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Quel che resta
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Quel che resta

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Fantascienza - racconto lungo (40 pagine) - Dove andrai quando non ci sarà più nulla? Che senso avrà andare avanti?


In un futuro non lontano un uomo vaga assorto nei suoi pensieri sullo sfondo di una città fantasma, in uno scenario devastato da cataclismi naturali, alla ricerca di un ultimo brandello del mondo che conosceva.

Solo e tormentato dai rimorsi del suo passato viaggia fra scheletri di palazzi abbandonati e nuvole di polvere, armato di un solido cinismo che gli fa da scudo contro gli orrori del presente. È preparato a tutto, tranne all’incontro che cambierà il corso del suo viaggio e lo costringerà a fare i conti con tutto ciò che il mondo ha perduto per sempre.


Leonardo Ligustri è nato a Genova nel 1985. Cresciuto a La Spezia, ha trascorso buona parte della sua vita fra Liguria e Toscana, perennemente in bilico fra le due regioni. Dopo il liceo ha studiato cinema a Pisa; appassionatosi di fotografia e arte ha pubblicato alcuni cataloghi di mostre (Edizione ETS). Dopo la laurea trasferitosi a Firenze ha frequentato l'Accademia Nemo, diplomandosi nel corso di illustrazione. Negli anni che seguono ha collaborato come freelance a diversi progetti fra Torino e Milano, spaziando tra stili e tecniche diverse. Quando non disegna e scrive è facile trovarlo nel suo orto o vederlo correre fra i boschi e le montagne dietro casa.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 16, 2021
ISBN9788825417357
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    Quel che resta - Leonardo Ligustri

    Per Daniela, che mi ha insegnato a camminare.

    Per Greta, che continua a insegnarmelo ogni giorno.

    Prologo

    Era arrivata così, in silenzio, come un bambino che in piena notte sgattaioli in camera dei genitori.

    Era arrivata strisciando nei nostri letti, mentre fuori dalla finestra ali di cenere oscuravano il cielo, corrodendo le fondamenta delle nostre certezze.

    Era arrivata così.

    E, prima che ce ne rendessimo conto, era già troppo tardi.

    I. Autunno

    Ho sempre odiato la polvere. È sottile, subdola e sembra arrivare dal nulla. Si infila ovunque, per quanto cerchi di mandarla via trova sempre il modo di tornare da te, come i brutti vizi.

    Me la strofino via dal viso con la manica della giacca, sbatto le palpebre per riuscire a scollare gli occhi. Il vicolo è freddo e i muri del palazzo sono chiazzati di muschio verdastro. Scavalco un paio di pozze fangose e mi guardo intorno. Prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra. Mi sembra di essere tornato bambino, quando mia madre mi insegnava come ci si deve comportare in strada. Devi sempre guardare prima di attraversare, le strade sono pericolose. Già, hai proprio ragione mamma. Le strade sono pericolose. Non puoi immaginare quanto.

    Raggiungo il marciapiede dall’altro lato. Lancio un’ultima occhiata al vicolo alle mie spalle e striscio contro il muro cercando di rimanere attaccato agli edifici. Non credo di essere mai stato in questa zona. Era il quartiere dei ricchi, anzi, dei quasi ricchi. Qui vivevano i membri di quella classe ibrida che è la borghesia medio-alta: troppo agiata per essere considerata semplice borghesia, ma troppo povera per far parte della classe alta. Questo era il quartiere delle villette con giardino, dei vialetti di ghiaia con le macchine parcheggiate in file ordinate, e dei palazzotti antichi, che sembravano osservarti con fare altezzoso. Qui è dove lei sognava di venire a vivere.

    La strada è sgombra, se non fosse per qualche cassonetto rovesciato si potrebbe pensare che la vita continui a scorrere come se una bolla avesse inglobato il quartiere e lo avesse protetto. Come se i suoi abitanti si fossero rifiutati di essere partecipi del generale sfacelo, troppo snob per curarsi del resto del mondo.

    Gli occhi si ingannano facilmente, ma l’olfatto non lo freghi. Sotto la sua patina di perfezione e compostezza, anche questo quartiere nasconde il suo macabro segreto. Il tanfo acre della polvere, misto a quello di muffa. Un fetore di abbandono e di morte. Lo stesso che impregna tutto il mondo.

    Cammino lungo il marciapiede, restando il più possibile vicino al muro, le strade sono pericolose. Mi fermo a ogni ingresso, accucciandomi ai piedi delle colonnine per sbirciare dai cancelletti. Ovunque trovo porte chiuse, finestre sprangate e catene, come se gli abitanti avessero provato a tenere fuori il mondo fino all’ultimo. Sorrido, immaginandoli tutti indaffarati a sigillare le loro belle case, pensando, forse, di poterci rimettere piede un giorno.

    Uno schiocco improvviso. Mi rannicchio contro il muro, cercando con lo sguardo la fonte del rumore. Nel giardino della villetta un cespuglio dondola appena.

    Un secondo colpo, più vicino. Un ramo spezzato a sinistra.

    Qualcosa che si avvicina. Un grugnito sommesso mi gela il sangue, volto la testa di scatto e vedo l’animale che sbuca dalla siepe e atterra sul marciapiede a pochi passi da me, il muso sporco di sangue, gli occhi gialli che mi fissano.

    – Bucky! Mi hai fatto prendere un colpo, stupido cane. – Rilascio l’aria nei polmoni con un sospiro pesante. – Hai trovato un altro coniglio? Mai che me ne lasciassi un pezzo, eh?

    Mi corre incontro scodinzolando, le orecchie basse e lo sguardo stupito. Prima che abbia il tempo di alzarmi riesce a somministrarmi un paio di consistenti leccate. La sua bava odora di sangue, di cose vive.

    – Ok, ok, sono felice anch’io di vederti, ma non fare casino. Silenzio, Bucky, silenzio.

    Mi guarda per qualche istante, poi mi gira intorno pronto a seguirmi. Mi torna

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