Gemme e boccali
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Fantasy - romanzo breve (100 pagine) - Che si tratti di un genio o di un imbecille fortunato, nulla può fermare quella zucca d‘orco di Cletus Crane. Sarebbe più facile trattare con una mandria di bufali.
Cletus Crane è un orco mezzosangue dagli interessi schietti: alcol, donne e soldi. La sacca di gemme razziate ce l’ha già, deve solo arrivare intero alla città di Soira Madhera.
Anche quando sembra che i guai non lo inseguiano, Cletus ha un vero talento per ficcarsi nello sterco. Sulla sua strada da eroe balordo si susseguono banditi male in arnese, ninfe fugaci, mostri di fiume e fanatici del dio della morte.
Riempire un boccale di buona birra potrebbe essere più complicato del previsto, ma quando Cletus si mette in caccia è impossibile fermarlo.
Maurizio Ferrero è nato nel 1987 a Vercelli, dove si ostina a vivere nonostante l’afa e le zanzare assassine. È stato due volte vincitore del Trofeo RiLL – Riflessi di Luce Lunare: nel 2016, con il racconto Tutto Inizia da O e nel 2018, con Ana nel Campo dei Morti. Ha vinto anche il concorso letterario Oltre la Soglia (nella sezione Terramare) dell’associazione Veledicarta e il XI Trofeo Letterario La Centuria e la Zona Morta. I suoi racconti Salam d'la duja e altre specialità locali e Fino all'ultimo Cristo appeso sono stati pubblicati rispettivamente nelle antologie Penisolatomica e Pandemonium – Neo Decameron, entrambe edite da Lethal Books. Nel 2019 ha esordito con il suo primo romanzo, il grimdark fantasy Ballata di Fango e Ossa pubblicato da Moscabianca Edizioni, con cui ha collaborato scrivendo anche il racconto Scie nella neve per l'antologia Hortus Mirabilis – Storie di piante immaginarie. È stato campione dell'Ottava Era di Minuti Contati, il contest di scrittura più veloce del web. Appassionato di B-movie e giochi di ruolo, ha avuto pubblicazioni anche in ambito ludico. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in Spagna e Sudafrica.
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Book preview
Gemme e boccali - Maurizio Ferrero
Prefazione
Io sono Cletus Crane
Doveva essere l'anno 2007 o giù di lì quando, da monolitico lettore di fantastico, ho iniziato a interessarmi anche ad altri generi.
Ad attirare la mia attenzione era stato un libriccino sottile sottile, se paragonato alle saghe da settecentoventi romanzi che ero abituato a leggere. Parlava di una tentata rapina, di una fuga tra le paludi e di un circo dei freak.
Era Freddo nell'anima, di Joe R. Lansdale, e per lo scrittore texano è stato amore a prima vista.
Da lì è partita una sfrenata ricerca che mi ha spinto a interessarmi anche ai generi noir e pulp. Non erano tanto le atmosfere ad affascinarmi, quanto le situazioni che in un modo o nell'altro si focalizzavano sempre su personaggi al limite, di ceto basso, caratterizzati più dai loro difetti che dai loro pregi. Non c'erano storie che raccontavano di un eroe intento a salvare il mondo, ma di poveracci che volevano solo sbancare il lunario ed evitare di farsi ammazzare da qualche brutto ceffo dopo averlo insultato in maniera sagace.
Il mio cuore però non ha mai smesso di essere affascinato dalla magia e dalle creature mostruose, dalle streghe e dagli eroi predestinati.
Per arrivare alla fusione di queste due passioni, alla nascita di Cletus Crane, avrei dovuto attendere fino al 2013, anno in cui ho scritto Uomini e ninfe, la prima avventura del mezzorco dalla lingua lunga.
A conti fatti non credo di aver inventato qualcosa di nuovo. Nella letteratura fantastica gli eroi popolari sono sempre esistiti, Fafhrd e il Gray Mouser hanno fatto scuola. Però Cletus aveva qualcosa di diverso, qualcosa che lo rendeva parecchio sword & sorcery, un pizzico dark fantasy, molto hard boiled, ma soprattuto un personaggio dannatamente divertente da scrivere.
Qualche tempo dopo è saltato fuori il secondo racconto, Acque cattive, e un terzo, La testa più dura, che fa da prequel ai primi due (e potete trovare in coda a questa raccolta – credo che sia un racconto che si apprezza solo quando si ha imparato a conoscere Cletus).
Avrei dovuto attendere fino al 2020 per trovare un degno finale all'avventura di Cletus, La notte dei demoni rossi. Se notate una differenza di stile tra i primi racconti e quest'ultimo, beh, sono passati sette anni.
Quindi, alla fine di tutto, chi è Cletus Crane?
Cletus è un eroe, o almeno è uno che se lo è ripetuto talmente tante volte da crederci davvero. È un po' del Trinità di Terence Hill e un po' un personaggio da gioco di ruolo. È uno che picchia come un toro e che beve come un cammello. Ha un pizzico del Pantera di Evangelisti, parecchio degli Hap e Leonard di Lansdale e tanto, ma davvero tanto, di Nick Belane, l'investigatore più dritto di L.A.
È uno che ne sbaglia novantanove, ma la centesima la azzecca.
Io sono Cletus Crane.
E magari, alla fine di questo libro, lo sarete un po' anche voi.
Uomini e Ninfe
Pioveva da così tanto tempo che Cletus si sentiva pure il buco del culo bagnato. I pesanti stivali da viaggio con le suole rinforzate da chiodature di metallo erano coperti da uno spesso strato di fanghiglia argillosa, che una volta messa all’asciutto si sarebbe seccata facendoli diventare simili a scarpe di pietra da ultimo tuffo in mare. L’eventualità che i vestiti si asciugassero, però, era remota, perché il diluvio scrosciante non accennava alcuna volontà di volersi ritirare.
Cletus Crane si strinse nel mantello cerato e proseguì con passo risoluto lungo la strada. Pochi chilometri prima, uno sbiadito cartello di legno inchiodato a un albero indicava che un villaggio chiamato KOLEROCCCIA doveva essere nei paraggi, e lui non vedeva l’ora di buttarsi davanti a un focolare con un piatto di minestra calda e una pinta di distillato di segale per mandare giù il tutto.
Cletus era un uomo dai gusti semplici, così la sola immagine del pasto caldo gli diede lo stimolo per accelerare.
Scivolò nel fango, ma riuscì a mantenere l'equilibrio. Aveva rischiato di fare la fine della sua mula, che si era rotta una gamba solo tre giorni prima. Aveva dovuto spaccarle la testa con un sasso e la cosa non gli era piaciuta, ma Cletus sapeva come affrontare al meglio le disgrazie, così si era fatto una buona scorta di carne fresca che con un po’ di fortuna avrebbe potuto barattare con delle provviste ad alta conservazione, più adatte per al viaggio che stava affrontando.
Nel grigiore di quella giornata, qualcosa cominciò a delinearsi all’orizzonte: profili di piccole abitazioni di legno e mattoni, colonne di fumo emesse dai fuochi accesi, unite al sanissimo odore di porcile tipico dei villaggi.
L’avventuriero non si aspettava una grande accoglienza, ma nemmeno immaginava che strade fossero del tutto deserte: c’era un silenzio innaturale nell’aria, rotto solamente dallo scrosciare della pioggia e dal pianto di una donna in lontananza.
Colleroccia – Cletus ci aveva riflettuto lungo la strada, ed era arrivato alla conclusione che il nome doveva essere quello – non era altro che un’accozzaglia di venti abitazioni edificate su una collina rocciosa che sorgeva a ridosso di un fiume talmente ingrossato che le case più in basso lungo il declivio avevano il piano terra sommerso. Tutt’intorno, era circondato da cave per la raccolta dell’argilla e boschi di latifoglie. Non aveva nemmeno una palizzata di legno a difesa, segno che quel luogo era talmente ininfluente e meschino che nemmeno i mostri che infestavano la zona erano interessati a saccheggiarlo.
Cletus aveva avuto un singolo scontro durante i dieci giorni di viaggio che lo separavano dall’ultima città che aveva visitato: due goblin dai denti marci erano sgusciati vicino a lui mentre dormiva per rubargli le provviste, ma avevano fatto un tal baccano che l’avventuriero si era svegliato. La disputa si era conclusa con uno dei goblin con il cranio sfondato contro il tronco di un albero e l’altro intenzionato a battere il record di scatto con due quadrelli di balestra saldamente conficcati nelle chiappe.
Un edificio più grande degli altri aveva una lanterna accesa infissa sopra la porta scrostata e un’insegna di legno con disegnati una forchetta e un letto stilizzato.
Dall’esterno, la locanda faceva schifo. Aveva decisamente bisogno di una riverniciata e tra le tegole del tetto c’erano buchi grossi quanto il fodero delle puttane di Pathia, ma date le circostanze non era il caso di fare gli schizzinosi.
L’uomo spalancò la porta, accolto da un allegro vociare, ma non appena gli avventori si accorsero della sua presenza calò il silenzio. Oltre l’oste, un ciccione dal ventre flaccido e dalle guance rubizze, c’erano due vecchi ubriaconi con le gambe sporche di argilla fino al ginocchio, intenti a tracannare quello che sembrava vino allungato col piscio, una ragazza sulla quindicina, con i capelli castani, le sottane alzate e i piccoli seni allo scoperto, e un uomo sui trenta, con stinti abiti di pelle di daino e una benda sull’occhio. Quest’ultimo si stava dando un gran daffare per palpeggiarla.
Tutti lo stavano fissando, l’orbo in particolare aveva un sogghigno stampato sul volto. Cletus si avvicinò al focolare scoppiettante, ci buttò davanti le bisacce, si slacciò il mantello e lo mise ad asciugare sopra un filo da bucato appeso lì vicino. Si tolse anche la giubba di cuoio rinforzata con rivetti d’acciaio e gli stivali e allungò i piedi fradici verso il fuoco.
Anche se non li stava fissando, i mugolii della ragazza gli fecero intuire che l’orbo aveva cominciato ad armeggiare con le sue virtù.
– Ti serve qualcosa, straniero? – Il primo a parlare fu l’oste. La sua voce era gracchiante come quella di una cornacchia.
– Pane, zuppa e alcol, e anche in fretta.
– Hai la moneta?
Per tutta risposta, Cletus mise una mano alla bisaccia e gli mostrò dell’argento. L’orbo alzò lo sguardo nella sua direzione, mentre i due ubriaconi ritornarono a dedicarsi alla loro sbornia.
L’oste si diresse fiacco alla cucina. Quando tornò, pochi minuti dopo, Cletus aveva riacquistato un po’ di calore corporeo. Per tutto quel tempo l’orbo non aveva smesso di fissarlo, continuando però a lavorare con le mani tra i seni e sotto la gonna della ragazza.
– Ecco. – L'oste poggiò un piatto di zuppa di fagioli sul bancone, accompagnato da una forma di pane e una pinta di distillato.
Cletus sedette e mangiò avidamente. Dopo meno di due minuti, aveva divorato sia il pane che il piatto di zuppa. L’oste rimase a guardarlo per tutta la durata del pasto. Mollò un sonoro rutto.
– Allora, che porta uno straniero in questo buco umido?
– La fame. E la necessità di trovare un mezzo.
– Un mezzo, dici?
– Sì, dei villici a nord di qui mi hanno detto che avrei trovato un villaggio con un porticciolo, dove ogni tanto fa scalo un battello diretto a Soira Madhera.
– Sei nel posto giusto, ma nel momento sbagliato. Non parte nessun battello, almeno finché non smetterà di piovere e il vecchio Sputo di Edmund non si sarà tranquillizzato un po’. – L'oste si grattò le chiappe. – Soira Madhera hai detto? Che ci va a fare uno come te nella Città dei Cento Dei?
– Ho alcuni affari da sbrigare – rispose Cletus. Non poteva dirgli che durante la sua ultima avventura aveva razziato una certa quantità di gioielli da una tomba nanica, che sperava di poter rivendere ai ricettatori della città.
Era stata una bella storia con un lieto fine. Lui e altri tre tizi si erano infilati nella tomba, Cletus era l’unico che ne era uscito vivo e con qualcosa in tasca. Guadagno completo, gli altri erano finiti spalmati sulle lastre di pietra del pavimento. I nani sapevano fabbricare delle belle trappole robuste, che reggevano anche dopo