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Delos Science Fiction 230
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Delos Science Fiction 230

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Fantascienza - rivista (56 pagine) - Nel numero 230 di Delos Science Fiction uno speciale su Freaks Out, i supereroi emarginati di Gabriele Mainetti, e Foundation/Fondazione, Elena di Fazio e il Premio Urania


C'è un film italiano che sta passando di bocca in bocca in questo momento della stagione cinematografica e sta ricevendo l'attenzione di pubblico. La critica, in gran parte, ha già lodato la pellicola alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Stiamo parlando di Freaks Out, la seconda pellicola del giovane regista Gabriele Mainetti.

Se il nome del regista vi dice qualcosa, allora sappiate che è anche l'artefice di Lo chiamavano Jeeg Robot, sua pellicola d'esordio del 2015. A nostro avviso, Mainetti sta gettando le basi per un cinema di genere italiano, strada già aperta negli anni passati dai Manetti Bros, che tra le altre cose torneranno in sala a dicembre con la loro versione di Diabolik.

A Freak Out, che per molti versi ci sembra un film eccezionale, abbiamo dedicato lo speciale di questo numero 230 di Delos Science Fiction, con un'intervista a Mainetti e una recensione del film.

Altro momento caldo è quello che vive la storica collana mondadoriana che in questo momento propone in edicola il romanzo Resurrezione di Elena Di Fazio, premio Urania 2020. Ad Elena abbiamo chiesto nella nostra intervista come è nata quest'opera e a che punto è la sua carriera, dopo essersi aggiudicato vari premi, tra cui anche l'Odissea con il romanzo Ucronia.

Nella sezione rubriche, Donato Rotelli ci racconta Klara e il Sole, il nuovo romanzo di Kazuo Ishiguro, mentre Giuseppe Vatinno analizza il film Dark Skies – Oscure presenze. Infine, raccontiamo del nuovo romanzo uscito in America di Kristine Kathryn Rusch, autrice ben nota al pubblico italiano, grazie soprattutto alla Delos Digital che ha pubblicato molte storie.

Nella sezione servizi segnaliamo ancora una recensione, quella del romanzo La spirale dell'estate dello scrittore Enzo Verrengia, anche lui molto noto nel campo della fantascienza e un'interessante riflessione di Arturo Fabra su Foundation, la serie TV tratta dai romanzi di Isaac Asimov.

Il racconto che vi proponiamo in questo numero è stato finalista al premio Short Kipple ed è a firma di Sergio Mastrillo.

Buona lettura.


Rivista fondata da Silvio Sosio e diretta da Carmine Treanni.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 16, 2021
ISBN9788825418279
Delos Science Fiction 230

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    Delos Science Fiction 230 - Carmine Treanni

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    Il concetto di robot e la nascita della fabbrica fordista

    Articolo di Carmine Treanni

    La figura dell’androide occupa un posto rilevante nell’Immaginario Collettivo fantascientifico, pur essendo, forse, meno nota dei suoi omologhi, il robot e il cyborg. Anzi, spesso le tre parole vengono usate come sinonimi, ma in realtà hanno un significato diverso, che vale la pena ricordare brevemente.

    La parola robot è stata usata per la prima volta dallo scrittore e drammaturgo ceco Karel Čapek, nel romanzo RUR – Rossum’s Universal Robots (1920), dove appaiono uomini artificiali, utilizzati come forza lavoro a basso costo. Il termine denota, comunque, da quel momento in poi, un uomo meccanico, un essere dotato di un corpo interamente artificiale.

    Il cyborg (organismo cibernetico o uomo bionico), invece, indica una creatura che combina parti organiche e meccaniche. Una sorta di ibrido, dunque, fra il robot e l’essere umano.

    La parola androide, infine, deriva dal greco anèr, andròs, uomo, e che quindi può essere tradotto a forma d’uomo. La coniazione di questa parola si fa generalmente risalire al filosofo, teologo e scienziato S. Alberto Magno (1204-1282), che la utilizzò per definire esseri viventi creati dall’uomo per via alchemica, ma il primo ad utilizzarla in un romanzo fu, però, il francese Mathias Villiers de l’Isle-Adam (1838-1889) nella sua opera più celebre, Eva futura (L’Ève future, 1886), nel quale il protagonista è addirittura Thomas Edison.

    Le tre figure – il robot, il cyborg e l’androide – seppur apparse in tempi diversi nell’Immaginario collettivo, hanno, comunque, segnato il ‘900, grazie ai numerosi romanzi e ai film di cui sono stati protagonisti. Queste tre figure, dunque, ci sembrano le più adatte per descrivere i profondi mutamenti intervenuti nelle forme di organizzazione del lavoro, a partire dalla fabbrica taylorista. Il passaggio dal lavoro fordista a quello post fordista, fino all’emergere di un nuovo modo di concepire il lavoro che viene normalmente riassunto dalla parola flessibile o atipico ci sembra ben rappresentato proprio dalle figure del robot, del cyborg e dell’androide.

    Lo scrittore Isaac Asimov descrive la sua concezione di robot, a cui deve molta della sua notorietà come scrittore di fantascienza, tanto che è considerato il padre del moderno concetto di robot. Questa concezione trovò una sua perfetta sintesi nelle famose Tre Leggi sulla Robotica, formulate per la prima volta nel racconto Circolo vizioso (Runaround, 1942), ma la stessa parola Robotica fu coniata proprio in quell’occasione, designando così la scienza che studia i robot.

    Le tre Leggi sono: un robot non può recare danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno; un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini contrastino con la Prima Legge; un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non contrasti con la Prima e la Seconda Legge.

    A suggerire le Tre Leggi della Robotica sembra che sia stato il direttore della rivista Astounding Science-Fiction John Wood Campbell jr. Campbell, che a sua volta, spiegò che in realtà le leggi erano già presenti nei racconti di Asimov e il suo ruolo è stato solo quello di evidenziarle.

    L’idea di robot di Asimov è un concetto nato in piena era fordista, ossia di massima espansione del capitalismo che assunse nella fabbrica e nell’operaio i simboli più rappresentativi. Tuttavia è in realtà l’organizzazione del lavoro il vero strumento di manifestazione piena del capitalismo.

    La produzione industriale, esemplificata nell’Officina, si caratterizzava fino all’inizio del ‘900 per l’utilizzo di macchinari generici, in grado di realizzare pochi manufatti e di servirsi di un nutrito gruppo di operai specializzati nell’assemblaggio di componenti, perlopiù provenienti dalle botteghe artigiane. Ben presto, operai e macchinari vennero concentrati in fabbriche sempre più grandi, ma questo fatto da un lato evidenziava l’enorme potenziale delle fabbriche e della produzione che da lì a poco sarebbe diventata di massa, e dall’altro cominciava a porre problemi ingenti sul fronte dell’organizzazione.

    Dopo un’esperienza di supervisione, vissuta in alcune grandi imprese siderurgiche americane, Taylor arriva alla conclusione che il panorama lavorativo è limitato nelle sue potenzialità perché non esiste una sistematizzazione delle modalità e dei processi di produzione, dato che la loro la conoscenza è basata soprattutto sull’oralità.

    Taylor si propone di scomporre il comportamento umano per ricomporlo su dettami scientificamente elaborati ed imposti dall’esterno: si osserva attentamente ogni singolo movimento dell’operaio, lo si scompone, misura, razionalizza ed infine (coadiuvati da utensili appropriati) lo si ricompone, dopo aver fissato un tempo teorico di esecuzione.

    Il lavoro, secondo Taylor, diviene quindi una varabile misurabile e prevedibile. Tramonta la figura dell’operaio-artigiano e prende forma quella dell’operaio-massa: la sempre maggiore

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