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Mito, simbolo, culto
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Mito, simbolo, culto

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Questo primo tomo del vol. IX dell'Opera Omnia di Raimon Panikkar è articolato in tre sezioni, che trattano del mito, del simbolo e del culto. Col termine mito oggi spesso s’intende qualcosa di irreale o semplicemente una leggenda più o meno fantastica. Con la parola mythos, invece, io intendo quello che tradizionalmente significava, vale a dire un modo diverso che gli uomini hanno di esprimere una convinzione, o piuttosto una verità che non è necessariamente «chiara e distinta» alla ragione e che, ciò nonostante, si accetta come ovvia e quindi non ha bisogno di essere dimostrata. La prima sezione comincia con una descrizione della relazione tra mythos e tolleranza e del rapporto tra lo stesso mito e il problema della morale. Seguono tre studi di tipo generale sul senso del mythos e la sua relazione con la parola e quindi anche con la teologia, come sarà illustrato dai quattro mythoi indiani (i miti di Prajapati, Vunahsépa, Yama e il mito dell’incesto), che riguardano la creazione, la colpa, la redenzione, l’uomo e la condizione umana, il recupero dell’innocenza e la sessualità. Il messaggio di questi mythoi non può essere trasmesso con una riflessione esclusivamente razionale, ma con metafore e simboli, avvalendosi della parola come tramite del logos.
L’uomo non è dunque riducibile all’individuo e nemmeno a un semplice concetto e il mezzo più potente che ha per avvicinarsi alla realtà e ai suoi simili è il simbolo.
Nella seconda sezione, dopo alcune riflessioni generali su che cosa sia il simbolo, portiamo ad esempio una parola fondamentale in Oriente, spesso fraintesa: karman, parola che, ridotta a concetto, risulta vulnerabile alla ragione. Se il simbolo del karman è prevalente nella metà delle culture, la metafora della goccia d’acqua, come simbolo della condizione di ogni esistenza, inclusa quella umana, è pressoché universale.
La terza sezione è costituita da un testo, la cui scrittura risale al 1973, incentrato sul culto non in quanto cerimonia, ma in quanto espressione dell’homo religiosus, non come funzione, ma come attività che l’uomo compie in comunione con il cosmo per il sostentamento dell’universo. La secolarità, cioè l’interesse per ciò che è secolare, è stata troppo spesso considerata in molte tradizioni ostacolo alla vita spirituale. Il pro-fano (davanti al fanum, luogo sacro) è in opposizione al sacro, ma non al secolare, che può essere vissuto nella sua sacralità.
LanguageItaliano
PublisherJaca Book
Release dateMar 22, 2021
ISBN9788816800489
Mito, simbolo, culto
Author

Raimon Panikkar

Raimon Panikkar (1918-2010), è un autore universalmente conosciuto, le cui opere sono tradotte in una decina di lingue. Partecipe di una pluralità di tradizioni (indiana ed europea, indù e cristiana, scientifica e umanistica) ha insegnato in Europa, in India e negli Stati Uniti. Nei primi anni Duemila, insieme con Jaca Book, ha iniziato a organizzare la sua Opera Omnia (curata da Milena Carrara Pavan), che oggi esce in edizione italiana, catalana, francese, inglese e spagnola.

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    Mito, simbolo, culto - Raimon Panikkar

    Raimon Panikkar

    OPERA OMNIA

    a cura dell’Autore e di Milena Carrara Pavan

    * volumi pubblicati

    I

    MISTICA E SPIRITUALITÀ

    Tomo 1. Mistica, pienezza di Vita*; Tomo 2. Spiritualità, il cammino della Vita*

    II

    RELIGIONE E RELIGIONI*

    III

    CRISTIANESIMO

    Tomo 1. La tradizione cristiana (1961-1977)*; Tomo 2. Una cristofania (1987-2002)*

    IV

    INDUISMO

    Tomo 1. L’esperienza vedica. Mantramañjarī; Tomo 2. Il dharma dell’India*

    V

    BUDDHISMO

    VI

    CULTURE E RELIGIONI IN DIALOGO

    Tomo 1. Pluralismo e interculturalità*; Tomo 2. Dialogo interculturale e interreligioso*

    VII

    INDUISMO E CRISTIANESIMO*

    VIII

    VISIONE TRINITARIA E COSMOTEANDRICA:

    DIO-UOMO-COSMO*

    IX

    MISTERO ED ERMENEUTICA

    Tomo 1. Mito, simbolo, culto*; Tomo 2. Fede, ermeneutica, parola*

    X

    FILOSOFIA E TEOLOGIA

    Tomo 1. Il ritmo dell’Essere. Le Gifford Lectures*; Tomo 2. Pensiero filosofico e teologico*

    XI

    SECOLARITÀ

    Tomo 1. Secolarità sacra*; Tomo 2. L’utopia concreta

    XII

    SPAZIO, TEMPO E SCIENZA

    Raimon Panikkar

    OPERA OMNIA

    a cura dell’Autore e di Milena Carrara Pavan

    Volume IX/1

    EDITORIALE DELL’AUTORE

    Tutti gli scritti che ho l’onore e la responsabilità di presentare non nascono da una semplice speculazione, ma sono piuttosto autobiografici, ispirati cioè da una vita e da una praxis e solo successivamente plasmati in scrittura.

    Questa Opera Omnia copre un lasso di circa settant’anni in cui mi sono dedicato ad approfondire il senso di una vita umana più giusta e piena. Non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e per aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono soltanto dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte superiore che si può forse chiamare Spirito – anche se non pretendo che i miei scritti siano «ispirati». Non credo però che siamo monadi isolate, ma che ognuno di noi sia un microcosmo che rispecchia e influisce sul macrocosmo di tutta la realtà – come hanno creduto la maggioranza delle culture parlando del Corpo di Śiva, della comunione dei santi, del Corpo mistico, del karman e così via.

    La decisione di pubblicare la raccolta di questi scritti è stata piuttosto sofferta e ho dovuto superare più di una volta la «tentazione» di rinunciarvi perché, se da un lato sono convinto di ciò che dicevano i latini («scripta manent»), dall’altro credo che ciò che veramente conta in ultima istanza sia vivere la Vita, tant’è che i grandi maestri, come commenta Tommaso d’Aquino nella Summa, citando Pitagora e Socrate (tralasciando Buddha perché non lo conosceva), non hanno scritto niente.

    Nel mezzo del tramonto di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita, perché avevo perso tutte le certezze.

    È stato senz’altro merito di Sante Bagnoli e della sua casa editrice Jaca Book l’iniziativa di pubblicare questa Opera Omnia e gli sono molto grato.

    Quest’opera comprende praticamente tutti i libri, anche se alcuni capitoli sono stati inseriti in volumi diversi a seconda dell’argomento. Sono stati inoltre aggiunti numerosi articoli a completamento del mio pensiero, mentre sono stati tralasciati articoli occasionali e quasi tutte le interviste.

    Vorrei fare alcune considerazioni valide per tutti i volumi:

    a) per quanto attiene alle citazioni, si è preferito rifarsi alle opere precedentemente pubblicate seguendo lo schema generale delle mie pubblicazioni;

    b) la scelta non ha tenuto conto dell’ordine cronologico ma dell’argomento e lo stile può quindi risultare a volte diverso;

    c) anche se ogni pubblicazione aspira a essere un tutto a sé stante, e pertanto alcuni pensieri ricorrono più volte perché funzionali alla comprensione del testo, si è deciso di eliminare ripetizioni non ritenute necessarie;

    d) il fatto che l’editore preferisca che l’Opera Omnia sia organizzata dallo stesso autore ancora in vita ha evidentemente molti aspetti positivi. Se l’autore però continua a essere vivo non potrà resistere alla tentazione di «introdurre» modifiche, correzioni o semplicemente aggiunte ai suoi scritti originali.

    Ringrazio i vari traduttori che hanno tradotto dalle diverse lingue in cui mi è capitato di scrivere nello spirito di quella multiculturalità che ritengo sempre più importante in un mondo dove le culture si incontrano arricchendosi l’un l’altra, a patto di non perdere la loro specificità.

    La mia riconoscenza particolare va a Milena Carrara Pavan, a cui ho affidato la cura della pubblicazione di tutti i miei scritti, che conosce profondamente essendomi stata accanto in questo ultimo periodo della mia vita con dedizione e sensibilità.

    R.P.

    Il presente volume esce con il contributo di

    Fundació Vivarium Raimon Panikkar, Tavertet

    Raimon Panikkar

    MITO, SIMBOLO CULTO

    Mistero ed ermeneutica

    Tomo 1

    © 2008

    Raimon Panikkar

    © 2008

    Editoriale Jaca Book SpA, Milano

    per l’edizione italiana

    Prima edizione italiana

    novembre 2008

    © 2021

    Editoriale Jaca Book Srl, Milano

    Seconda edizione

    febbraio 2021

    Redazione Jaca Book

    Impaginazione Elisabetta Gioanola

    eISBN 978-88-16-80048-9

    Editoriale Jaca Book

    via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520

    libreria@jacabook.it; www.jacabook.it

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    INDICE

    Nel presente Indice, come nella capitolatura all’interno del volume, gli asterischi indicano gli scritti originali dell’autore, la cui fonte è esplicitata in nota ai singoli testi e nell’apposito Indice dei testi originali dell’autore (pp. 437-438)

    Abbreviazioni

    Introduzione

    Sezione prima

    MITO

    PARTE PRIMA

    MYTHOS

    Capitolo primo

    TOLLERANZA, IDEOLOGIA E MITO*

    1. La legge della tolleranza

    2. Chiarimento terminologico

    3. I quattro momenti della tolleranza

    a) Aspetto politico

    b) Aspetto teologico

    c) Aspetto filosofico

    d) Aspetto mistico

    4. Tra ideologia e mito: la tolleranza

    a) I limiti della tolleranza

    b) Ideologia e tolleranza

    c) Tolleranza e mito

    d) Mito e ideologia

    Capitolo secondo

    MORALITÀ E MITO.

    LA «MORALE» DEL MITO E IL MITO DELLA MORALE*

    1. La moralità

    a) La «morale» del mito

    b) La demitizzazione del mito

    2. Il mito

    a) Il mito della morale

    b) La demitizzazione della morale

    c) Rimitizzare la morale

    Capitolo terzo

    IL SENSO DEL MITO*

    1. Lo studio dei miti

    a) Il mito

    b) La mitologia

    2. L’interpretazione dei miti

    a) Traduzione

    b) Senso e significato

    c) Ermeneutica

    3. I miti del mondo asiatico

    a) Interculturalità

    b) La conoscenza simbolica

    4. L’aporia logomitica

    Capitolo quarto

    MYTHOS E LOGOS.

    VISIONE MITOLOGICA E VISIONE RAZIONALE DEL MONDO*

    1. Nove tesi

    2. Nove sūtra su mythos e logos

    1) Non ci può essere alcuna fenomenologia del mito

    2) Esiste tuttavia la mitofania

    3) Crediamo così tanto al nostro mito da non sapere neppure di credervi

    4) Il mito non appartiene all’abito della riflessione

    5) L’accesso al mito è la fede

    6) Il mito non è oggetto del pensare logico

    7) Il mito scaturisce nella sua propria temporalità

    8) Il mito ha una particolare trasparenza

    9) Il puro mito in quanto tale resta sempre improferito e impensato

    3. La parabola di Eddington e Dürr

    Capitolo quinto

    UN BUON TEOLOGO DEVE AMARE I MITI*

    PARTE SECONDA

    MYTHOI

    Capitolo primo

    IL MITO DI PRAJĀPATI. LA COLPA ORIGINANTE OVVERO L’IMMOLAZIONE CREATRICE*

    1. Il problema

    a) Il fatto universale del dolore

    b) La consapevolezza del dolore come pena

    c) La risposta cristiana: il peccato originale

    2. Il mito di Prajāpati

    a) Solitudine

    b) Sacrificio

    c) Integrazione

    3. L’ermeneutica

    a) La colpa originante

    b) L’immolazione creatrice

    c) La redenzione ontica

    Capitolo secondo

    ŚUNAḤŚEPA.

    UN MITO SULLA CONDIZIONE UMANA*

    1. Mito e storia

    a) Fatti mitici e fatti storici

    b) Il pluralismo delle ideologie e dei miti

    c) La sfida alla filosofia e alla teologia

    La sfida alla filosofia

    La sfida alla teologia

    2. La storia sacra di Śunaḥśepa

    a) Il racconto (il legein del mito)

    b) Il contesto (il mito del legein)

    Il sacrificio (il passato)

    La consacrazione regale (il presente)

    La sacralità del tema (il futuro)

    c) I commenti (il logos del mito)

    Gli elementi della storia sacra

    Il sacrificio umano

    3. Il mito della condizione umana

    a) I personaggi

    Gli uomini

    A. Śunaḥśepa

    B. Rohita

    C. Hariścandra

    D. Ajīgarta

    E. Viśvāmitra

    F. Vasiṣṭa

    G. La gente

    Gli Dei

    A. Varuṇa

    B. Indra

    C. Il pantheon vedico

    Il cosmo

    b) I mitemi

    I mitemi presenti

    A. La presenza della morte

    B. La solidarietà della vita

    C. Il desiderio della trascendenza

    I mitemi assenti

    A. La sessualità

    B. La prospettiva politica

    C. L’escatologia

    c) Il decondizionamento dell’uomo

    Capitolo terzo

    YAMA: MITO DELL’UOMO PRIMORDIALE*

    1. I gemelli degli Dei e dell’uomo: Yama-Yamī

    2. Il precursore

    Capitolo quarto

    IL MITO DELL’INCESTO COME SIMBOLO DI REDENZIONE NELL’INDIA VEDICA*

    Introduzione

    1. Il problema

    2. I testi

    3. Interpretazione

    Sezione seconda

    SIMBOLO

    Capitolo primo

    SIMBOLO E SIMBOLIZZAZIONE*

    1. L’inerzia della mente

    2. Pensare ed essere

    3. Essere e parlare

    4. Essere, parlare e pensare

    5. L’ambito del simbolo: la pura relazione

    6. La differenza simbolica

    7. La funzione del simbolo

    8. Il simbolo è il simbolizzato nel simbolizzante

    9. Alcuni princìpi

    10. Gradi epistemici

    11. La comunicazione simbolica

    12. Il simbolo non è oggetto di pensiero

    13. La coscienza simbolica

    14. L’esperienza simbolica

    15. Il ruolo della riflessione

    16. La relatività del simbolo

    17. Simbolismo e dialettica

    18. La tolleranza

    19. La realtà è simbolica

    20. La temporalità

    21. La trasparenza

    22. La a-dualità

    23. La coscienza mitica

    Capitolo secondo

    LOGOMITÌA E PENSIERO OCCIDENTALE*

    Introduzione

    L’inadeguatezza del logos

    «Nova et vetera»

    La mitologia

    La consapevolezza mitica

    L’epifania del mythos

    Nove aforismi sul mito

    1. Non c’è fenomenologia sul mito

    2. C’è mitofania

    3. Crediamo nel mito senza crederci

    4. Il mito non va riflettuto

    5. Il veicolo del mito è la fede

    6. Il mito non è oggetto del pensiero logico

    7. Ogni mito comporta una fede

    8. Il mito è trasparente

    9. Il mito è «non-detto»

    Corollari

    Rosmini e noi

    La situazione contemporanea

    Capitolo terzo

    IL SIMBOLO DEL KARMAN. LA LEGGE DEL KARMAN E LA DIMENSIONE STORICA DELL’UOMO*

    1. Il problema

    2. Alcune note indologiche

    a) I Veda e i Brāhmana

    b) Le Upaniśad

    c) La tradizione

    d) Una sintesi

    3. La concezione karmica dell’universo

    a) Il mitico e il mitologico

    b) Il karman e il cosmo

    c) Il karman e l’Assoluto

    d) Il karman e l’individuo

    4. Karman e storicità

    a) Il karman e il tempo

    b) Il karman e la storia

    c) Il karman e l’uomo

    Capitolo quarto

    LA GOCCIA D’ACQUA.

    UNA METAFORA INTERCULTURALE*

    1. Se l’uomo è considerato come goccia…

    2. Se l’uomo è considerato l’acqua della goccia…

    Sezione terza

    CULTO*

    INTRODUZIONE

    Capitolo primo

    IL SENSO DEL CULTO

    Una favola

    1. Punto di partenza: una preoccupazione umana

    a) Necessità di un nuovo inizio

    2. Punto centrale: un problema cosmoteandrico

    a) Fenomenologia del rito

    b) Filosofia del rituale come simbolo

    c) Teologia dell’azione rituale

    3. Punto d’arrivo: un atteggiamento religioso contemporaneo

    Nove sūtra

    1. Il rito non è tanto dottrinale quanto simbolico

    2. Il rito non può essere coscientemente o volontariamente creato e se è manipolato degenera in ritualismo

    3. I rituali sorgono quando si dà un insieme di circostanze propizie

    4. Rifiutare un rito perché non possiamo capirne il significato è tanto inadeguato quanto conservarlo perché lo capiamo

    5. Celebrare un rituale richiede di subirne coscientemente il fascino

    6. Senza rito non c’è tradizione viva

    7. Il carattere sacro inerente a ogni rito non ha motivo di andare a detrimento della sua secolarità

    8. La secolarità del rito esige che si creda nel suo senso

    9. Il rito esige osservanza delle sue norme, però non dipende da esse

    Capitolo secondo

    CULTO E SECOLARITÀ

    1. Il problema

    2. Il culto

    3. La secolarità

    Capitolo terzo

    CRITERI PER UNA RISPOSTA.

    CONSIDERAZIONI METODOLOGICHE

    1. Criteri insufficienti

    a) Approccio inadeguato

    b) Criterio insufficiente

    2. Criteri necessari

    3. Fedeltà allo Spirito

    Capitolo quarto

    SECOLARITÀ.

    RIFLESSIONI FILOSOFICHE

    1. Eteronomia sacra

    a) Adorazione

    b) Eternità

    c) Sacrificio

    2. Autonomia profana

    a) Rispetto

    b) Temporalità

    c) Servizio

    3. Ontonomia cosmoteandrica

    a) Devozione

    b) Tempiternità

    c) Partecipazione

    4. Tre atteggiamenti

    a) Eteronomia

    b) Autonomia

    c) Ontonomia

    Capitolo quinto

    CULTO.

    SUGGERIMENTI TEOLOGICI

    1. Il principio di complementarità (il culto a favore e contro la vita)

    a) L’integrazione del culto nella vita umana ordinaria

    b) L’introduzione della vita nel culto

    2. Il corollario dell’universalità e la concretezza

    3. Le nuove «nigriche» in contrasto con le antiche rubriche

    a) Le nuove rubriche

    1) Spontaneità

    2) Univarsalità

    3) Concretezza

    4) Sincerità

    5) Continuità

    6) Ortoprassi

    b) Le nuove «nigriche»

    1) La devozione (bhakti)

    2) La conoscenza (jñāna)

    3) L’azione (karman)

    c) Il culto in un’epoca secolare

    Nota bibliografica della sezione terza

    Glossario

    Indice dei testi originali del presente volume

    ABBREVIAZIONI

    INTRODUZIONE

    In un mondo in cui gli scritti dell’altro ieri sono già considerati superati, è audacia innocente dell’autore e saggezza poco comune dell’editore pubblicare un libro, frutto di anni di riflessioni che risalgono a un tempo ormai lontano, su questioni che sfidano il mito del progresso e che emergono quando l’uomo si ferma a pensare, scoprendo allora che il suo stesso pensiero riposa in una fede della quale non può dare ragione, ma che comunque non può accettare senza un’ermeneutica della sua situazione nella realtà.

    Ecco in semplici parole la triplice problematica di questo libro. La vita umana si palesa alla nostra consapevolezza, la quale riposa sul mito; il mito ci porta a credere che la nostra consapevolezza ci manifesti la realtà. Abbiamo fede in essa: nella realtà o nella nostra consapevolezza di essa? Non ci resta quindi che fare ricorso all’ermeneutica o interpretazione di questa nostra vita.

    Detto con altre parole, sotto l’influenza delle spiritualità orientali la lingua inglese ha foggiato la parola realization come sinonimo di salvezza, di liberazione. Si raggiunge la pienezza (cielo, Dio, il fine dell’uomo, la felicità…) quanto più ci si realizza, cioè si diventa reali, si raggiunge la realtà; quindi il fine dell’uomo è realizzarsi, diventare pienamente reale, diventare ciò che è – anche se questa realtà è vista come il nulla o il vuoto.

    Il cammino verso questa realizzazione è la fede o più precisamente l’atto di fede: l’attuazione, più o meno libera, dell’uomo, di ciò che egli crede sia il suo fine. In un modo o nell’altro questa sembra essere una convinzione universale dell’uomo malgrado le diverse interpretazioni della fede o dei suoi mezzi così come si sono sviluppate nelle varie culture.

    La cosiddetta «modernità», che sta influenzando ormai quasi tutte le culture della Terra, ha messo in crisi l’uomo quando ha proclamato con «prove» plausibili che la fede è un mito che deve essere soppiantato dalla ragione. L’illuminismo, e tutto lo spirito razionalista che ne consegue, deve illuminare le tenebre del periodo cosiddetto «religioso» dell’umanità. Ma l’umanità entra nuovamente in crisi quando scopre che la «ragione» è pure un mito in cui è sfociata la fede che pretendeva di essere salvifica.

    Che cosa ci apre alla realtà? Che cos’è «questa» realtà? È anch’essa un mito? Come dobbiamo interpretare questa fede o questo mito?

    Seguendo l’ispirazione di un genio mistico, che si lasciò ispirare da Tommaso d’Aquino, diremo che la stessa realtà è un mito coperto da veli e che la vera rivelazione non consiste nel togliere bensì nel riconoscere i veli come tali. Secondo Meister Eckhart i veli della realtà sono tre: il velo della bontà, quello della verità e infine quello dell’essere.

    Il triplice velo della realtà è il tema nascosto di questi scritti e per affrontarlo ci siamo avvalsi di alcuni esempi del passato che nulla hanno perduto della loro pregnanza anche oggi. I veli non sono un semplice impedimento, senza di essi saremmo abbagliati; solo riconoscendoli possiamo vedere.

    Sentiamo spesso dire in tutti gli ambienti, e non solo in quelli scientifici: «Oggi la Scienza ci ha dimostrato…», «Oggi sappiamo che…». Questo scatena la reazione viscerale di molti che pensano: «Allora, aspettiamo domani!», innescando così una corsa inarrestabile verso il… dopodomani.

    Altro è che non ci sia un «oggi» perenne – il tempo non si può fermare – altro è che l’«oggi» sia soltanto ciò che è presente (per chi?). Anche qui c’è una via di mezzo sia per quanto riguarda la forma sia per quanto riguarda il contesto delle idee.

    Rileggendo il testo mi sono reso conto che a volte è un po’ troppo denso e che non sempre ho sviluppato le conseguenze delle idee esposte, e questo perché con il passar degli anni alcune idee si sono semplificate, altre sono apparse meno importanti e altre ancora, un tempo considerate forse troppo ardite, sembrano meno inverosimili in questo inizio di millennio, ma ritengo tuttavia che il testo abbia ancora una sua validità.

    Non si vuole con ciò difendere una statica philosophia perennis, bensì una perennità della filosofia vista come aspirazione alla saggezza sempre nuova e sempre antica.

    Ho fatto riferimento a questa cronologia del millennio un po’ artificiale non per pagare un tributo alla moda o contribuire a una mentalità monoculturale (millennio, per chi?), ma per un motivo più profondo, che spiegherebbe che la popolarità del «nuovo millennio» non è soltanto frutto di una manipolazione propagandistica, ma corrisponde a un archetipo di saggezza umana: l’uomo si rifiuta di essere una marionetta nelle mani di qualsiasi Mercato – degli Dei, degli Uomini o, peggio ancora, delle Cose.

    Per molti secoli una buona parte dell’umanità ha creduto di essere vittima di un Destino sul quale l’uomo non aveva alcun controllo. Per altri lunghi periodi l’umanità ha creduto che questo Destino fosse aperto all’influenza degli uomini di preghiera (gli spirituali delle religioni), ma esperienze amare di ogni tipo l’hanno risvegliata da questo «sogno dogmatico», per cui ha incominciato a sognare di raggiungere l’età dell’illuminismo, che l’avrebbe resa libera. Queste illusioni stanno però crollando. Basti un solo esempio di ordine economico: la differenza tra il 20% della popolazione più ricca del pianeta rispetto al 20% della popolazione più povera nel 1960 era di 30 a 1; nel 1999 di 82 a 1, e oggi il divario è ancora maggiore. Sarà il cosiddetto monoteismo di mercato il nuovo idolo?

    In breve: una parte dell’umanità sente (spesso a livello inconscio) che ciò che è in gioco nel mondo attuale è qualcosa di più di un cambiamento di abito o di bytes nel computer, che ci vuole qualche cosa di più radicale di una svolta a destra o a sinistra, o di una democrazia più vera o di una distribuzione più equa delle «ricchezze» o delle «risorse» della Terra. Dai contadini agli intellettuali, da quelli che si dicono credenti a quelli che si dicono non-credenti perché non credono nelle credenze dei cosiddetti «credenti», tutti avvertono che nessuna riforma dell’attuale sistema dominante sia sufficiente e che la trasformazione auspicata sembri non accettare, ma anzi rifiutare qualunque paradigma.

    Nutriamo un sospetto comprensibile dinanzi a qualsiasi paradigma (sembra toglierci la libertà) e un timore fondato dinanzi a ogni tipo di messianismo. L’esperienza storica dell’umanità non ci permette più di credere che saremo migliori dei nostri antenati.

    Quasi contemporaneamente Aristotele, Buddha, probabilmente Zarathustra e Laozi predicarono una via di mezzo tra l’eteronomia degli Dei e l’autonomia dell’uomo, ma sembra che gli uomini non abbiano trovato l’equilibrio. Alcuni profeti della Palestina e Gesù stesso, cui fecero seguito poi molti saggi, santi e fondatori, hanno proclamato la via dell’Amore, ma, pare, senza grande successo. Altre religioni hanno purificato e adattato il messaggio di antiche tradizioni col solo risultato di apportare nuove divisioni. Anche la scienza e la modernità hanno creduto nella pace, nel «villaggio globale», nello «happy New World» e nel progresso, ma, pare, con scarso successo… I discorsi sul «nuovo millennio» sono un sintomo di questa crisi.

    Il «nuovo millennio» si presenta come uno slogan che rompe con tutti questi schemi di riforme moralistiche, di prediche metafisiche o di ottimismi scientifici. Si capisce che, stanchi di queste esperienze, i nuovi vincitori della storia tornino a proclamare la (stessa) legge della giungla sotto la bandiera della libertà di ogni scambio e credano che il «mercato» stesso si regolerà da solo – ma senza gli uomini, che ne saranno le vittime.

    Comunque sia, il tema del libro non affronta questa problematica direttamente, ma nemmeno la ignora. Anzi, lo stato dell’umanità come manifestazione concreta della condizione umana costituisce lo sfondo di questi studi. Serenità e distacco non significano indifferenza e mancanza di sensibilità.

    Le pagine che seguono hanno subìto una decantazione di parecchi decenni, che le ha affrancate dalla tirannia del tempo lineare e omogeneo, caratteristica della società contemporanea d’origine occidentale. Esse hanno avuto una lunga storia e anche parecchie «reincarnazioni».

    *

    Questo primo tomo del vol. IX è articolato in tre sezioni, che trattano del mito, del simbolo e del culto (il secondo tomo sarà dedicato alla fede e alla sua interpretazione per mezzo delle parole). Per mito, nel linguaggio di oggigiorno, s’intende qualcosa di irreale o semplicemente una leggenda più o meno fantastica. Con la parola mythos, invece, io intendo quello che tradizionalmente significava (anche se non sempre con chiarezza), vale a dire un modo diverso che gli uomini hanno di esprimere una convinzione, o piuttosto una verità che non è necessariamente «chiara e distinta» alla ragione e che, ciò nonostante, si accetta come ovvia e quindi non ha bisogno di essere dimostrata.

    Il tomo comincia con una descrizione della relazione tra mythos e tolleranza (sezione prima, parte prima, cap. 1) che sembra essere una questione ancora vitale ai nostri giorni: troppo spesso si collega tolleranza a debolezza o a rassegnazione. Segue un’altra riflessione sul rapporto tra lo stesso mito e il problema della morale (cap. 2). Se si crede che la morale sia un mito allora si corre il rischio di non prenderla sul serio, cadendo nell’anarchia; d’altra parte, se la si interpreta alla lettera, si cade nel fanatismo. La questione è vitale.

    Seguono tre studi di tipo generale sul senso del mythos e la sua relazione con la parola e quindi anche con la teologia (capp. 3, 4 e 5), come sarà illustrato dai quattro mythoi indiani che, pur meno conosciuti in Occidente di quelli greci, sono stati per secoli punti di riferimento per quella cultura. L’interculturalità è un imperativo umano per il nostro tempo. In questo modo si può superare il provincialismo delle culture senza rimanere imprigionati in compartimenti stagni. Un famoso dizionario inglese del 1966 descrive ancora «myth» come «fictitious narrative usually involving supernatural things» («racconto immaginario che si riferisce generalmente a cose soprannaturali»). Si passa quindi alla descrizione dei quattro mythoi. Il primo mythos (sezione seconda, parte seconda, cap. 1) è l’equivalente omeomorfico del mito della creazione, che riunisce in uno i mythoi del Medio Oriente sulla colpa e la redenzione.

    Il secondo (cap. 2), il mythos della condizione umana, ci offre una visione originale di che cosa sia l’Uomo. La lunghezza di questo testo è un indizio della sua importanza: esso implica tutta una antropologia.

    Il terzo mythos (cap. 3) ci offre un altro esempio di una certa universalità della coscienza umana. L’uomo si sente peccatore e redento, «simul iustus et peccator», direbbe Martin Lutero. Questa ambivalenza appartiene all’essere umano. L’uomo non resiste alla tentazione, ma la sua caduta risulta in seguito avere un valore superiore. «Felix culpa», osa cantare la liturgia cristiana.

    Un’analoga problematica è l’argomento del quarto mythos (cap. 4). Il rifiuto dell’incesto è penetrato a tal punto nella mente umana che ci risulta per lo meno innaturale e ci richiede di recuperare l’innocenza per scoprirne il senso profondo. La sessualità è un invariante umano che tante culture assumono come referente pressoché universale.

    Come abbiamo accennato, il messaggio di questi mythoi non può essere trasmesso con una riflessione esclusivamente razionale. Il mythos ci è indispensabile. Abbiamo visto anche come i mythoi devono ricorrere a metafore e a simboli avvalendosi della parola come tramite del logos.

    Troppo spesso si è considerato il concetto come il migliore strumento della parola in quanto tende all’univocità necessaria per l’intelligibilità – naturalmente concettuale. Ridurre il logos a concetto porta a un serio impoverimento del logos, con gravi ripercussioni sulla vita umana stessa. Di fatto però l’uso più corrente della parola è il simbolo, che non è soltanto polivalente, ma salva dal grande pericolo dell’oggettivismo, il quale facilmente porta al fanatismo. Il mythos egizio (raccontato da Platone) che vede nella scoperta della Scrittura l’inizio della degenerazione della cultura racchiude una qualche verità. Un pensiero puramente oggettivo non permette altre interpretazioni. Una deduzione logica univoca non permette alcuna deviazione: 2 + 2 = 4 e solo 4. Il simbolo invece ci permette di superare l’oggettivismo senza cadere nel soggettivismo. Il simbolo non è né oggettivo né soggettivo; sta nella relazione e quindi il dialogo è indispensabile per pensare bene – e anche per vivere bene. La natura umana non è individualistica. L’uomo non è riducibile all’individuo e nemmeno a un semplice concetto.

    Questo ci porta di conseguenza a parlare del mezzo più potente che l’uomo ha per avvicinarsi alla realtà e ai suoi simili: il simbolo. Dopo alcune riflessioni generali su che cosa sia il simbolo (sezione seconda, capp. 1 e 2) portiamo ad esempio una parola fondamentale in Oriente, spesso fraintesa: karman (cap. 3), parola che, ridotta a concetto, risulta vulnerabile alla ragione. Se il simbolo del karman è prevalente nella metà delle culture, la metafora della goccia d’acqua (cap. 4), come simbolo della condizione di ogni esistenza, inclusa quella umana, è pressoché universale.

    Conclude il tomo (sezione terza) un libro la cui scrittura risale al 1973 su un tema allora di attualità e anche oggi di non minore interesse, pur essendo trascorsi ormai trentacinque anni. L’unico cambiamento evidente è stato apportato al titolo che il Concilio Ecumenico delle Chiese nel 1969 aveva dato a una «Consultazione» che stava all’origine del libro. «Secolarizzazione» è stata sostituita con secolarità. È infatti con questo titolo che ho pubblicato in seguito altre opere.

    Il tema di questo libro è centrato sul rito, non in quanto cerimonia, ma in quanto espressione dell’homo religiosus, non come funzione, ma come attività che l’uomo compie in comunione con il cosmo per il sostentamento dell’universo – lokasamgraha, come dice la saggezza hindū. La secolarità, cioè l’interesse per ciò che è secolare, è stata troppo spesso considerata in molte tradizioni ostacolo alla vita spirituale. Il profano (pro, davanti a, al di fuori del fanum, tempio, luogo sacro, consacrato agli Dei) è in opposizione al sacro, ma non al secolare che può essere vissuto nella sua sacralità. Inserisco questo studio nel presente tomo perché considero il tema di grande importanza. Il linguaggio si è andato lentamente trasformando, ma il libro può ancora essere di qualche valore.

    Tavertet

    gennaio 2008

    Sezione prima

    MITO

    Parte prima

    MYTHOS

    o{ sw aujtivth kai; monwvth eijmiv, filomuϑovtero" gevgona

    Più sono me stesso e solitario, più divengo amante del mito.

    Aristotele, ad Antipater (1582 b 14)

    Capitolo primo

    TOLLERANZA, IDEOLOGIA E MITO*

    Tollerante come la terra¹.

    Dham VII,6 (95)

    ∆En th/` uJpomonh/` uJmw`n kthvsesϑe ta; yuca; uJmw`n

    Con la vostra tolleranza conquisterete le vostre anime².

    Lc 21,19

    1. La legge della tolleranza

    Il mio intento è quello di esaminare i nessi attualmente esistenti tra ideologia e demitizzazione concentrando l’attenzione sul problema concreto della tolleranza; questo ci consentirà di far emergere parecchi suoi aspetti che rimarrebbero invisibili se analizzati da un punto di vista più astratto o più diretto. Il mito – come il divino – non viene visto se non in retrospettiva, quando è già passato, e anche allora soltanto nelle tracce che lascia nel logos.

    Vorrei esporre una legge che ha un fondamento antropologico, ma che si manifesta più chiaramente nel regno sociologico. Potrei chiamarla legge della tolleranza («le cose accadono come se… et hypothesis non fingo») e formularla in questo modo: La tolleranza che si ha è direttamente proporzionale al mito che si vive e inversamente proporzionale all’ideologia che si segue.

    2. Chiarimento terminologico

    Chiariamo anzitutto i nostri termini, e poi cercheremo di spiegare il significato di questa legge.

    Il mito che si vive comprende l’insieme dei contesti che si danno per scontati. Il mito ci dà un punto di riferimento che ci orienta nella realtà. Il mito che uno vive non è mai vissuto o visto allo stesso modo in cui uno vive o vede il mito di qualcun altro; è sempre l’orizzonte accettato entro cui si situa la nostra esperienza della verità. Io sono immerso nel mio mito così come altri lo sono nel loro. Non ho una coscienza critica del mio mito, così come gli altri non sono consapevoli del loro. È sempre l’altro che, alle mie orecchie, parla con un certo accento. È sempre l’altro che io sorprendo a parlare muovendo da preconcetti infondati.

    Ed è pure l’altro che porta allo scoperto il mito che io vivo, poiché per me non è visibile come mito. Il mio mito è ciò che mi rende unico e, quindi, insostituibile; è alla base della mia storia personale e alle radici del mio linguaggio. Viene espresso e manifestato attraverso il mio essere senza che io me ne renda conto; è ciò che l’altro vede quando instaura una relazione pienamente personale con me, che trascende il livello puramente dialettico. Solamente al di là della dialettica, sul piano del dialogo dialogico, io mi apro all’altro così come sono, facendomi scoprire da lui – e viceversa, senza che l’uno o l’altro si rifugi in un’oggettività neutrale³.

    L’ideologia che si segue è la componente demitizzata della concezione che uno ha del mondo; è il risultato del passaggio da mythos a logos nella vita e nella riflessione personale; è l’insieme, più o meno coerente, di idee che formano la coscienza critica, vale a dire il sistema dottrinale che ci consente di avere una collocazione razionale – ideologica – nel mondo in un tempo e in un luogo particolari. L’ideologia implica sempre un sistema spazio-temporale costruito dal logos in rapporto al suo concreto momento storico. Un’ideologia è un sistema di idee formulate da un logos incapace di trascendere la propria temporalità. Il problema della ideologia nasce una volta accertato che il logos umano ha perduto il suo carattere trans- o in-temporale.

    L’ideologia che seguo scaturisce da quella parte conscia di me stesso che mi consente di integrare le mie idee in modo più o meno sistematico in un contesto dottrinale (anche se detto sistema si autodefinisce «aperto»). A differenza del mito, io posso riconoscere tanto la mia ideologia quanto quella degli altri; ciò mi permette di avere un rapporto dialettico con loro.

    La parola ideologia, così come la parola mito, ha una varietà di significati a dir poco sbalorditiva, che non possiamo soffermarci a esaminare in questa sede. Analizzerò soltanto una delle accezioni oggi più comuni: quella di ideologia come sistema di idee intrinsecamente temporale che governa la nostra vita sociale, specie sul piano della res publica⁴.

    La tolleranza che si ha è un’espressione difficile da spiegare, in quanto dipende dalla particolare ideologia che la definisce. Dobbiamo quindi ricercare alcuni aspetti fenomenologici della nozione di tolleranza che, come sintomi, ci aiutino a scoprire il coefficiente ideologico di una determinata cultura.

    3. I quattro momenti della tolleranza

    Possiamo facilmente convenire che la tolleranza non implica necessariamente il relativismo della verità o l’indifferenza a essa⁵. Non siamo veramente tolleranti se evitiamo qualunque presa di posizione in difesa della verità soltanto perché siamo scettici o indifferenti. La relatività radicale dei valori umani non è la stessa cosa di un relativismo più o meno agnostico. Possiamo essere autenticamente tolleranti solo se non scendiamo a compromessi, avendo constatato che la verità stessa è tollerante⁶. La tolleranza non deriva da un’indifferenza alla verità ma da una più profonda percezione della verità stessa⁷. Non possiamo negare, tuttavia, che scetticismo e indifferenza di ogni sorta hanno contribuito all’esercizio della tolleranza e incoraggiato a riflettere su essa.

    La tolleranza è caratterizzata da quattro aspetti che, in una forma o nell’altra, sono presenti nelle culture in cui tolleranza significa ancora qualcosa.

    a) Aspetto politico

    Si tollera ciò che non si riesce a incasellare. Si sopporta un peso, si tollera un male minore. Si tollera quando non si può assimilare, approvare o accettare completamente. Siamo tolleranti per evitare il male più grave dell’intolleranza, che distruggerebbe molti altri «beni». In realtà la tolleranza ha a che fare con la prudenza, e con la prudenza politica in particolare, per lo meno in senso aristotelico. La maggior parte dei codici civili riconosce che questo tipo di tolleranza non può fungere da fonte di diritto.

    b) Aspetto teologico

    La tolleranza è una necessità pratica. In questo caso è un atteggiamento positivo, pone l’esistenza prima dell’essenza, la pratica prima della teoria, il buon senso prima del ragionamento logico e, in ultima analisi, il bene prima della verità. Ma allo stesso tempo è provvisoria, poiché trova la sua giustificazione solo nello status deviationis, nella condizione itinerante, nella società ancora imperfetta, ecc. La tolleranza porta con sé la segreta aspirazione a diventare obsoleta. L’autentica tolleranza preferirebbe non essere necessaria, vorrebbe diventare superflua, vive nella speranza di scomparire. E ciò è comprensibile: infatti non potremmo accettare una rottura definitiva tra bontà e verità. Questa tolleranza, quindi, è sempre il segno della provvisorietà dell’esistenza.

    c) Aspetto filosofico

    La tolleranza è altresì una necessità teorica, che nasce dalla consapevolezza riflessiva dei nostri limiti e limitazioni. Si basa sul rispetto dovuto a ciò che non comprendiamo, perché siamo consapevoli di non capire ogni cosa. È tolleranza rispettosa. Ci porta a rispettare qualcun altro anche se non approviamo le sue idee o azioni.

    Se la prima forma della tolleranza può essere etichettata come tolleranza politica, la seconda potrebbe essere chiamata tolleranza teologica, giacché deriva dalla consapevolezza di quella che le diverse teologie definiscono come situazione innaturale, eccezionale, decaduta o irrealizzata dell’uomo. Questa terza forma di tolleranza porta il nome di tolleranza filosofica, perché si fonda sul riconoscimento dei nostri limiti e sulla prospettiva necessariamente circoscritta di tutta la conoscenza umana.

    d) Aspetto mistico

    Possiamo però ancora individuare un quarto tipo di tolleranza.

    L’esperienza, come pure la pratica, della tolleranza rivela una dimensione che non può essere compresa soltanto attraverso una riflessione teorica. Questa esperienza ci introduce in una sfera in certo qual modo più positiva, che potremmo definire tolleranza mistica. Essa presuppone che noi siamo capaci di accogliere ciò che tolleriamo⁸. Noi riscattiamo, noi risolleviamo ciò che tolleriamo; lo trasformiamo, e questa trasformazione purifica il soggetto attivo della tolleranza allo stesso modo di quello passivo. La tolleranza, in questo caso, viene sperimentata come la sublimazione di una situazione grazie al potere stesso della tolleranza. La tolleranza mistica corrisponde a una visione non oggettivabile del mondo e nasce dalla convinzione che ogni atto umano abbia un valore che non è puramente oggettivo. Questo concetto di tolleranza sottintende che tutta la realtà è riscattabile, per il fatto che non è mai immutabile. Presuppone anche il carattere esistenziale della verità e la relatività radicale dell’essere personale. La tolleranza, dunque, è il modo in cui un essere esiste in un altro ed esprime l’inter-in-dipendenza radicale di tutto ciò che esiste. La forza di molte culture tradizionali non consiste soltanto nella loro resistenza alla sofferenza o alla mala sorte, ma anche nella loro capacità di tollerare, e così facendo di assimilare più integralmente, ciò che in altre circostanze avrebbe esasperato o perfino distrutto la gente comune.

    Questo concetto può risultare più chiaro se lo illustriamo con un esempio. Ci serviremo di un esempio cristiano: che cosa dovrebbero tollerare i cristiani? Il male! La parabola del grano e della zizzania non lascia alcun dubbio in proposito. Ma non è tutto. L’uomo deve tollerare non solo la zizzania ma anche il grano. Direi molto semplicemente: il cristiano deve tollerare il mondo, ma questa non è un’«esclusiva» cristiana. L’uomo deve tollerare di non essere ancora quello che può diventare, quello che vuole essere, quello che sarà. In breve, l’uomo deve tollerare di non avere ancora raggiunto il suo obiettivo, la perfezione del suo essere. Deve, inoltre, tollerare il fatto di non potere essere un santo ventiquattr’ore su ventiquattro, di essere un peccatore. Deve tollerare se stesso nella sua interezza – come essere incompleto, in cammino, viator. E, allo stesso modo, deve tollerare questo cosmo imperfetto, questa temporalità fragile, frantumata, come pure i suoi compagni di viaggio. Chi è soddisfatto di sé, non più ricettivo, non più capace di imparare; chi non sente e non soffre più come un pellegrino, non può condividere questa tolleranza mistica.

    Parliamo del cristiano come esempio, ma va sottolineato che si tratta di un atteggiamento umano. Il cristiano quindi non si limita a sopportare l’errore e la «miscredenza»: se ne fa carico. Ciò è possibile in quanto l’uomo non è solo; il Figlio dell’uomo è con lui. Il cristiano porta tutte le situazioni umane in Cristo e con Cristo, il portatore, creatore e redentore del mondo. Il cristiano non giudica il mondo, né si mette in disparte per osservare, sicuro della propria retta opinione. Ha qualcosa da fare sulla terra, un compito prende forma in lui, un compito liturgico, sacro e perciò sacerdotale. È un collaboratore, un concelebrante, un corredentore con Cristo. Il cristiano svolge un ruolo cosmico nel plasmare i cieli nuovi e la terra nuova. E questo ruolo è esattamente la tolleranza, che qui potremmo tradurre con «pazienza»⁹.

    La tolleranza è la pazienza con cui salviamo la nostra anima, la nostra stessa vita¹⁰. Tolleranza è anche sinonimo di attesa e di speranza, non soltanto di perseveranza e di fermezza – nel senso in cui questo concetto cristiano e biblico viene spesso reso (a me sembra una traduzione stoica)¹¹.

    Visto alla luce della tolleranza, quindi, il compito cristiano è quello di portare e sopportare il peso dell’altro con un atteggiamento di speranza, adempiendo così, come indica san Paolo, la legge di Cristo¹². Il regno di Dio è già in un certo senso il luogo ove Dio regna, ossia l’intera creazione. Prender parte alla sua realizzazione non significa innalzare un edificio (una cristianità mondana, potente, trionfante), ma significa iniziare ora, sulla terra, attraverso tutte le cose grandi e piccole, a collaborare con la materia, invitata essa stessa a risollevarsi, e pertanto già sulla via della risurrezione. In questo senso il cristiano è la luce e il lievito del mondo¹³.

    Anziché però portare ulteriormente avanti queste considerazioni ricorrendo a esempi di altre tradizioni, vorremmo far ritorno alla nostra tesi.

    4. Tra ideologia e mito: la tolleranza

    a) I limiti della tolleranza

    Più un’ideologia è perfetta, meno è tollerante – e meno ancora ha bisogno di tollerare la tolleranza. In un sistema ideologico la tolleranza è l’eccezione; è sempre tolleranza dell’eccezionale. Ma più una società è ideologicamente perfetta, più queste eccezioni si riducono al minimo.

    Non c’è posto per la tolleranza in un’ideologia perfetta. Nella misura in cui non ha ancora raggiunto la sua perfezione, l’ideologia deve fare i conti con la tolleranza. Nel momento in cui un’ideologia diviene perfetta deve anche diventare intollerante¹⁴.

    La tolleranza trova la sua piena giustificazione soltanto fuori dei confini di un’ideologia (ecco perché delle ideologie parziali divengono parzialmente «tollerabili»); ma quando un’ideologia diviene totalitaria (quando cioè vuole racchiudere l’intera esperienza umana) essa diventa assolutamente intollerante e quindi anche intollerabile, se non ci si vuole sottomettere a essa¹⁵.

    L’ideologia può, al massimo, tollerare l’esercizio della tolleranza, ma non può né approvarla né giustificarla teoricamente. La tolleranza è il vero e proprio indice della debolezza di una particolare ideologia. Un’ideologia è costretta a tollerare ciò che non può ancora estirpare¹⁶.

    Alcuni esempi renderanno più chiaro questo pensiero.

    Quando noi (ideologicamente) etichettiamo certuni come «criminali» o «malati», acconsentiamo a non tollerare la libertà di coloro i cui liberi movimenti costituiscono un pericolo per la società; così li imprigioniamo o li confiniamo negli ospedali¹⁷.

    Particolarmente illuminante è l’esempio dei malati mentali. L’ideologia di ogni cultura stabilisce quello che potremmo chiamare l’indice di tollerabilità degli «anormali». Per esempio, nei paesi in cui l’isteria e certe forme di schizofrenia hanno ancora una dimensione mitica e non sono ancora state diagnosticate ideologicamente come malattie, nessuno si sognerebbe mai di confinare o di isolare queste persone; la soglia del tollerabile è fissata in funzione dell’ideologia, non del mito.

    Quando una particolare ideologia comunista è convinta che la religione sia sbagliata, che sia l’oppio dei popoli, si sente obbligata a sradicare questo male per evitare che avveleni tutta la società. Può tollerare la religione solamente quando una sua eliminazione completa o prematura provocherebbe danni ancora più gravi.

    Quando una certa ideologia cristiana è persuasa che l’eresia sia un male o l’apostasia un crimine, le tollererà soltanto per evitare sconvolgimenti maggiori. Ma laddove questi flagelli possono essere eliminati senza creare ulteriori problemi, lo farà senza indugio. Noi ovviamente ci sforziamo di integrare dialetticamente l’altro, il che significa che io tollero un altro fintanto che si adatta alle regole del gioco che mi consentono di trionfare su di lui. Qui può servire come esempio l’Inquisizione: il prigioniero sarà liberato se confessa, perché ammettere la propria colpa significa che egli accetta le regole del gioco. Il colpevole accetterà addirittura la punizione, dato che per lui essa ha un valore catartico.

    In un’ideologia democratica, tanto per ampliare la serie dei nostri esempi, l’altro sarà tollerato nella misura in cui non rappresenta una minaccia per il sistema. Può parlare, scrivere o agire, purché non metta in pericolo il sistema che concede queste libertà.

    In quanto ideologia (e non in quanto mito), la democrazia ha prodotto un sistema sociale fondato sui diritti dell’individuo, che si esprimono nel suffragio universale. In questo caso noi non aboliamo la legge della giungla o la legge del più forte, ma la ammorbidiamo, la «civilizziamo», accettando volontariamente la regola maggioritaria. Se uno non accetta i principi fondamentali della democrazia, la democrazia non potrà tollerarlo.

    Noi misuriamo la perfezione di un’ideologia democratica in base al suo livello di intolleranza occulta, vale a dire nella misura in cui non ha bisogno di ricorrere a un’intolleranza manifesta. Quando un’ideologia si sente minacciata nella sua esistenza o nella sua stessa essenza, non è né può essere più tollerante. Si può tollerare solamente ciò che si riesce a sopportare senza venirne schiacciati.

    Sappiamo accettare consapevolmente la nostra distruzione? Sappiamo rinunciare volontariamente ai nostri diritti? Sappiamo ritirarci davanti all’evidenza? Se nel mio sistema 2 più 2 fa 4, posso tollerare che faccia 5? Riesco a tollerare l’errore di un altro che afferma, per esempio, che 2 più 2 fa 5 fintanto che la sua affermazione non interferisce con i miei calcoli e io posso continuare a lavorare muovendo dal presupposto che 2 più 2 fa 4.

    Sono capace di tollerare qualcuno che non accetta il mio concetto di ciò che è tollerabile? Riesco a tollerare uno che dice che mi annienterebbe se potesse? O uno che vorrebbe servirsi della mia tolleranza per conquistare un potere tale da permettergli di essere intollerante?

    Per un’ideologia la tolleranza diventa una prudente strategia politica. «Visto che siamo una minoranza, rivendichiamo i nostri diritti». Ma nel momento stesso in cui saliamo al potere «non possiamo più tollerare errori». Ciò sarebbe in contraddizione con la nostra stessa posizione e tornerebbe a «vantaggio e consolazione» dei nostri avversari. La storia di ogni epoca è ricca, purtroppo, di simili esempi. Dopo Costantino venne Teodosio; dopo la «rivoluzione» la dittatura; dopo il mito di un mondo libero un’ideologia di libertà che non esita a dichiarare guerra pur di imporre un regime democratico.

    In breve, si può tollerare soltanto ciò che si crede di poter tollerare, ma al di fuori o al di là di questi limiti nessuna tolleranza è possibile.

    Qualcuno potrebbe affermare che bisogna mostrarsi intolleranti solo verso ciò che è intollerabile¹⁸. È naturale, ma il problema sta nella soglia e nella coscienza di ciò che è intollerabile. Tollerare l’intollerabile è una contraddizione. Ogni intolleranza sa giustificare se stessa ai propri occhi e davanti agli altri solo perché è convinta di aver già toccato i limiti del tollerabile. Ma dove sono questi limiti¹⁹? Non potremmo definire la legge come ciò che definisce i limiti del tollerabile?

    b) Ideologia e tolleranza

    La differenza fondamentale tra una filosofia che voglia essere anche pratica e un’ideologia sta nel ribaltamento della relazione classica tra theoria e praxis²⁰. L’atteggiamento tradizionale di ogni filosofia è che la pratica procede dalla teoria, il che sottintende il primato del pensiero. L’ideologia, al contrario, fa derivare la teoria dalla pratica; l’azione detiene il primato. Ma dobbiamo essere più precisi: ogni ideologia ritiene che verità, bellezza ed essere – essenza e esistenza – siano esclusivamente presenti su un piano pratico, in ciò che accade nel mondo. Non esiste un altro punto di riferimento, un’istanza ulteriore. Una vera trascendenza è ideologicamente impensabile. Potremmo citare qui l’ateismo radicale di alcune ideologie totalitarie; non vi è altra realtà che quella «empirica». Quando la «rivelazione» diventa un dato di fatto e non è più un mistero, la religione è avviata a trasformarsi in ideologia. Quando la trascendenza diviene un’idea, un concetto, e non è più un mito, mostra la sua contraddizione interna. Il concetto di trascendenza assoluta nega ciò che apparentemente afferma: che ci sia qualcosa «oltre» l’idea stessa di questo oltre.

    Se il problema consiste nello stabilire se l’azione o la pratica abbiano la preminenza sul pensiero, la difficoltà è filosofica. Taluni sistemi filosofici accettano volentieri la supremazia della pratica. Pensiamo solo entro determinati parametri, esistiamo solo nell’ambito di una data esistenza; e sebbene l’uomo possa dire di forgiare il proprio destino, lo fa all’interno di un dato mondo, situazione, orizzonte, che non fa parte del processo stesso, ecc. Una filosofia pratica o una filosofia dell’azione, al pari di qualunque ideologia, riconosce il primato del dato sul pensato. Ma a differenza di tutte le ideologie, la filosofia non trasforma il dato nel pensato; non li identifica; essa mantiene il carattere grezzo, irriducibile dell’azione, dell’esistenza, insomma del dato. L’ideologia, invece, li identifica; vuole dominare il dato, l’esistenza, l’azione²¹. Anche in questo caso, l’azione ha certamente la supremazia, ma una supremazia controllata e addomesticata dal pensiero. Questa azione, questa realtà data diventa pensata – addirittura pensabile – e non soltanto l’origine del pensiero. L’ideologia è un monismo integrale visto da una prospettiva idealista che abbraccia tutto il reale. Qui l’azione è il dispiegamento del dato senza altra possibile interferenza da parte di un ordine che non sia già dato o manipolabile. L’ideologia demolisce ogni trascendenza – e sicuramente la trascendenza del pensiero rispetto all’azione.

    In altre parole: l’azione, la praxis stessa, diventa theoria – ideologia. La situazione «effettiva» non è più, qui, l’origine del pensiero, ma il pensiero stesso. È facile intravvedervi l’atmosfera idealista di ogni ideologia moderna.

    I limiti del tollerabile, dunque, sono semplicemente ciò che de facto tolleriamo. Al di là c’è l’intollerabile. Ogni era, ogni potere umano ha dei criteri suoi propri per stabilire ciò che tollererà e ciò che non tollererà, e non vi è possibilità di appello a nessuna istanza superiore.

    Se, al contrario, la praxis non si identifica con la theoria, i limiti del tollerabile derivano da un ordine di pensiero indipendente dall’azione. Ne consegue che la tolleranza è in funzione del pensiero e può dunque essere circoscritta all’interno di ciascun universo culturale o filosofico. La trascendenza del pensiero rispetto alla praxis è la base della tolleranza. Quando l’ideologia li identifica, l’intollerabile diventa esattamente ciò che non si adatta o non viene incluso nel campo del pensiero, ossia dell’ideologia.

    Si può tollerare soltanto il tollerabile, ma l’ideologia afferma che il tollerabile è ciò che essa tollera. D’altro canto, per chi non vuole identificarsi con una ideologia, i limiti del tollerabile non derivano dalla praxis, ma sono prodotti da un consensus intellettuale aperto all’evoluzione o al cambiamento, e quindi alla possibilità di discussione e di appello. Ora in ogni ideologia, finché non si lascia esplicitamente spazio al tollerabile, non si può tollerarlo. Lasciar spazio al tollerabile equivale a inserirlo nel sistema, anche se in maniera particolare, cioè come fattore ancora da assimilare, come male da sopportare per un po’ per poi integrarlo o distruggerlo più tardi, senza danneggiare nel contempo altri valori. L’ideologia scolastica, per esempio, riusciva a tollerare l’errore umano o l’ignoranza finché manteneva la convinzione che un giorno la verità avrebbe prevalso. Dio era il garante; egli avrebbe colmato le lacune dell’ignoranza umana. Ma in fondo ciò significa che abbiamo già lasciato il territorio dell’ideologia. È il nostro ingresso nel mito, in ciò che troviamo evidente di per se stesso, in ciò che crediamo senza credere che vi crediamo.

    c) Tolleranza e mito

    Passiamo ora all’altra parte della nostra legge: la diretta proporzionalità tra il mito che uno vive e la tolleranza che esercita.

    Il mito rappresenta l’orizzonte invisibile sul quale proiettiamo le nostre concezioni del reale. Io tollero l’altro finché lo trovo tollerabile. Ora, sul piano concettuale, io trovo intollerabile tutto quello che in un modo o nell’altro non riesco a integrare nel mio sistema di pensiero. Ma per tollerare positivamente ciò che esula dal mio sistema devo scoprire un altro modo di essere in comunione a dispetto dell’incompatibilità dialettica. Questo modo è il mito. Il mito ci permette di allargare lo spazio del tollerabile.

    Forse a questo punto può venirci in aiuto un esempio. Tu sostieni l’opinione politica A, mentre io sono convinto che B sia il sistema adeguato e giusto per la medesima situazione. Fintanto che rimaniamo nell’ambito del sistema partitico, ossia all’interno di un tutto che si compone di diverse parti, riusciamo a tollerarci l’un l’altro in quanto consideriamo l’altro praticamente indispensabile per mantenere la polarità creativa a noi necessaria per completarci reciprocamente e conseguire un tenore di vita più equo. Siamo in disaccordo sui metodi e forse su alcune questioni particolari, ma condividiamo i fini e gli ideali di massima che ci consentono di dialogare e di batterci. Il problema si profila più grave quando smetto di considerare l’altro come una «parte» dell’insieme e lo rifiuto completamente perché è un’entità incompatibile con le mie idee. Riesco a tollerarlo solo a patto di trovare un terreno in cui vi sia sufficiente spazio per entrambi. Questo luogo non è costituito dalle sue idee né, in questo secondo caso, dal ruolo che potrebbe svolgere in un sano equilibrio di potere. Passando a un terzo livello, potrei ancora tollerarlo come essere umano, essendo pur sempre convinto che il suo valore umano vada al di là di quello delle sue idee. In questo caso lo tollero perché entrambi crediamo nel mito umano. Nel mito condividiamo ancora la convinzione che la tolleranza sia una cosa buona per entrambi. Rispetto la sua persona. Ma lo tollero fintanto che egli accetta di essere tollerato da me, vale a dire finché non impedisce al mio essere di svilupparsi e realizzarsi. È una specie di patto implicito: si tollera l’altro per essere a propria volta tollerati. Siamo entrambi consapevoli della natura precaria di tale tolleranza. Non appena egli perderà potere o smetterà di essere una minaccia, io non lo tollererò più. Uno sguardo alla scena politica mondiale è sufficiente a convincere chiunque che non si tratta di pure speculazioni.

    La misura con cui ci tolleriamo l’un altro al di fuori di un contesto dialettico di poteri contendenti dipende esattamente dal mito in cui crediamo. Io lo tollero, per esempio, perché credo che la natura umana sia buona,

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