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Barnaba Zago e la chiavetta del male: Una storia di ladri, bambini e canaglie
Barnaba Zago e la chiavetta del male: Una storia di ladri, bambini e canaglie
Barnaba Zago e la chiavetta del male: Una storia di ladri, bambini e canaglie
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Barnaba Zago e la chiavetta del male: Una storia di ladri, bambini e canaglie

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About this ebook

Barnaba Zago è un ladro professionista, che sa divertirsi giocando a poker con gli amici e a cui... piacciono le donne.
Durante una delle sue incursioni nelle villette dei ricchi possidenti della zona della Valpolicella, trova in una cassaforte una serie di chiavette usb, il cui contenuto è criptato. Chiede aiuto allora al suo amico hacker, ma ciò che contengono davvero è molto, molto grave.
La strada per la vendetta sarà insidiosa, ma per provare a salvare la vita di Vincenzino, Barnaba smuoverà mari e monti.
Il quinto libro di Graziano Turrini si sviluppa come un'indagine tra Veneto e Campania, coinvolgendo però anche il lato sentimentale del protagonista, che frequentando la figlia del commissario che indaga su di lui si muoverà sul filo del rasoio, rischiando di farsi scoprire.
LanguageItaliano
Release dateNov 16, 2021
ISBN9788893782586
Barnaba Zago e la chiavetta del male: Una storia di ladri, bambini e canaglie

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    Barnaba Zago e la chiavetta del male - Graziano Turrini

    Capitolo 1: notte di lunedì 8 aprile

    Sono sola. Ancora e di nuovo sola.

    Sola come quel cane che attraversa trotterellando la strada. Come quel tassista che torna a casa, bestemmiando al cellulare. E che fa finta di non vedermi, lo stronzo. Sola come quel barbone che, sbronzo da far vomitare, barcolla attorno alla panchina perché adesso non sa dove andare a dormire. Guardo nuovamente l'orologio: le due di notte. Le due di notte! E anche stavolta ha avuto il coraggio di sbattermi fuori di casa. Non voglio svegliarmi con una donna nel mio letto, mi ha detto. "Mi prende l'ansia."

    E comincia a piovere, maledizione! "Piove su i nostri volti silvani", come diceva il poeta e come ci faceva imparare a memoria alle medie la professoressa Guerini. Il Vate, lo chiamava lei. Il Water, lo avevamo soprannominato noi che non eravamo propriamente alunni modello. Non ho mai sopportato quella forma di malcelata nostalgia per il periodo più oscuro della nostra storia, ma qualche verso di poesia, mio malgrado, mi si è impresso indelebilmente nella memoria. Piove sui nostri volti silvani, sì, ma anche sui miei capelli, sulle mie scarpe e sul marciapiede dissestato e pozzangheroso di via Sansovino: accidenti al poeta, alla profe, al marciapiede e al mio orgoglio del cazzo! Da qui a casa mia saranno venti minuti buoni, se vado a passo veloce. Venti minuti, sotto questa pioggia e senza ombrello: come minimo arriverò fradicia – oltre che incazzata come il tassista di prima – perché a lui gli prende l'ansia. Guardo avanti, verso l'alto. Le gocce d'acqua mi feriscono gli occhi e non vedo nemmeno un balcone che possa offrirmi un po' di riparo.

    Se vuoi, ti accompagno, mi ha detto, sbadigliando e stirandosi le braccia: troppo poco convinto per risultare credibile. Mi era sembrata una galanteria fuori luogo, che stona con il suo modo di essere prima ancora che con il suo modo di fare. Al mio rifiuto, non si è nemmeno alzato dal letto: si è girato, cominciando immediatamente a russare. Chissà cosa avrebbe fatto se gli avessi risposto di sì.

    Continuo con il mio passo sostenuto e penso che, se avessi tagliato per via Longhena, forse avrei risparmiato un paio di minuti. E magari avrei anche trovato qualche poggiolo sotto cui avere l'illusoria sensazione di bagnarmi meno. Invece ho tirato dritto, fino in via Camuzzoni: mi piace camminare immaginando la presenza dell'argine del canale e sentendo lo sciabordio leggero dell'acqua che scorre sfregando, morbida, contro il cemento.

    Il bello è che lo sapevo, perché non è certo la prima volta che mi manda fuori di casa, nel pieno della notte. Anzi, ogni volta è così e, nonostante questo, ogni volta ci rimango male, come una stupida ragazzina innamorata. E nemmeno mi consola il presumere che faccia così con tutte. No, non mi consola ma, almeno, lo spero. Perché, che io non sia l'unica con cui va a letto, è certo. Ho sentito un odore diverso anche stanotte: intimo di donna, misto a un profumo dolce e all'aspro del sudore, un'essenza che non avevo mai sentito prima. Un odore, in ogni caso, recente. L'avrà scopata oggi pomeriggio, prima di venire a giocare con noi. Forse è per questo che poi ha perso. Sfortunato nel gioco, fortunato in amore, anche se penso che con lui questi proverbi non funzionino. Lui è fortunato nel gioco, in amore e nella vita in generale. Meritatamente, devo ammettere, nonostante stanotte si sia comportato da cafone perché non ha nemmeno avuto il buon gusto di cambiare le lenzuola.

    Arrivo in via San Marco che il semaforo sta lampeggiando: ovvio, il Comune li spegne verso mezzanotte. Questo, però, non è un problema: in giro non c'è nessuno. Non ci sono auto, né motorini, né biciclette: a parte la sottoscritta, nessun'altra forma di vita se, in queste condizioni, mi posso considerare tale. Per abitudine, guardo lo stesso a destra e a sinistra, prima di attraversare la circonvallazione. Mi porto sull'altro lato. Cammino a fianco dei platani sul marciapiede ma la speranza di non bagnarmi dura poco: le grosse foglie mi proteggono dalla pioggia leggera e insistente, però lasciano cadere certi goccioloni che, se mi dovessero prendere in pieno sulla capoccia, rischierei un trauma cranico.

    Ripenso a quando l'ho conosciuto, all'incirca due anni fa. Era un sabato, il 18 di aprile, e stavo facendo il servizio fotografico per la sorella del Botta. Cazzo! Sto proprio dando fuori di testa, se mi ricordo persino la data della prima volta che l'ho visto! Elena Bottecchia, era il nome della sposa, una delle spose più brutte e malvestite che io abbia mai visto. Il mio compito era di ritrarla in maniera tale che, per i posteri, risultasse passabile senza infangare troppo il ricordo della famiglia. Avevamo perciò concordato, con i suoceri, un ottimo prezzo: foto della cerimonia (a Santo Stefano, a Verona: ancora mi domando come abbiano fatto a ottenere il permesso di sposarsi in quella chiesa meravigliosa, loro che sono di Mozzecane), foto nella cripta e foto nella cappella degli Innocenti. Poi fuori. Qualche scatto su Ponte Pietra, al Teatro Romano e via di corsa al Parco della Sigurtà, a Valeggio sul Mincio. Pranzo e cena a Borghetto, in un romanticissimo e altrettanto carissimo ristorante. Sì, non avevano certo problemi economici. L'intero servizio, comprensivo di album fotografico in doppia copia e video, a tremila euro. Quando avevo sparato quella cifra esorbitante, nessuno dei familiari aveva battuto ciglio per cui – secondo la mia etica deontologica – avevo deciso di dare il meglio di me.

    Passo Porta San Zeno e la pioggia dà l'impressione di attenuarsi. Percorro altri cento metri, sempre allo scoperto, e sono già in Piazza San Zeno. Davanti alla basilica, le lastre di porfido bagnate riflettono le luci dei lampioni e adesso, ovviamente, che sono quasi arrivata a casa, smette completamente di piovere. Se a Troisi non restava che piangere, a me non resta che ridere: una risata, però, che è più simile a un ghigno amaro, nella consapevolezza che il destino, in questo momento, non è certo dalla mia parte. Comunque, mi mantengo lo stesso inconsciamente a ridosso delle case, sul marciapiede, anche se la pietra dà l'impressione di essere molto scivolosa. Vedo la mia ombra riflessa tra le inferriate della vetrina del Bar Centrale. Mi avvicino. I miei piercing in faccia sembrano scintillare sulle maniglie di ottone. Immagino lo stato dei miei capelli e mi terrorizzo. Mi chiedo se sia possibile ridursi così per un uomo. Mi faccio pena. Ho bisogno di una doccia, al più presto.

    Lo vidi in una pausa tra una portata e l'altra mentre, appoggiato a una ringhiera, fumava guardando turbinare le acque del Mincio nei canali tra le case. Gli avevo fatto qualche scatto anche prima, assieme agli altri, ma senza notarlo troppo: nelle foto di gruppo la cosa che conta è la centralità degli sposi per cui non focalizzavo mai i singoli. Era con Federico Gherli, il mio vicino di casa che mi aveva procurato il lavoro, e con quelli che da quel momento sarebbero diventati miei inseparabili amici: Mario Bottecchia, detto il Botta, il fratello della sposa, e Riccardo Furioni, per tutti il Geometra. Mi chiamarono per una foto, fischiando e sbracciandosi per attirare la mia attenzione. Una foto con i calici in mano traboccanti di Lugana. Stavano brindando, ma non agli sposi, com'era logico aspettarsi. Brindavano a un tale di nome Schizzo, loro amico, che si era schiantato con la Kawasaki sulla Gardesana una settimana prima. Aveva appena riaccompagnato in albergo una turista tedesca – con la quale, mi raccontarono in seguito, aveva trombato come un riccio per tre giorni consecutivi – quando, in un sorpasso, non aveva fatto in tempo a rientrare in corsia ed era andato a sbattere, definitivamente, contro il muso di uno Scania. A Schizzo, che ha vissuto! Questa è la frase, uscita all'unisono dalle loro bocche, che rimase immortalata dalla mia Canon.

    Entro a Piazza Corrubbio. Coraggio, Anastasia! Un ultimo sforzo e ci siamo. Cammino con estrema attenzione sui sampietrini in porfido: quando sono bagnati, diventano altrettanto – se non più – infidamente viscidi delle lastre di pietra. Cammino velocemente lo stesso e penso che, una volta arrivata a casa, dovrò fare attenzione: probabilmente Federico, che vive nell'appartamento a fianco del mio, starà dormendo ma, in ogni caso, non voglio che si accorga che sto rientrando. Sarebbe mortificante, per me. E, forse, anche per lui: mi ha fatto gli occhi dolci più d'una volta, e non so come viva questa mia relazione con il suo, e nostro, amico.

    Dopo il brindisi ci presentammo. Fu in quel momento che venni a sapere che il defunto Schizzo era stato – fino alla sua dipartita da questo mondo – il quinto giocatore del loro gruppo di poker settimanale. E che adesso, in attesa di un affidabile sostituto, sarebbero stati costretti a giocare noiosissime partite in quattro. A me il poker è sempre piaciuto. Ci gioco da anni, sia nella versione americana Texas Hold'em che in quella tradizionale chiamata europea o francese. E lo faccio sia online che nei vari tornei organizzati a Verona e dintorni. Qui si sarebbe trattato di un impegno fisso – tutti i lunedì sera – e sempre con gli stessi personaggi. La cosa mi garbava: glielo feci notare e offrii la mia disponibilità. Si guardarono stupiti: probabilmente non pensavano che anche una donna potesse giocare a carte. Li vidi farsi occhiatacce, girarmi la schiena e confabulare tra loro, alzare la voce e bisbigliare, bestemmiare e ingollare d'un fiato quello che di Lugana rimaneva nei loro calici. Poi lui si voltò verso di me.

    D'accordo. Lunedì prossimo proviamo ma, se la cosa non funziona, ci lasciamo così, da buoni amici. Mi toccai il piercing sullo zigomo destro – un anello d'oro di due fili attorcigliati tra loro – per dare l'idea di mettere a fuoco la sua immagine e squadrarlo meglio. Era di altezza media, poco sopra l'uno e settanta. Un fisico longilineo, asciutto e nervoso. Mi colpirono le braccia: lunghe e magre ma muscolose. Portava i capelli corti: neri, ricci e arruffati. E, nel viso spigoloso e affilato, sotto le ciglia fin troppo folte, spuntavano due occhi tondi e scuri, ma sereni e brillanti, che mi fissavano con curiosità, in attesa della mia reazione. Fu in quel momento che me ne innamorai? Sinceramente non lo so. Di sicuro fu da quel momento che volli conoscerlo meglio e che, per questo, passai sopra al loro avermi accettato come un ripiego in prova, come un sostituto apprendista del defunto Schizzo.

    Ok, risposi, a lunedì.

    Percorro vicolo Caserma Chiodo in un salto. Svolto a sinistra ed entro in vicolo Cicale. Finalmente a casa! Accompagno il portone perché non sbatta e faccio i gradini due alla volta, in silenzio. Giro la chiave nella toppa con estrema lentezza e attenzione, tendendo l'orecchio verso la porta a fianco. No, non sento nessun rumore: di sicuro Federico sta dormendo e difficilmente si sveglierà. Oppure sarà ancora, con musica e cuffie, davanti al computer. Entro in doccia e rimango per qualche minuto sotto l'acqua calda, per togliermi di dosso l'umidità che mi ha divorato le ossa nell'ultima mezz'ora. Mi sciacquo. Allungo la mano verso il fohn ma mi blocco all'istante: farebbe troppo rumore. Allora mi tampono i capelli con l'asciugamano e, nel frattempo, mi guardo nello specchio, parzialmente annebbiato dal vapore. La lastra silicea riflette la mia figura magra – forse eccessivamente magra – ma, nel complesso, equilibrata e ben strutturata. Non riesco a giudicare la bellezza del viso: non ci riesco con le altre, figuriamoci con me stessa. Però non mi sento brutta. Anzi. E i piercing mi donano, creano un certo fascino. Come un'adolescente insicura, mi guardo anche il seno: sorrido compiaciuta, stabilendo che mi piace. Mi metto di profilo e lo soppeso: prima con gli occhi, poi con le mani. Ripenso alle sue, di mani, quando, non più tardi di un paio d'ore fa, vagavano instancabili in territori che lui ormai conosce alla perfezione: dalla nuca al mio ventre, dal petto ai miei fianchi, dalla schiena alle mie cosce. Le sue mani, con le dita lunghe e affusolate, da pianista. Le sue mani che, sul mio corpo, suonavano melodie non concesse a tutti. Le sue mani che mi artigliavano, mi bloccavano, m'inchiodavano al materasso… aprendo la strada alla sua bocca che mi divorava, al suo membro che mi penetrava e mi possedeva, instancabilmente, definitivamente, facendomi naufragare in un mare di piacere… e di illusioni.

    Le sue mani. Mani abili, mani preziose… le mani di Barnaba.

    Barnaba Zago. Per noi, suoi amici, Lupin.

    Asciugo il vapore dal vetro e mi fisso negli occhi. Non so se essere triste o felice. Mi sforzo di sorridere ma, dalla parte del piercing, vedo scendere una lacrima.

    Sono sicura che anche stanotte, pensando a lui, non dormirò.

    Capitolo 2: martedì 9 aprile

    Aveva lasciato le tapparelle aperte, la sera prima, e adesso il sole gli stava tormentando il viso. A occhi chiusi e senza girarsi allungò la mano verso l'altra parte del letto. Nessun corpo che opponesse resistenza. E le lenzuola erano fredde. Pensò, e sperò, che se ne fosse andata. Rimase in silenzio qualche secondo, ad ascoltare, ma dal bagno non sentì provenire nessun rumore. Tentò confusamente di ricostruire quello che era successo. Il poker, Anastasia, una corsa a casa sua, poi subito a letto, avvinghiati l'uno all'altra, intrappolati dalle loro stesse braccia, dalle loro gambe, nella famelica ricerca di piacere…

    Avevano bevuto parecchio, perlomeno lui. Di questo si rendeva conto. Sia durante la partita che dopo, quando era rimasto solo con lei. Dapprima birra e poi superalcolici. Troppi, probabilmente. Si erano scolati quasi una bottiglia intera di Flor de Caña, un rum nicaraguense, il suo preferito.

    Aprì un occhio e diede uno sguardo alla sveglia sul comodino. I led rossi segnavano le otto e qualche minuto. Era ora di cominciare ad alzarsi, ma non ne aveva nessuna voglia. Richiuse l'occhio e altre immagini gli tornarono alla memoria. Un temporale, un acquazzone improvviso, proprio quando Anastasia se ne stava andando. Saranno state le due di notte, o forse le tre. Perché non l'aveva accompagnata? Probabilmente lei non aveva voluto. O forse aveva visto le condizioni in cui era ridotto.

    Una doccia. Adesso la prima cosa da fare era una bella doccia fredda. Poi avrebbe pensato al resto. Tentò di riaprire lo stesso occhio di prima, riuscendoci parzialmente; poi, con uno sforzo immane, anche l'altro. I raggi del sole continuavano a colpirlo. Si fece coraggio e si mise seduto sulla sponda del letto. I piedi che toccarono il pavimento gelido gli diedero la scossa e l'energia necessaria per sollevarsi completamente e dirigersi verso il bagno.

    Quando ne uscì, una mezz'ora più tardi, si sentiva rinato. E affamato. Accese il televisore su Rai News24 – l'unico canale che, a suo avviso, valesse la pena guardare – e cominciò a pensare alla colazione. Per prima cosa preparò la moka, quella grande, da cinque, e la mise sul fornello acceso. Poi dal congelatore estrasse tre fette di pane, le riscaldò nel fornetto elettrico e le portò in tavola, assieme al burro e alla marmellata di ciliegie. Tolse la caffettiera dal fuoco e si sedette.

    Vedendo le notizie passare sullo schermo s'intristì. Una buona parte erano dedicate allo sport perché quella settimana si sarebbero giocate le partite di andata dei quarti di finale di Champions League. I toni erano entusiastici, perché gli esperti già prefiguravano una finale tra Juventus e Barcellona: stelle bianconere contro stelle blaugrana, come se si andasse alla guerra. Provò a fare mentalmente il calcolo – assieme al giornalista che presentava il servizio – di quanto potessero guadagnare quelle stelle in un anno, o in un mese, o in un giorno, o in un'ora… solo per prendere a calci una sfera di cuoio, ma dovette rinunciare: di sicuro, pensò, attorno al calcio stavano girando troppi soldi per poterlo considerare solamente un gioco. La notizia successiva – la vendita del Milan a una multinazionale cinese – non fece altro che rafforzare la sua opinione: il calcio dei tempi eroici, dei calciatori pagati poco più di un idraulico, delle discussioni animatissime e interminabili al bar… non esisteva più.

    Spennellò di burro e marmellata la prima fetta di pane, proprio nel momento in cui veniva presentato un servizio dell'Associazione Nessuno tocchi Caino, che illustrava il suo report annuale: secondo i dati elaborati, il 43% delle persone giustiziate negli Stati Uniti negli ultimi 15 anni avevano ricevuto diagnosi di disagio mentale. Esterrefatto, lasciò cadere il pane nel piatto. Non aveva mai avuto un'alta considerazione degli USA, intesi come popolo e come politica: si era fatto convinto che tutta quella libertà sbandierata ai quattro venti fosse esclusivamente di facciata e servisse solo a nascondere la loro vera natura, fatta di arroganza, ignoranza, razzismo e prepotenza. Forse per associazione di idee, gli venne in mente Giorgio Gaber, coi suoi monologhi che, nella formazione di questo giudizio, gli erano stati di grande aiuto. Ah, come gli mancava Gaber! Se ci fosse ancora, pensò, sicuramente scriverebbe di getto un'altra canzone sugli americani e sull'America, su quel Paese perennemente in armi dove non c'è nessun rispetto per la vita umana e si uccidono persino i malati di mente…

    Smise di mangiare e spense la televisione, perdendosi così le altre notizie del giorno – dall'ennesimo litigio tra Lega e Movimento Cinque Stelle, stavolta, sulla flat tax, alle spacconate di uno dei due vicepremier sulla TAV e sui migranti – che, sicuramente, lo avrebbero messo ancor più di cattivo umore.

    Si vestì in fretta e scese in garage, proponendosi di terminare la colazione facendo tappa al bar di Angelino, alla Bassona, dove avrebbe potuto bere un buon caffè e acquistare qualche brioche da portare alle ragazze al canile. Sollevata la basculante, rimase a osservare per qualche secondo le sue due auto: l'orribile Fiat Punto grigia, da lavoro, e la splendida BMW Z3 rossa fiammante, per tutto il resto. Aveva sempre avuto la passione per le auto sportive e questo modello, nel settore delle roadster, a suo avviso era quanto di meglio la casa bavarese avesse mai realizzato. L'aveva comprata usata nel 2011, con i suoi primi guadagni extralavorativi, ed era stato tentato più volte di sostituirla con la Z4: era stato frenato solamente dal fatto che l'ultima versione portava il tettuccio rigido, fatto che, per lui, era inconcepibile in questo tipo di auto. Passò con la mano, come in una morbida carezza, sugli specchietti e sulla capote, rendendosi conto che gli anni stavano inesorabilmente passando anche per il suo gioiello. Se almeno la BMW si decidesse a far uscire la Z5… tu potresti finalmente riposare. Le notizie di mercato degli ultimi mesi, effettivamente, davano come prossima la commercializzazione dell'ultima tanto attesa roadster, realizzata in collaborazione con la Toyota; ma erano rimaste solo notizie. Qualche foto era girata in rete tra i fan della casa tedesca, ma nulla più: i concessionari – probabilmente per alimentare l'aspettativa – tenevano la bocca cucita e non facevano trapelare nulla. Solo grazie a Federico, che si era introdotto nei sistemi informatici della BMW, era entrato in possesso di un video delle prove su strada e su pista della nuova vettura: ma l'auto era stata talmente camuffata da non renderla appetibile nemmeno al più scatenato estimatore. Vabbè pensò, quando sarà ora ci ragioneremo… Mise in moto e partì.

    ***

    Angelino in realtà si chiamava Ettore ma, sia nell'insegna che per i clienti, aveva voluto mantenere il nome del nonno che aveva aperto l'osteria poco dopo la fine della Grande Guerra. A quel tempo era poco più che una frasca – come venivano allora chiamate le osterie di campagna che, appendendo un ramoscello vicino alla porta, segnalavano che in quel posto il vino era buono – situata in una zona praticamente disabitata ma di grande passaggio, perché congiungeva la città con il lago di Garda. Nei primi anni Cinquanta – con il vecchio Angelino che ormai non ce la faceva più – l'attività era passata in mano a Ettore. Lui, però, nel rispetto delle volontà del nonno, non aveva fatto grossi lavori di restauro: solo delle tinteggiature dove indispensabile ma per il resto – bancone in legno, specchiera, botticelle al posto dei tavolini – tutto era rimasto come prima. Con il passare degli anni Ettore aveva dovuto adeguare il locale alle esigenze della clientela e alle nuove normative igieniche – banco frigo nuovo, taglieri in teflon, scarichi adeguati, bagno di servizio, e cose di questo genere – ma l'impronta del locale era rimasta quella iniziata, e voluta, dal primo Angelino. Chi entrava, in effetti, aveva l'impressione di rivivere tempi antichi: poca luce, tavoli bassi, parti di carriole, di carretti e di attrezzi agricoli appesi alle pareti in memoria di cosa era stata, per secoli, quella zona; e, immancabile, una frasca sempre appesa sopra la porta d'ingresso.

    Barnaba lo aveva eletto suo rifugio contro tutti i mali del mondo e, quando aveva un po' di tempo, non perdeva occasione per passare e fare quattro chiacchiere con il vecchio Angelino. Entrando, si sedette al suo solito tavolino, quello nell'angolo più buio e più lontano dalla porta. Non passò nemmeno un minuto prima che Ettore arrivasse, zoppicando, portandogli una brioche alla marmellata e un caffè ristretto. Dopo aver appoggiato il servizio sul tavolo, si sedette con lui massaggiandosi con entrambe le mani la zona lombare.

    «Ah, la mia povera schiena! Ciao Barnaba, come va? Non hai avuto tempo di far colazione a casa stamattina?»

    «Ciao Angelino» rispose lui. «A dir la verità avevo iniziato a prepararmi qualcosa, ma poi ho avuto la malaugurata idea di accendere la tv… e mi sono bloccato.»

    Ettore gli fece un sorriso comprensivo. «Eh figlio mio! Continuo a dirtelo: tu ti preoccupi troppo di quello che ti sta attorno e di quello che succede a Roma. Dovresti essere più sereno e distaccato, anche perché, tanto, quelli fanno sempre quello che vogliono…»

    Barnaba lo guardò storto, ma con la benevolenza dettata dall'affetto che provava per il vecchio. «Proprio tu mi dici questo, Angelino? Tu che a nemmeno dieci anni facevi la staffetta per i partigiani?»

    Ettore Girardi era nato nel 1935. Ribelle di natura, lo era stato anche alla nascita, uscendo da un parto così difficile che la sua povera madre non aveva retto, donandogli la vita in cambio della propria. Non aveva mai conosciuto nemmeno il padre, Benvenuto, ucciso per le sue idee politiche troppo distanti da quelle del regime in un'imboscata fascista un paio di mesi prima della sua nascita. Era perciò cresciuto con il nonno, nascosto sulle montagne dell'alta Lessinia e partecipando attivamente, nonostante la giovane età, alla scelta di parte fatta dalla famiglia.

    «No, Barnaba, non ti ho detto di non far niente, anzi. Solo di non prendertela tanto se le cose non vanno come vuoi tu. Cos'è che ti ha infastidito stamattina? Le promesse sulle nuove pensioni? Oppure Renzi che vuole fare la sua ricomparsa sulla scena politica?»

    «No» rispose Barnaba. «Per fortuna queste non ho fatto in tempo a sentirle. Ma lasciamo perdere, Angelino, che non mi voglio rovinare la giornata. Tu, piuttosto, come stai?»

    «Eh ragazzo mio! Come vuoi che stia? Come un povero vecchio pieno di dolori…»

    Barnaba gli sorrise, con tutta la dolcezza che l'anziano gli ispirava. «Primo: non è l'anagrafe che determina l'età ma lo spirito, e tu, di spirito, puoi dare parecchi punti a tanti giovani come me. E, secondo, le conosco bene le vostre lamentele, tue e degli altri vecchi come te: non è altro che una maniera per farvi compatire, perché in realtà state molto meglio di noi.»

    L'anziano uomo ricambiò il sorriso. «Sì, hai ragione. Ormai, tirare in ballo i nostri dolori è diventata più un'abitudine che un'effettiva condizione.» Sospirò. «Però, seppur con lo spirito di cui tu mi gratifichi, gli anni comincio a sentirmeli tutti. A settembre, se ci arrivo, saranno ottantadue, e non so quanto ancora potrò tirare avanti con il bar.»

    Barnaba fu colto alla sprovvista. «Ma, Angelino, non starai mica scherzando? E noi come facciamo?»

    «Cosa vuoi che sia? Morto un papa se ne fa un altro. Piuttosto, si dovrebbe trovare qualcuno che non si discosti molto dalla nostra tradizione di famiglia, che non abbia intenzione di stravolgere completamente il locale perché altrimenti il nonno si rivolterebbe nella tomba. Non è che, per caso, tu conosci qualcuno, senza troppi grilli per la testa, disposto a rilevare l'esercizio? Guarda, con il bar di sicuro non si diventa ricchi ma perlomeno ti dà da mangiare, se non hai troppe pretese…»

    «Mah, Angelino, così su due piedi non mi viene in mente nessuno» rispose Barnaba. «Dovrò guardarmi attorno e spargere la voce. Ti sei già informato su quanto può valere la licenza? E su quanto chiedere per l'affitto del locale?»

    L'espressione amara del vecchio rivelò in un attimo tutti i suoi rimpianti. «Barnaba, lo sai che io non ho figli. Anzi, non ho proprio nessuno, a parte te e quelli come te che vengono qui a bere un'ombra o a mangiare un panino. No, non fraintendermi, non voglio piangermi addosso: è stata una mia precisa scelta, o almeno così voglio credere. Solo che adesso mi trovo solo e non so cosa fare. Se tu ragazzo mio, per esempio, decidessi di mollare la vita sregolata che fai e prenderlo in gestione… io ti regalerei tutto, casa e licenza, perché tanto, da morto, che me ne farei dei soldi? Nella bara non ci entrano di sicuro…» Scosse la testa, consapevole che con Barnaba non avrebbe funzionato. «Ma è inutile che mi illuda: tanto non ti ci vedo dietro a un bancone a far la bella faccia a tutti, ad ascoltare tutte le magagne della gente, a dar loro una parola di conforto o di incitamento quando ne hanno bisogno…»

    «Quello che tu fai con me…»

    «Sì, e con tanti altri. Vedi, figlio mio, fare il barista è un po' come fare il prete: non basta la passione, ci vuole anche la vocazione. Devi saper ascoltare, innanzitutto, e devi saper raccontare storie. La gente ha bisogno di certezze e tu gliele devi dare, senza però farglielo pesare.» Si interruppe, rimanendo per qualche istante assorto nei suoi pensieri. «Vabbè, comunque lasciamo perdere, per adesso. Però, Barnaba, guardati veramente attorno per vedere se riesci a trovare qualcuno che secondo te abbia le caratteristiche che ti ho spiegato: sento che non ho più tanto tempo per fare le cose con la calma necessaria.»

    ***

    Aveva fatto veramente fatica ad addormentarsi. La camminata rabbiosa sotto la pioggia di un temporale dispettoso, una doccia calda che invece di tranquillizzarla l'aveva svegliata completamente, il ricordo di quanto successo con Barnaba nelle ore precedenti, il pensiero di lui tra le braccia di un'altra donna, il pianto soffocato sulla poltrona prima e a letto dopo… Insomma, non era riuscita a prendere sonno prima delle quattro di mattina.

    Non aveva messo la sveglia, proponendosi di dormire finché ne avesse avuta voglia. Era martedì, e al martedì, di solito, non si prendeva mai impegni lavorativi.

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