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Il sapore delle mele selvatiche
Il sapore delle mele selvatiche
Il sapore delle mele selvatiche
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Il sapore delle mele selvatiche

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About this ebook

Padova, 1940. Con l’Italia che si prepara alla guerra, cinque amiche molto diverse tra loro cominciano a sospettare che niente sarà più come prima, ma se c’è una cosa di cui sono sicure è che l’amicizia che le lega non cambierà mai.
Agnese è ancora molto giovane quando diventa moglie del capitano Serra e madre delle sue figlie: un equivoco, proprio il giorno delle nozze, incrina il loro rapporto inducendo tutti a credere che sia impossibile recuperarlo.
È nel momento in cui il destino le pone un bivio importante che Margherita dovrà scegliere se lasciarsi andare a un legame compromettente o continuare ad adagiarsi nella vita di sempre.
Con una famiglia benestante e intransigente alle spalle, Emma è una ribelle, una donna libera e moderna che pur di uscire dai binari prestabiliti dal padre mette in scena un finto fidanzamento con un abile e libertino avvocato.
Educata a obbedire alle regole e a far fronte al duro lavoro in ospedale, Costanza teme di non essere in grado di sopravvivere alla vita quando questa sembra solo andarle contro. Chissà se l’amore basterà a far sì che ogni cosa torni a girare per il verso giusto!
Anna ha lasciato la famiglia e l’odiato patrigno per una vita migliore, eppure comincia a dubitare di avere davvero tutto ciò che serve per affrontarla da sola, la vita.
Mentre tutti si preoccupano per le sorti del Paese, le amiche riversano la speranza di poter cambiare il futuro in un progetto ambizioso, ma anche pericoloso, che le condurrà a temere per le loro stesse vite. Le avventure, gli amori e le passioni avranno ancora lo stesso sapore?
LanguageItaliano
Release dateNov 15, 2021
ISBN9788866604044
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    Il sapore delle mele selvatiche - Laura Rico

    Tavola dei Contenuti (TOC)

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    Laura Rico

    Il sapore delle mele selvatiche

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    ISBN versione digitale

    978-88-6660-404-4

    R o m a n z o

    IL SAPORE DELLE MELE SELVATICHE

    Autore: Laura Rico

    © CIESSE Edizioni

    www.ciesseedizioni.it

    info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di settembre 2021

    Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: Licenza Creative Commons CC0

    (libero uso commerciale, attribuzione non richiesta)

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    Collana: GREEN

    Editing a cura di: Giulia Pretta

    Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Alle mie amiche

    San Benedetto delle Selve, 1944

    Campagna padovana

    L’aria sapeva di primavera e di terra. Alte, sopra il campo di grano ancora giovane, si rincorrevano due rondini. Agnese alzò la testa per seguirne il volo. In cielo, nemmeno una nuvola schermava la luce del sole che si avviava al tramonto. Gli steli verdi arrivavano al petto, ormai, e una folata di vento li scosse all’improvviso facendoli ondeggiare e scoprendo una distesa di papaveri rossi e di fiordalisi. Fu in quel preciso istante che sentì l’odioso ronzio, lontano. Negli ultimi tempi l’aereo era passato spesso e lei era diventata abile a valutare quanto ci sarebbe voluto prima di vederlo passare sopra le loro teste. Non molto. Lei e le bambine si erano allontanate troppo per riuscire a tornare a casa in tempo. Guardò d’istinto verso il rombo. La sagoma di tre aerei era già nitida nel cielo terso.

    «A terra!» urlò svelta.

    Maledizione! Ogni volta la stessa storia. Desiderava ardentemente qualcosa con tutta se stessa e quando finalmente la otteneva questa si trasformava in polvere tra le sue dita. Ciò che andava sognando da tempo stava per avverarsi, ma ora non era più sicura di volerlo davvero. Era andata così sin dal giorno in cui suo padre l’aveva costretta a trasferirsi con le bambine nella casa di villeggiatura in campagna.

    «Tuo marito è stato dichiarato disperso» aveva detto il Colonnello dopo aver posato la lettera sul tavolo. «Devi pensare a loro, adesso, e portarle lontano da qui» aveva aggiunto puntando il mento verso le piccole. Non c’era stato molto da ribattere, spettava a lui ora prendere le decisioni e aveva già stabilito che la casa di San Benedetto sarebbe stata un posto al sicuro dai bombardamenti. Niente gli avrebbe fatto cambiare idea. Era accaduto talmente in fretta che Agnese non aveva neanche avuto il tempo di fare le valigie per bene. La domestica aveva impacchettato qualche abito insieme a un paio di libri e l’autista di famiglia le aveva accompagnate. Sua madre non era andata con loro.

    «Venite con noi, mamma» l’aveva pregata.

    «Non posso» aveva risposto lei senza alzare lo sguardo dal libro che ogni giorno fingeva di leggere. «Tuo fratello potrebbe tornare da un momento all’altro e io devo essere qui ad accoglierlo. Che farebbe se non trovasse nessuno?»

    «C’è sempre qualcuno in casa. La governante, le cameriere…»

    «Non è possibile, te l’ho detto.»

    Non era più la stessa da quando era giunta la notizia della scomparsa del figlio, partito volontario due anni prima per la guerra civile spagnola e considerato disperso dopo che il suo aereo era stato abbattuto in combattimento.

    Suo padre non le aveva nemmeno dato il tempo di racimolare gli oggetti a lei cari, la scatola con i colori, gli spartiti con la musica o i suoi cappellini preferiti. Tutto sommato non era importante, nella casa in campagna non c’era un pianoforte da suonare, né un viale dove sfoggiare copricapi fioriti.

    Erano passati dei mesi, ma se chiudeva le palpebre, riusciva a rammentare ogni dettaglio come se stesse guardando un quadro: lo sguardo fermo di suo padre seduto dietro l’antica scrivania nel salone, gli occhi inespressivi di sua madre, laggiù, in fondo alla stanza, perfino le teste bionde e l’espressione curiosa delle bambine che suo marito le aveva lasciato da crescere.

    Non riusciva a ricordare se l’avesse mai amato davvero. Era poco più di una ragazza quando suo padre l’aveva concessa in sposa al capitano Luigi Serra e dopo pochi giorni lui era stato spedito a combattere in Spagna. I suoi rimpatri erano stati radi, frettolosi, giusto il tempo di assolvere i doveri coniugali e tornare a combattere. In qualche modo lei lo aveva amato, in fondo, o almeno così le pareva. Cecilia e Lisa glielo rammentavano ogni giorno. Non erano figlie sue, ma erano diventate l’unica ragione per andare avanti, per vivere, per respirare.

    Da mesi combatteva le sue piccole battaglie personali: contro suo padre che l’aveva allontanata dalla città; contro i mezzadri che si prendevano cura di lei ogni giorno, contadini che l’italiano lo masticavano appena e che abbassavano lo sguardo quando le parlavano giacché erano consapevoli di avere soltanto una percezione vaga del suo mondo fatto di agi, oggetti preziosi e abiti alla moda; e infine, contro la sua condizione di giovane madre sola.

    Dannata guerra! Aveva sconvolto le loro vite portandosi via tutte le speranze della giovinezza. Nessuna delle sue amiche ne era uscita indenne, nemmeno Emma che tra tutte era la più sfrontata. Eccola di nuovo, quella sensazione di impotenza che le squarciava lo stomaco. Quante volte aveva cercato di non pensare a loro, di soffocare i ricordi, ma l’inebriante profumo ferroso della città accompagnato dal rumore dei tacchi sul pavé dei sottoportici l’avevano spesso riportata indietro, ai tempi in cui tutte insieme sognavano che la guerra fosse finita e immaginavano che la vita fosse tornata a scorrere normale. Le mancavano gli schiamazzi e le risa soffocate. Non c’era nemmeno una fotografia che le ritraesse insieme, ma non ne aveva bisogno per ricordarsi di loro. Lo sguardo intenso di Emma, i suoi capelli biondo platino acconciati all’ultima moda e la sigaretta alle labbra erano marchiati a fuoco nella sua memoria. Ancora oggi, non riusciva a fare a meno di sorridere dei buffi battibecchi in cui Emma riusciva a coinvolgere Costanza. Le due non avrebbero potuto essere più diverse: fingevano di detestarsi, mentre invece erano affascinate l’una dall’altra. Nemmeno i modi convincenti e l’inconfondibile tono pacato di Margherita erano mai riusciti a calmare gli animi e mettere pace tra le due. A volte la sera, poco prima di addormentarsi, le sembrava di udire i suoi sussurri: «Sst, finitela di bisticciare» e subito dopo la voce roca di Anna che le difendeva: «Lasciale fare» diceva «stanno solo giocando». La vita intera era un gioco per Anna. Sempre. Si passava un filo di rossetto sulle labbra ed era pronta per una nuova elettrizzante conquista. Nessun uomo sapeva negarle un po’ di attenzioni.

    Le aveva perse, le sue care amiche, e forse non le avrebbe mai più riviste. C’erano state notti, da allora, in cui la paura di non farcela era stata più forte di tutto, notti in cui aveva segretamente immaginato che l’aereo che quasi ogni sera sorvolava le campagne per sganciare il suo carico di morte potesse mettere fine alle loro vite di colpo, in un soleggiato pomeriggio di primavera. Aveva perfino desiderato che succedesse, ma ora che stringeva a sé le bambine, distesa in un campo di grano acerbo tra papaveri e fiordalisi, sentiva il cuore scoppiarle nel petto. Aveva paura.

    Sentì una raffica di spari confondersi con il rimbombo assordante del motore degli aerei e, d’impulso, coprì gli occhi delle piccole con le mani. Lei invece guardò. Non avrebbe saputo dire se fossero italiani, tedeschi o americani, ma capì immediatamente che uno dei velivoli stava cercando di salvarsi dai due che lo attaccavano. Le sembrò di vivere un inferno. E se uno di quei proiettili avesse colpito per sbaglio una delle bambine?

    Udì un’altra veloce scarica di colpi e vide il piccolo aeroplano prendere fuoco e perdere quota. Uno squarcio nel cielo. L’ammasso di fumo e fiamme si schiantò al suolo in una violenta esplosione, lontana.

    Si sfilò lentamente dall’abbraccio delle bambine e Cecilia tentò subito di sollevare la testa, gli occhi sbarrati in un’espressione di terrore. «Sta’ giù» le intimò lei abbassandole il capo e cercando al tempo stesso di stringere a sé Lisa che seguitava a emettere un piagnucolio sommesso. «Sst! È tutto finito» sussurrò per tranquillizzarla, ma la bambina non riusciva a calmarsi. Puntellò un gomito a terra per sollevarsi e vide qualcosa scendere lenta dall’alto, verso destra. Strizzò gli occhi e riconobbe la sagoma di un paracadute. Il vento lo sospingeva rapido verso il boschetto al limite del campo.

    «Riportala a casa» ordinò a Cecilia. «Correte! Svelte!»

    Osservò le piccole teste bionde allontanarsi mano nella mano fino a confondersi con le spighe di grano, poi tornò a guardare verso la boscaglia. Pensò a suo marito, caduto prigioniero dopo un atterraggio di fortuna. A dire il vero, non era rientrato da una missione di ricognizione ed era un sollievo pensare che qualcuno lo avesse soccorso e lo tenesse nascosto da qualche parte.

    Si alzò in piedi lentamente e si incamminò con passo incerto in direzione del boschetto. Da lontano riuscì a distinguere un paio di stivali militari penzolare da un albero. Non si muovevano. Cosa avrebbe fatto se si fosse trattato di stivali tedeschi? Non lo sapeva. Si fece coraggio e si addentrò tra gli alberi fino a distinguere nell’ombra la faccia bianca di un uomo, in alto. Il corpo sospeso alle corde del paracadute aggrovigliate ai rami era perfettamente immobile. Aveva una pistola nella mano sinistra e gliela stava puntando contro.

    Non somigliava al soldato feroce che aveva immaginato di trovare, era più simile a un fantoccio appeso ai fili di un burattinaio. Che le puntava una pistola al petto.

    Dovette prendere un respiro profondo prima di parlare: «Sei ferito?».

    Lui la guardò con occhi severi, ma non rispose.

    «Blessé?» domandò in francese nella speranza che lui potesse capire.

    Senza distogliere lo sguardo da lei, il soldato si sfilò un coltello dallo stivale e dopo aver riposto la pistola, lo usò per liberarsi. Con un balzo saltò giù dall’albero per avvicinarsi.

    «Aiutami» le disse con la voce strozzata prima di portarsi una mano al torace, sulla divisa imbrattata di sangue.

    «Reggiti» lo spronò lei sollevandogli un braccio per farselo girare intorno al collo.

    Chissà come doveva essere vivere senza dover per forza combattere una battaglia. Non lo sapeva, ma ciò che davvero non poteva immaginare era che quel salvataggio avvenuto in un pomeriggio di fine aprile avrebbe segnato l’inizio della sua battaglia più importante.

    Chissà come doveva essere.

    1

    Questioni di cuore

    Padova, 1940

    Quattro anni prima

    «Sei proprio senza cuore.»

    Le parole furono pronunciate lentamente, come a scandirle meglio.

    Agnese vuotò d’un fiato il bicchiere di limonata. Suo padre le aveva comunicato soltanto il giorno prima che il capitano Luigi Serra, prima di partire per una nuova missione, l’aveva chiesta in moglie e lei era stata così stordita dalla notizia da rimanere senza parole. Le parole, invece, il Colonnello le aveva pesate bene: «Ho sempre ammirato l’intraprendenza e il capitano Serra sembra esserne ben fornito. Gli ho dato il mio benestare, sempre che tu sia d’accordo, naturalmente» e che in realtà significava: «Vedi di essere d’accordo, signorina!».

    Ora che ci aveva dormito su non le sembrava più di essere turbata e si sentì libera di lanciare a Margherita uno sguardo di commiserazione. «Non si tratta di cuore» disse «la considero un’opportunità.»

    Prima di comunicarle la notizia, suo padre, il Colonnello della Regia Aeronautica Aldo Neri, si era preoccupato di informarsi meglio sul conto del Capitano e con una punta di orgoglio le aveva riferito che Luigi Serra era il rampollo ventottenne di una nobile famiglia pavese, che si era arruolato nel ’33 come allievo ufficiale e che in poco tempo aveva conseguito il brevetto di pilota. Soltanto un paio di mesi prima era stato promosso capitano. «Non è mica uno spiantato!» aveva aggiunto quando lei gli si era impietrita davanti.

    Tutto sembrava essersi sviluppato in fretta e Agnese non aveva nemmeno avuto il tempo di pensarci bene, anche se era sicura che nel momento in cui il Capitano si fosse dichiarato, le parole adatte le sarebbero venute in mente di colpo.

    «Che intendi dire?» la spronò Margherita.

    «Non sono fatta per l’amore, lo sai» rispose lei puntando lo sguardo verso il boschetto di agrifogli che in quel momento sembrava scintillare. L’acqua della fontana gorgogliava nella vasca di pietra e le cicale erano impegnate a regalare agli alberi gli ultimi stridori estivi. Nel proferire quelle parole, Agnese aveva riposto il carboncino nella scatola di latta e girato verso Margherita la tavoletta su cui aveva immortalato il suo ritratto.

    «Come ti sembra?» chiese.

    «Bellissimo» rispose lei emozionata.

    Agnese sorrise di quella piccola bugia. Le era sempre piaciuto disegnare, ma sapeva di non possedere particolari doti artistiche.

    «È carino da parte tua dire così» disse appoggiando la schiena sulla sedia per guardare verso il cielo. Ripensò alle parole di Margherita quando era stata invitata a casa Neri la prima volta. Aveva affermato che vivere in un posto del genere doveva essere una specie di sogno. Il portico che dava sul parco, poi, quello sì che era un vero angolo di paradiso. Quanto le sarebbe piaciuto far parte di quella vita piena, eccitante, senza pensieri! Ma più di ogni altra cosa avrebbe desiderato indossare uno degli abiti da sera di Agnese, una volta o l’altra, uno di quelli che aveva visto nell’armadio nella sua camera da letto.

    Povera Margherita! Non aveva la benché minima idea di quanto potessero essere soffocanti gli strati di sottoveste che si celavano dietro quei vestiti fruscianti. Merletti, nastrini, piume colorate: il regno del futile e del vano, un mondo fatto soltanto di apparenza. La verità era che non era affatto facile vivere la sua vita. Suo padre era un uomo inflessibile, che detestava gli imprevisti e che aveva vissuto la notizia della sparizione del figlio come il peggiore dei contrattempi. Sua madre, invece, ne era rimasta sconvolta, non aveva dormito per giorni rimanendo sdraiata al buio a cercare di capire come mai il marito, uomo influente e pieno di amicizie importanti, non fosse riuscito a impedire quella sciagura. A poco a poco era diventata nervosa, irritabile e aveva iniziato a soffrire di tremori e vertigini. La mattina in cui aveva dichiarato di sentire un peso sul cuore e di non riuscire ad alzarsi dal letto, il Colonnello si era finalmente deciso a interpellare il medico di famiglia.

    «Si tratta di una forma acuta di nevrosi» gli aveva assicurato l’uomo «niente che non si possa curare con l’assunzione di un po’ di laudano» e lui si era sentito sollevato dalla diagnosi e aveva deciso che a occuparsi della salute della moglie dovesse essere Agnese. All’inizio lei aveva accettato di buon grado, ma ora che il tempo per intravedere dei cambiamenti era passato, aveva cominciato a nutrire dei dubbi sulla possibilità di un miglioramento. Non sopportava più, ormai, di dover entrare in quella stanza buia con le tende sempre tirate e l’odore di chiuso, la faceva sentire intrappolata in una vita non sua.

    Abbassò le palpebre per un istante, odorò il profumo intenso delle dalie in fiore, pensò all’immensità del parco davanti a lei e diede un rapido sguardo ai sentieri bianchi che di lì a qualche giorno avrebbe percorso insieme al Capitano, come stabilito da suo padre. Pensò anche all’amore, a come sarebbe stato vivere senza, ma soprattutto a come sarebbe potuta cambiare la sua esistenza se qualcuno l’avesse finalmente liberata dall’orribile sensazione dei muri della stanza di sua madre che si richiudevano su di lei.

    Non aveva preso alla leggera le parole del Colonnello, anzi, erano state proprio quelle a convincerla: «Non devi preoccuparti per tua madre. Se accetti la proposta del capitano Serra, assumerò un’infermiera per prendersi cura di lei».

    Agnese puntò lo sguardo su Margherita che continuava estasiata ad ammirare il ritratto. La vide sollevare appena la testa e guardare un punto lontano del parco.

    «Un giorno potresti innamorarti davvero» disse poi senza nemmeno guardarla.

    «Non accadrà» rispose Agnese sicura. «Te l’ho detto, non sono fatta per l’amore.»

    «Abbiamo soltanto diciotto anni, che ne sappiamo dell’amore?»

    Margherita era davvero una persona gradevole, gentile, ma con una propensione al romanticismo a dir poco esagerata. Era quasi irritante il suo continuo parlare di innamoramenti, di matrimoni, di bambini. Agnese, invece, non aveva mai creduto fino in fondo alla faccenda dell’anima gemella, alla romantica storia delle due metà che combaciano o di cuori che si ritrovano dopo mille avversità. Nient’altro che sciocchezze! La vera impresa era decidere di stare insieme a qualcuno ogni giorno riuscendo a mettere i suoi difetti in secondo piano. E tutto sommato il capitano Serra le era sembrato un uomo con cui poterci provare anche se, a guardar bene, lui non aveva mai dimostrato un reale interessamento nei suoi confronti.

    Rammentava con irritazione il giorno in cui l’aveva visto per la prima volta, era stato al ricevimento di Capodanno a casa del podestà. Impettito nella sua divisa grigio azzurra, se ne se stava in disparte con lo sguardo assorto. Era un uomo alto e imponente, dall’aria distinta e lei era rimasta colpita da quell’atteggiamento schivo, riservato, ritrovandosi a considerare che esistevano persone che come lei non amavano le feste da ballo. Il naso dritto sotto alla fronte alta le aveva dato l’impressione di una certa solidità, ma erano stati gli occhi a colpirla, occhi dallo sguardo impertinente, quasi arrogante e dal colore tra il grigio e il pervinca. Lei gli aveva sorriso, ma lui non aveva ricambiato. Che uomini sgarbati esistevano! Tuttavia, era stata costretta a rivalutare il suo giudizio quando dopo solo un paio di giorni un amico in comune li aveva presentati ufficialmente e lei aveva scoperto che Luigi Serra era un uomo introverso, di poche parole, che di solito conduceva una vita sobria, lontana dalle mondanità. Come a scusarsi, lui l’aveva informata di non aver avuto modo di frequentare la gente negli ultimi tempi e di aver quindi perduto il tatto necessario per agevolare i rapporti sociali. Era tornato in Italia soltanto da qualche settimana dopo una lunga degenza all’ospedale di Saragozza per ferite riportate in seguito a un combattimento aereo finito male nei cieli spagnoli.

    «Siete un pilota, dunque» commentò Agnese tornando col pensiero a suo fratello Corrado che da quegli stessi cieli spagnoli, invece, era sparito nel nulla.

    Luigi aveva annuito dicendo che sarebbe ripartito a breve per Pavia. Era stato quello il momento in cui si era lasciato andare per confessare che questa volta partiva malvolentieri e che l’aveva rivista con piacere dopo il suo imperdonabile comportamento al ballo. Aveva anche aggiunto che avere qualcuno da salutare prima di una partenza era sempre confortante, soprattutto per un uomo che doveva partire in missione da un momento all’altro.

    Dopo quella prima, breve conversazione con Luigi, Agnese non aveva più pensato a lui. Soltanto ora, però, si rendeva conto di non essersi ancora liberata della sensazione di frustrazione che aveva sperimentato la sera del ballo. Era consapevole dell’effetto che di solito aveva sugli uomini, di sicuro sapeva come attirare la loro attenzione, ma con lui aveva fallito. Quando poi Luigi aveva cercato di recuperare, lei aveva intuito che non era rimasto immune al suo fascino, ma non aveva immaginato che potesse essere attratto al punto di chiederla in moglie. Tutto sommato, le era piaciuta quella sensazione di vittoria.

    Guardò Margherita e sollevò un sopracciglio. «Pensa ciò che vuoi» affermò secca prima di indietreggiare un po’. «Vado a cambiarmi d’abito.»

    *

    Margherita si sentì a disagio mentre percorreva a ritroso il cammino per uscire dalla villa. Piccola e sottile, con i capelli lisci e di un biondo slavato che aveva sempre detestato, si fermò a fissare l’immagine esile che il grande specchio dell’atrio le stava restituendo. Non le piaceva: era pallida e magra e gli occhi erano    troppo grandi nel visino smunto. Non pensava di essere brutta o sgraziata, ma ogni volta che trascorreva del tempo in compagnia di Agnese sentiva nascere un dubbio, una specie di inquietudine che la persuadeva a sospettare di non avvicinarsi nemmeno alla lontana alla bellezza prorompente dell’amica. Osservò l’abitino blu con la scollatura quadrata che metteva in evidenza il suo collo bianco e sottile. Si lisciò le pieghe della gonna percorrendo lentamente i fianchi asciutti e, facendolo, ricordò la prima volta che aveva visto Agnese al corso di disegno al circolo. Prima di porgerle la mano sporca di carboncino, lei se l’era pulita lungo il vestito grigio cupo e Margherita aveva cercato di immaginare come doveva essere toccare un corpo florido e sodo come il suo. Era stata una sensazione del tutto estranea, ma da quando l’aveva provata non aveva più smesso di ammirare quel corpo in tutta la sua perfezione.

    «Signorina, posso fare qualcosa per voi?»

    La domestica era apparsa alle sue spalle senza che se ne fosse accorta e lei provò un’ondata di eccitazione all’idea che la donna potesse aver visto i suoi pensieri riflessi nello specchio.

    «No, grazie. Stavo per uscire.»

    Afferrò in fretta il cappellino, s’infilò il soprabito e diede un’occhiata all’orologio rendendosi conto all’improvviso di essere in ritardo per il turno pomeridiano ai grandi magazzini. Non riusciva a crederci: quanto tempo aveva passato a rimirarsi nello specchio? Si incamminò a passo svelto per le vie della città. Conosceva ogni scorciatoia per sveltire il percorso, ma la pioggerellina che aveva cominciato a scendere la costrinse a proseguire per la via principale protetta dai portici, così da arrivare al lavoro asciutta e in ordine. Si sentì in apprensione, la caporeparto non le avrebbe perdonato un altro ritardo. Cercando di affrettarsi, scivolò su una pozzanghera, ma fu capace di mantenere l’equilibrio abbastanza a lungo da riuscire ad aggrapparsi a un uomo che giungeva in senso contrario.

    «Oh! Scusate tanto» esclamò prima di alzare lo sguardo.

    «Sei sempre stata un impiastro» l’apostrofò lui.

    Margherita si strinse nel soprabito. Il solo fatto di udire la sua voce la infastidiva: quell’uomo non le era mai andato a genio. Aveva sposato sua sorella Sara soltanto un anno prima e fin dal primo istante lui le aveva dato l’impressione di essere una gran canaglia. A dire il vero, Michele Benvenuti non si era neanche mai sforzato di nascondere certi sorrisetti malandrini o, peggio, le mazzette di soldi che teneva sempre nelle tasche della giacca e che non si capiva da dove saltassero fuori dal momento che era un semplice contabile ai grandi magazzini. Tuttavia, sua sorella sembrava non esserne impensierita e lei non aveva mai osato introdurre l’argomento.

    Lui si lisciò i baffetti scuri e la guardò. «Sara sta per partorire.»

    «Oddio! Non è troppo presto? Chi c’è con lei? E tu perché sei qui?»

    Si udì un tuono e la pioggia cominciò a scrosciare. Michele alzò lo sguardo al cielo e lei capì che ancora una volta aveva fatto una serie di domande a raffica sputandole fuori in un flusso continuo. Le succedeva spesso.

    «Immagino tu sappia come vanno certe cose. C’è la levatrice e pure un paio di vicine. Un uomo tra i piedi sarebbe solo un intralcio.» Aveva alzato la voce per dirlo, il rumore intenso della pioggia rendeva difficile la conversazione.

    «Corro» decise lei svelta, ma le venne subito in mente che prima sarebbe dovuta passare ai grandi magazzini per avvisare del contrattempo. Oppure avrebbe potuto telefonare dalla mescita sotto casa. Misericordia, di sicuro non poteva abbandonare Sara in una circostanza del genere! Da quando qualche anno prima i loro genitori erano morti di tubercolosi, i tre fratelli Tonel si erano presi cura l’uno dell’altro fino al giorno in cui Michele non era entrato a squilibrare le loro vite. Se all’inizio si era dimostrato un uomo garbato e premuroso, da qualche tempo le cose avevano preso una piega diversa, soprattutto dopo che suo fratello Francesco aveva risposto alla chiamata alle armi e se n’era andato.

    «Stai andando al lavoro?» Margherita ci aveva pensato un po’ prima di porgli quella domanda. Michele era un uomo facilmente irritabile, che non amava essere sorvegliato.

    «Più tardi» rispose lui lasciando vagare lo sguardo. «Ho da fare ora» aggiunse prima di aprire l’ombrello e sparire in una stradina laterale.

     Margherita riprese a camminare e ricordò qualcosa che Sara le aveva detto quasi per caso: «Michele potrebbe amare questo bambino» e nel dirlo si era toccata il ventre teso e gonfio. Rammentò lo smarrimento che aveva provato nell’udire quella frase che non era riuscita a decifrare. Aveva sempre avuto l’impressione di intravedere qualcosa di spaventoso in suo cognato e adesso si rendeva conto che era la stessa sensazione che aveva percepito negli occhi di Sara. Si fermò di colpo, quasi colta da un senso di vertigine e decise di tornare indietro per seguirlo. Come poteva trascurare la moglie in un momento così delicato? Svoltò nella stradina priva di portici che lui aveva imboccato poco prima. La pioggia scendeva ormai abbondante, le colpiva il volto e picchiettava sul cappello scivolandole sulle spalle. Nei rigagnoli lungo il marciapiede l’acqua era già alta fino alle caviglie. Proseguì svelta lungo la via mettendosi quasi a correre e gettando lo sguardo in ogni vicolo secondario che oltrepassava. Finalmente lo avvistò sotto il portico di una stradina laterale. Era lontano, ma riconobbe all’istante l’inconfondibile sagoma alta e robusta. Fece per chiamarlo quando scorse una donna andargli incontro a passo spedito. La vide gettargli le braccia al collo e sollevarsi in punta di piedi per baciarlo. Con disinvoltura, lui si disfò dell’ombrello appoggiandolo a un muretto, così da poter rispondere all’abbraccio con entrambe le mani. Mani che poggiò quasi fortuitamente sul fondoschiena di lei.

    Margherita rise di rabbia. Avrebbe riconosciuto tra un milione il caschetto nero e il cappellino piumato di quella donna.

    *

    Quando, cinque settimane prima, Anna aveva conosciuto Michele Benvenuti, aveva pensato che fosse accaduto qualcosa di straordinario. In vita sua non si era mai fidata dell’amore: induceva le persone a comportarsi in maniera strana, ne influenzava gli atteggiamenti e le persuadeva a compiere azioni che in condizioni normali non avrebbero mai pensato di intraprendere. Aveva conosciuto donne che si erano annullate per amore, che veneravano i loro uomini senza chiedere nulla in cambio. Le aveva viste alzare il capo orgogliose e offrirsi a loro senza riflettere. E poi le aveva viste abbassarlo, quel capo, senza potersi difendere. Come sua madre, che aveva sposato il suo patrigno in seconde nozze per donarle un padre e invece aveva trasformato la loro vita in un inferno di discussioni e di percosse. Era stato difficile crescere con un uomo che non dava valore all’intelligenza femminile, che anzi la denigrava. Nelle sue orecchie risuonavano ancora gli insulti che lui le aveva rivolto quando aveva espresso il desiderio di continuare a studiare.

    «Stupida oca» aveva strillato. «Cosa ti fa pensare che in questa casa una donna possa fare ciò che vuole?» 

    Morendo, il suo vero padre aveva fatto di sua madre una donna ricca e quell’uomo aveva messo le mani sull’eredità vantandosi un attimo dopo di essere «più furbo di una volpe», così aveva detto.

    Nel momento stesso in cui si era fatta il segno della croce prima di infilare la domanda d’iscrizione all’università di Padova nella buca delle lettere, Anna si era ripromessa che avrebbe trovato il modo di lasciare Ancona a ogni costo. Se non l’avessero ammessa a Padova, avrebbe provato a Firenze, oppure a Bologna, o in un qualsiasi altro posto purché lontano dalla famiglia. Il giorno in cui aveva ricevuto la conferma di iscrizione alla facoltà di Lettere e Filosofia, aveva impacchettato le sue cose, si era recata a piedi alla stazione e aveva comprato un biglietto di sola andata.

    L’inizio non era stato agevole e lei non aveva avuto scelta se non quella di lasciarsi invischiare in certi giri con loschi figuri, ma non ci voleva pensare, adesso. Ormai erano passati parecchi mesi da quando aveva cambiato vita e ora abitava in un appartamentino all’ultimo piano di un vecchio caseggiato, non lontano dall’università.

    I primi tempi aveva lavorato mezza giornata come dattilografa presso un piccolo studio notarile, ma sbarcare il lunario non era stato semplice, così aveva cominciato ad accettare qualche piccolo aiuto da parte del notaio che in cambio le aveva chiesto soltanto un po’ di compagnia, una chiacchierata davanti a un bicchiere di vino rosso o di spumante. Dapprima lui le aveva concesso dei permessi per frequentare un corso pomeridiano in facoltà, poi, complici un paio di palpatine al fondoschiena o al seno alto e prosperoso, il notaio si era allargato comperandole fusciacche di seta, borsette in pelle e orecchini di brillanti, tutti regali che le faceva trovare sulla scrivania, quasi per caso.

    Ah, come si fa in fretta ad abituarsi alle belle cose!, ricordava di aver pensato lì per lì, ma nell’arco di pochi giorni quella riflessione innocente si era trasformata in un’ossessione. Prima o poi lui le avrebbe chiesto di ricambiare adeguatamente la sua generosità e lei aveva cominciato a pensare che non valeva proprio la pena rinunciare alle piccole gioie quotidiane che lui le concedeva. Per di più, un paio di sorrisetti smaliziati e qualche insignificante moina per gratificarlo, come un bacetto o una toccatina qua e là per farlo sentire appagato, le avrebbero addirittura permesso di allungare il tiro e, magari, ottenere più di qualche regalino. Aveva indovinato: dopo pochi mesi lui l’aveva sistemata in un appartamento in centro e come segno di benvenuto nella nuova casa le aveva fatto trovare una stola di visone sul letto. Letto che lì per lì avevano inaugurato insieme. Gli uomini non erano poi così furbi come il suo patrigno voleva farle credere!

    La tresca era durata poco, fino al momento in cui la moglie del notaio l’aveva scoperta e Anna era stata licenziata in tronco. Per un po’ di tempo non aveva avuto vita facile, ma fortunatamente il notaio l’aveva presa a cuore e, oltre a presentarla alla prestigiosa cerchia di amici generosi come lui, le aveva anche trovato un impiego presso una piccola casa editrice di un amico. In fin dei conti era una studentessa alla facoltà di Lettere e Filosofia, correggere qualche bozza o battere a macchina un manoscritto era pane per i suoi denti.

    Anna Valeri non aveva mai disdegnato gli abitini di tendenza che si potevano comprare ai grandi magazzini, sebbene si trattasse soltanto di economiche imitazioni delle linee di alta moda nelle vetrine delle boutique, ma era ormai impossibile per lei riuscire a fare a meno delle premure che gli amici del notaio le riservavano di continuo: cappellini, borsette, gioielli, tutte cortesie che la sua avvenenza le procurava senza fatica e che un’adeguata alzata di gonna di quando in quando avrebbe continuato a garantirle a lungo.

    Eppure da qualche settimana le sembrava che qualcosa dentro di lei fosse cambiato. Si era imbattuta in Michele e l’inimmaginabile era capitato. Aveva conosciuto l’amore. Sentire il calore delle sue braccia che l’avvolgevano le faceva provare un turbinio di sensazioni mai sperimentate prima. Era tutto così romantico: i cuori che palpitavano, gli sguardi innamorati, la pioggia che tamburellava incessante sul pavé sprigionando un profumo pungente di terra, di vita che brulica, di desiderio.

    «Devo scappare.» Gli occhi neri di lui la fissarono con intensità.

    «Ci vediamo più tardi?» domandò lei alzando il volto per farsi baciare di nuovo. Quando lui la guardava in quel modo, con un’aria di ammirazione e di avidità insieme, lei si sentiva ardere. «Ti aspetto da me?»

    «Non posso» dichiarò lui dispiaciuto. «Ho una riunione di lavoro.»

    «Peccato» fece lei amareggiata, ma si ricompose subito. Anna aveva le sue regole, si era imposta da tempo di non lasciare mai troppo spazio alla delusione. C’era sempre un buon motivo per ritrovare il buonumore. «Guarda, ha smesso di piovere. Farò un tratto di strada insieme a te. Devo consegnare la revisione di alcune bozze in uno studio in piazza Spalato.»

    Si incamminarono a braccetto. Intorno, il paesaggio sembrava essere cambiato all’improvviso. La gente aveva chiuso gli ombrelli e qualche raggio di sole era riapparso facendo scintillare le vetrine dei negozi.

    Arrivò il momento di salutarsi e Michele premette le labbra sul dorso della sua mano. Anna si sorprese a sorridere e, nel guardarlo mentre si allontanava, fece scorrere la punta delle dita sulla mano che lui aveva appena sfiorato con le labbra. Non aveva mai incontrato un uomo così rispettoso, che non pensasse soltanto a portarla a letto. Quella sensazione di euforia la accompagnò fino all’ingresso dello studio legale. Si ridestò soltanto quando sentì la voce della segretaria.

    «Signorina Valeri, non vi aspettavamo così presto. Avete già terminato la revisione?»

    «Ebbene sì, ho cercato di farlo quanto prima. Ho lavorato duro nel fine settimana per riuscire a terminare. L’avvocato mi ha garantito che ne avrebbe tenuto conto.» C’era una sorta di frenesia nella sua risposta.

    «Immagino» rispose la segretaria sollevando un sopracciglio.

    Anna s’irrigidì. Appariscente e sofisticata, la signorina Emma De Carli sembrava una di quelle attricette americane al cinematografo, anche se i suoi modi erano formali e distaccati, privi di spontaneità, come se intendesse mettere una distanza tra le persone come lei e le altre. Per un istante rimase impietrita a guardarla, poi una voce maschile interruppe i suoi pensieri.

    «Signorina Valeri» la salutò l’uomo «avete le bozze corrette per mio padre? Ne sarà felice.»

    «Vittorio, vi prego» lo invitò lei «chiamatemi Anna.»

    Lui abbozzò un sorriso e appoggiò un plico di documenti sulla scrivania sistemandosi nervosamente la cravatta.

    «Signorina Emma» disse esitante «ci sarebbe da battere a macchina questi.»

    Anna osservò i suoi capelli chiari, gli occhi verde intenso e quell’espressione svanita nel volto. Sorrise. Chissà se l’algida signorina Emma se ne era accorta o se, come invece sospettava, non si curava di nessun altro, abbagliata dalla convinzione di essere al centro del mondo. La vide alzarsi dalla sedia e afferrare la busta che Anna aveva posato sulla scrivania.

    «Devo portare le bozze a vostro padre» disse svelta prima di scomparire dietro l’angolo.

    Anna si sentì sollevata. Per la prima volta in vita sua, le venne da pensare di essere una persona incredibilmente fortunata: non era da tutti saper riconoscere l’amore. Lei, invece, c’era riuscita.

    *

    Se Emma fosse stata un altro tipo di donna, avrebbe risposto con un risolino all’ennesima moina del figlio del capo, invece lo ignorò e gli passò davanti in fretta abbozzando con un cenno della testa la promessa di occuparsi quanto prima della commissione affidatale. Non era timida, né insensibile alla galanteria, tuttavia nel tempo aveva maturato una sorta di risolutezza a rispondere in maniera ruvida agli uomini che tentavano di adularla. Ci aveva provato anche suo padre tempo addietro, poco prima di rendersi conto che non sarebbe mai riuscito ad arruffianarsela con la gabbia dorata in cui l’aveva imprigionata ed era passato alle maniere forti. Ricordava ancora il

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