Era contento di esserci riuscito in pochi istanti. Quando faceva i compiti, con papà che lo controllava in silenzio da sopra la spalla, era un’altra faccenda…

    Leonardo si versò una goccia di shampoo sulle mani e si lavò i capelli con accuratezza. Gli piaceva tenerli lunghi, e accettava di tagliarli solo quando il padre minacciava di farlo lui, di notte, mentre dormiva. Poi prese la doccetta, aprì l’acqua, un piccolo getto, appena appena. Non voleva provare di nuovo quella terribile sensazione di soffocamento. Ecco, finito. L’acqua gli scivolò via dai capelli, lungo il collo, giù per il petto magro, sopra le scapole sporgenti.

    «Papà, ho finito.» Leonardo provò ancora una volta, senza molta convinzione. Papà aveva deciso di trascurarlo. Qualche volta – raramente – accontentava quelli che chiamava i suoi capricci. Qualche volta reagiva urlando e infuriandosi. Qualche altra si limitava a restare silenzioso e indifferente.

    Rassegnato, Leonardo si alzò in piedi, lasciando che l’acqua sgocciolasse dal corpo smilzo e ossuto. Sollevò un piede, scavalcò il bordo della vasca e con attenzione lo appoggiò al tappetino, badando a non bagnare il pavimento. Papà non sopportava di trovarlo umido.

    Con la stessa cautela spostò il peso sul primo piede e trascinò fuori l’altra gamba. Prese l’accappatoio e lo indossò. D’accordo, papà aveva vinto. Ma lui non avrebbe fatto niente per sbrigarsi. Si sarebbe lasciato trovare senza vestiti. Doveva ancora lavare i mulinelli, ricordò all’improvviso: papà gliel’aveva ripetuto già tre o quattro volte. Leonardo rabbrividì per il piacere di quella silenziosa insubordinazione. Afferrò gli occhialini blu di metallo, dalle lenti rotonde, che aveva appoggiato sul bordo della vasca. Li inforcò. Il mondo riacquistò contorni precisi.

    Per passare il tempo, anziché dirigersi verso la propria camera, Leonardo si avviò verso la finestra. Alzandosi sulle punte per superare la sporgenza del davanzale, riuscì a dare un’occhiata fuori. E per un secondo, come sempre, ebbe una vertigine.

    Sotto di lui la scogliera cadeva a picco sul mare. L’acqua schiumava un centinaio di metri più in basso. Qualche sparuto pino marittimo era riuscito ad attecchire sulla roccia, e cresceva col tronco curvato all’insù come un punto interrogativo rovesciato. Brutali folate di vento frustavano le piante. La linea della costa si allungava deserta a destra e sinistra: per chilometri intorno nemmeno una casa, soltanto la vegetazione aspra e ostinata della riviera ligure. L’unica costruzione era la loro, una villa arroccata sulla pietra, a mezza strada tra il mare e il cielo. Sulla sinistra, più in basso, una breve terrazza di ulivi. La casa era un vero e proprio nido d’aquila piantato là dove sembrava impossibile arrivare, isolato da tutto e da tutti.

    Il mare si stava gonfiando in cavalloni spumosi. Era settembre, e il sole era già tramontato. Nella luce dell’ultimo crepuscolo, Leonardo poté distinguere in lontananza grossi nuvoloni che, come dirigibili, si avvicinavano dall’orizzonte. Lontanissima, quasi ingoiata dal buio, scorse una lucina tremolante. La barca navigava più o meno davanti all’isola del Risetto, dove sorgeva un carcere di massima sicurezza, così gli aveva detto papà. Gli aveva spiegato che in quella prigione erano rinchiusi i delinquenti più pericolosi. Nei periodi di migliore visibilità – soprattutto d’inverno, quando nelle giornate ventose era possibile distinguere addirittura le Alpi francesi innevate, dall’altra parte del Golfo di Genova – Leonardo con un cannocchiale studiava in lontananza la costruzione del carcere, assaporando un delizioso brivido di paura. Lo stesso brivido che provava quando, al mercato del giovedì, accarezzava gli oggetti in vendita fabbricati dai detenuti: specchi di ferro battuto, cestini, abat-jour di terracotta, cassette della posta, portariviste di vimini…

    All’improvviso percepì qualcosa con la coda dell’occhio, e abbassò lo sguardo. Una sagoma scura. Qualcuno correva nell’uliveto terrazzato sotto la casa. Lì arrivava il sentiero scavato nella roccia che partiva dal piccolo molo di cemento dov’era attraccato il loro gommone. Leonardo trattenne il respiro. Un’ombra… un’ombra in mezzo agli alberi. Ma sì, forse… non poteva che trattarsi di…

    Si girò e corse a prendere, dal ripiano di marmo della toilette, la piccola torcia da cui non si separava mai. Bastava premere un tasto e la sua luce magica metteva in fuga spiriti, diavoli, streghe e mostri. Ma stavolta a Leonardo serviva per un altro scopo. L’accese e la puntò in direzione dell’uliveto. Sciabolò la luce a destra e sinistra, cercando di intercettare la figura che aveva intravisto poco prima. Inutile. Tra le piante non c’era più nulla. Peccato, perché ne era sicuro. Non poteva che trattarsi di Peter Pan. Sì, Peter era venuto a riprendersi l’ombra, proprio come all’inizio del film. Forse era rimasta impigliata nella fiocina di papà. Forse quella mattina Peter stava facendo il bagno, e la fiocina gliel’aveva strappata via.

    In ogni caso, dovunque si fosse nascosto ora Peter Pan, lui non poteva più vederlo. Forse il capo dei Bambini Smarriti era volato via. Meno male, pensò Leonardo senza confessare neppure a se stesso il sollievo. Meno male perché, se Peter Pan glielo avesse chiesto, non avrebbe saputo decidere se seguirlo o meno sull’Isola che non c’è. Certo sarebbe stato bello, con Wendy, i Bambini Smarriti, Giglio Tigrato e tutti gli altri… ma… e papà? Non avrebbe mai avuto il coraggio di abbandonarlo. Faceva tanto il duro ma, se avesse trovato la sua stanzetta vuota come era capitato ai genitori di Wendy, sarebbe morto di dolore. Per fortuna era una scelta – volare o meno sull’Isola – che Leonardo non doveva affrontare. Peter era sparito senza indurlo in tentazione.

    Leonardo spense Trilly – la sua torcia – e la infilò nella tasca dell’accappatoio. L’eccitazione dell’avvistamento era svanita, e ora cominciava ad annoiarsi. Si trascinò fino alla toilette e afferrò un piccolo registratore digitale. Accanto, appoggiato sul ripiano, c’era un altro oggetto, metallico e terribile, che per tutto il tempo aveva cercato di ignorare. Occhieggiava dal marmo bianco, sinistro come le zanne di una tigre dai denti a sciabola: il suo apparecchio per i denti. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto farci i conti, ma per il momento preferì ignorarlo.

    Ripensò invece a quel che gli era appena accaduto, poi schiacciò il tasto REC .

    «Cara mamma, sai che questa sera ho visto Peter Pan? Sì, era lui, ne sono sicuro. Credo che sia venuto a cercare la sua ombra, proprio come è capitato a Wendy. Però all’Isola che non c’è non ci voglio andare…»

    Mentre registrava, Leonardo notò che sull’apparecchio si era acceso un led rosso. Le batterie si stavano scaricando. Schiacciò altri due pulsanti, e dall’altoparlante uscì la sua voce appena registrata.

    «Cara mamma, sai che questa sera ho visto Peter Pan? Sì, era lui, ne sono sicuro. Credo che sia venuto a cercare la sua ombra, proprio come è capitato a Wendy. Però all’Isola che non c’è non ci voglio andare…»

    Leonardo annuì, soddisfatto. Rimase indeciso, poi premette altri due pulsanti. Dall’altoparlante uscì una voce diversa, una voce di donna.

    «Caro Leonardo, questo è il regalo per il tuo sesto compleanno. Sarà il tuo diario: visto che scrivere non ti piace, lo inciderai qui sopra. Ogni giorno registrerai tutto quello che vuoi raccontarmi, e io alla sera lo ascolterò, così saprò sempre tutto quello che hai fatto…»

    Leonardo si precipitò a interrompere la registrazione. Ogni volta quelle parole, ma soprattutto quella voce, lo sconvolgevano. Era bello e brutto allo stesso tempo. Ricacciò indietro le lacrime e infilò il registratore nella tasca dell’accappatoio.

    Dunque, sembrava che papà non avesse alcuna intenzione di andargli incontro. C’era un’ultima arma a cui fare ricorso, la più terribile. Facendo forza su se stesso, si avvicinò all’apparecchio per i denti.

    «Teo» lo chiamava suo padre, cercando con quel nome di renderlo più amichevole e rassicurante. In effetti si trattava di una sigla che stava per Trazione Extra Orale. Papà ci scherzava: «Teo non vede l’ora di baciarti», o «Hai visto dove si è cacciato Teo?». Nonostante tutti questi tentativi, per lui era sempre rimasto un marchingegno orribile.

    Allungò le mani circospetto, come se avesse dovuto afferrare un serpente per la coda. Quando papà l’aveva portato dal dentista, due anni prima, lui era rimasto terrorizzato. Non gli pareva possibile doversi infilare in bocca quel gigantesco affare luccicante. C’erano volute più di due ore perché il medico riuscisse a cementargli sui denti le staffe, e poi gli mostrasse come le sottili stanghette di metallo si infilavano sui supporti. Una volta sistemato, occorreva mettere in tensione l’apparecchio con un elastico che passava dietro la testa. Con la bocca imprigionata a quel modo, secondo loro, Leonardo sarebbe dovuto tranquillamente andare a dormire…

    «Papà, lo sai che da solo non riesco a mettermi Teo!»

    Papà insisteva perché lo portasse con regolarità. Il dentista gli aveva spiegato che decine di altri ragazzi suoi pazienti se lo infilavano senza problema, ogni sera per mesi e mesi. «Altrimenti la tua bocca resterà piccola e alla fine dovremo strapparti quattro molari per lasciare il posto agli altri.» Nemmeno quella minaccia era bastata per convincerlo a ficcarsi in bocca da solo l’orrendo macchinario. Ogni volta era necessario che papà lo aiutasse, e neanche così l’operazione risultava semplice.

    «Papà, l’apparecchio!»

    Niente. Nessuna risposta. Papà voleva fare il duro, quella sera. Bene, allora sarebbe andato lui in salotto. Ma senza vestirsi. Non voleva dargliela vinta.

    Leonardo imboccò il corridoio buio che conduceva al soggiorno, reggendo l’apparecchio dentale come un’arma. Ebbe un fremito. Si fermò. Dalla tasca prese Trilly e l’accese, indirizzando il fascio di luce verso il basso.

    Nessuno sapeva che la luce della sua torcia era in grado di rivelare le impronte digitali, oltre che, all’occasione, di permettergli di vedere attraverso i muri. Si trattava di un segreto che andava ben custodito. Ma al momento tutto ciò che rischiarò fu il parquet e qualche granello di polvere. Dopo pochi passi, Leonardo si voltò di colpo, per controllare la propria ombra. Da quando aveva visto Peter Pan era terrorizzato all’idea non tanto di perderla, quanto di sorprenderla in una posizione diversa dal suo corpo. Ogni tanto s’immaginava di voltarsi di scatto ed ecco, la sua ombra era ancora sdraiata a letto mentre lui si era già alzato… Una scena del genere l’avrebbe terrorizzato. Non voleva che succedesse… eppure, allo stesso tempo, lo desiderava. Quando non riusciva più a resistere all’impulso, come ora, si girava di scatto a controllare. Tutto bene. Anche questa volta l’ombra lo seguiva docile, si disse un po’ deluso e un po’ no.

    A mano a mano che si avvicinava al soggiorno, dove le lampade erano accese, Leonardo percepì sempre più chiara una musica. Era una musica dolce, suadente, calma e tranquilla. Papà lo chiamava jazz, jazz caldo, chissà perché: ogni volta Leonardo s’immaginava che, prima di metterlo sul piatto, papà infilasse il disco nel forno. Stavolta non si trattava di un disco, ma della radio. Il brano venne interrotto da una pubblicità. Poi riprese. S’inserì una voce di donna che cantava qualcosa. Leonardo non capì le parole. Papà insisteva perché imparasse l’inglese, ma lui non ne aveva voglia. Quando era costretto, sbagliava apposta la pronuncia.

    «Papà…» fece per chiamare di nuovo, ma all’ultimo serrò la bocca, obbedendo a un impulso inspiegabile. Che sciocco: di cosa poteva aver paura, lì nella loro casa inespugnabile come un fortino?

    Fece un altro passo, e con il piede urtò qualcosa. Puntò la torcia. A terra vide una ciotola rovesciata, e una pozza di acqua intorno. Per fortuna non aveva provocato rumore: la ciotola era di plastica. Per fortuna… perché aveva pensato così?

    Leonardo avanzò ancora. La luce e la musica si facevano sempre più intense. Su un comò, nel corridoio, c’era una foto incorniciata. Passandole accanto, Leonardo l’accarezzò con dolcezza, come se al posto di una semplice immagine ci fosse la donna in carne e ossa: un volto dai lineamenti delicati, l’espressione tenera e divertita allo stesso tempo, i capelli biondi lunghi e mossi, e il profumo che emanava la sua pelle… sentì anche quello. Le mani erano intrecciate in un gesto che Leonardo conosceva bene: l’indice e il medio della destra stringevano la pietra dell’anello all’anulare sinistro, una grossa acquamarina montata su oro bianco.

    Rinfrancato da quel contatto, Leonardo superò deciso l’ultimo tratto che lo separava dal soggiorno. Ora non gli restava che svoltare l’ang…

    Sul tappeto, a pancia in su, disteso sotto il grande finestrone che inquadrava il mare, c’era suo padre. Aveva le mani e

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