L'arte rinascimentale nel contesto
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Il Rinascimento, specie quello toscano, sarà la palestra privilegiata della nascente connoisseurship, e spesso anche soggetto privilegiato delle prime campagne fotografiche. L’autocoscienza è in ogni caso uno dei tratti distintivi della cultura, soprattutto italiana, tra Quattro e Cinquecento, e sempre più frequenti sono le celebrazioni di artisti da parte dei letterati. Il presente volume, attraverso lo schermo di
una pluralità di voci e di competenze, propone uno sguardo vivace e dinamico che si rivolge a studiosi, studenti delle nostre università e appassionati non rassegnati o arresi all’industria delle mostre di massa e della storia dell’arte intesa come intrattenimento.
I contributi presenti nel volume illustrano: la fortuna del Rinascimento da Vasari ai neoclassici (Ambrosini Massari), da Goethe a Berenson (De Carolis), e nella fotografia (Cassanelli), i trattati tecnici (Laskaris),
il tramonto della miniatura (Mulas) e la prepotente diffusione delle stampe, veicolo di divulgazione della maniera dei grandi artisti (Aldovini), la doppia valenza della terracotta, economico materiale di
riproduzione seriale e reinvenzione di una tecnica classica (Donato), l’arte vista dai letterati (Ruffino), la nascita di nuove iconografie sacre (Argenziano) e il comparire di nuovi media grafici (Gabrieli),
l’esponenziale diffusione del modello a pianta centrale (Davies) e i complessi rapporti con l’architettura classica, visti dall’osservatorio lombardo (Repishti), nonché il radicale rinnovamento dell’architettura militare (Viganò), il superamento di una conquista-simbolo
come la prospettiva (Villata) e l’evoluzione della forma-pala d’altare (Cavalca), e infine aperture sulle rotte della pittura tra Fiandre e Mediterraneo (Natale), sui rapporti tra Italia e Francia (Fagnart) e una robusta sintesi del «Rinascimento» tedesco (Zuffi ).
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Anteprima del libro
L'arte rinascimentale nel contesto - Edoardo Villata
INTRODUZIONE
Edoardo Villata
La presente silloge di saggi si pone sulla scia di una precedente e fortunata opera collettiva proposta dallo stesso editore: L’arte medievale nel contesto curata nel 2004 da Paolo Piva.
Al tempo stesso questo volume si inserisce in una tipologia saggistica non inusitata, specie in area anglosassone (penso a esempio a Reframing the Renaissance, a cura di Claire J. Farago, 1998). Tuttavia in questa occasione si è voluto proporre qualcosa di piuttosto diverso. In un certo senso si è fatta una scelta più limitata quanto a interdisciplinarità e ad ampiezza, anche geografica, dello sguardo (che rimane essenzialmente incentrato sull’Italia e da lì si allarga poi con alcune campionature sull’Europa); ma si è voluto offrire uno spettro quanto possibile ampio, entro i limiti anche materiali di una pubblicazione come quella che si sta presentando, anche e soprattutto dal punto di vista metodologico.
Il «Rinascimento» è, a ben vedere, l’unica epoca della storia della cultura occidentale postclassica ad aver avuto una idea di sé in termini, per così dire, assertivi: il Medio Evo non aveva alcuna autocoscienza come «età di mezzo», né un artista della seconda metà del Seicento avrebbe mai immaginato di essere un esponente del «Barocco». Viceversa un umanista, e spesso anche un artista italiano «rinascimentale» aveva coscienza, persin più netta di quanto retrospettivamente paia a noi, di appartenere a una età per più versi nuova. Serve quindi anzitutto esplorare come il periodo grosso modo compreso tra il secondo quarto del XV secolo e la prima metà del XVI ha pensato e definito sé stesso. Lo possiamo fare, quasi antonomasticamente, indagando negli scritti di Ghiberti, Alberti, e poi Leonardo e soprattutto Vasari, la cui opera è diventata inevitabilmente canonica. Tutti gli autori citati sono toscani, e questo spiega molto dell’idea tuttora presente nella storiografia non italiana e nella cultura popolare del «primato di Firenze»; ma anche l’idea di «Primo Rinascimento» e «pieno Rinascimento» o «High Renaissance» deve molto alla geniale partizione cronologica vasariana. Ma se ci si pensa, persino la divisione della materia in molti manuali, da quelli nobilissimi (tale il Medioevo di Pietro Toesca), fino ai più banali, non solo inizia spesso dalla Toscana la propria trattazione, ma suddivide la materia in architettura, scultura e pittura, riproducendo così l’ordinamento dell’introduzione tecnica all’edizione del 1568 delle Vite.
Naturalmente l’epoca rinascimentale è, tanto per le arti figurative quanto per la letteratura, policentrica e polifonica: coloro che affrontano la questione della lingua
, come Castiglione e Bembo, sono – mantovano uno, veneziano l’altro, e su posizioni opposte sul piano linguistico – gli stessi che poi frequentano artisti e scrivono di arte. Del resto mai si era scritto di arte e di artisti come nel XVI secolo, e ben oltre la trattatistica professionale. Se nel Trecento le menzioni di Giotto, Cimabue, Oderisi o Simone Martini da parte di Dante, Petrarca e Boccaccio erano eccezioni in qualche misura legate alla eccezionalità degli scrittori, esse si infittiscono nel secolo successivo per diventare a loro volta un topos nel Cinquecento: si sono letteralmente costruite carriere di storici dell’arte sulla ricerca di citazioni di artisti nelle opere letterarie del Rinascimento.
Se si dovrà resistere alla tentazione di leggere le preferenze per questo o quell’artista alla luce delle scelte linguistiche degli scrittori (un esempio oltremodo seducente potrebbe essere rappresentato dall’endiadi Teofilo Folengo/Gerolamo Romanino, o a un livello più modesto e provinciale tra il macheronico astigiano Gian Giorgio Alione e le scelte formali filocremonesi del pittore, astigiano anche lui, Gandolfino da Roreto), va altresì notato che la stessa trattatistica diventa, allo scadere del Cinquecento, affare non più riservato solo all’interno delle botteghe. Tale il caso del trattato di Domenico Pino, un manifesto di allineamento alla nuova politica delle immagini controriformata (esemplarmente rappresentata dal cardinale Paleotti a Bologna), e per certi versi anche del milanese Giovan Paolo Lomazzo, che inizia come pittore, ma che scrive i suoi testi specificamente artistici (Trattato dell’arte della pittura, 1584; Idea del Tempio della Pittura, 1590) quando ormai, a causa anche della cecità che lo aveva colpito, si era dedicato in pianta stabile all’attività letteraria, sia in volgare sia in dialetto, diventando anzi nabàd (abate) dell’Accademia della Valle di Blenio, i cui aderenti poetavano in lingua «facchinesca».
Queste sono le trame, ben più ampie e ricche di intrecci di quanto la mia povera sintesi possa restituire, che il lettore incontrerà nei saggi di Annamaria Ambrosini Massari e Alessandra Ruffino; mentre Caterina Zaira Laskars affronta il tema della trattatistica specificamente tecnica che per molto tempo rappresenta la voce «letteraria» degli artisti.
Per arrivare a intravedere l’autocoscienza (una parola il cui senso intendo in senso specificamente hegeliano, come autocomprensione di un Geist di radicale immanenza) di quest’epoca bisogna prima, in un impegnativo ma necessario lavoro a ritroso, ripercorrere le vie attraverso le quali il concetto di «rinascimento» si è consegnato alla nostra cultura. Indubbiamente Vasari, il cui apporto culturale non è possibile sopravvalutare, rappresenta il perno intorno a cui tutto ruota: da un lato, lo si è visto, è il grande sistematore del concetto stesso di «rinascenza», ma dall’altro è l’interlocutore con cui tutti gli intellettuali europei dei secoli successivi hanno fatto i conti, sia assumendolo come indiscusso punto di riferimento, sia aggredendolo polemicamente. Indubbiamente è ancora lui – letto con le lenti, potentissime anche se molto spesse, di Winckelmann – a guidare, almeno inizialmente, la curiosità di Goethe, che però, immerso di persona nel milieu italiano, saprà non aprire nuove vie alla ricerca antiquaria e storicoartistica, ma sicuramente lasciar spazio a una sensibilità più aperta (anche se sostanzialmente sorda ancora all’arte medievale); anche Stendhal, storico dell’arte dilettante, rimane sostanzialmente un «vasariano». Siamo però ormai negli stessi anni di una ricerca destinata a cambiare in profondità la percezione dell’arte italiana e della metodologia storica, che da successione di vite e cataloghi di artisti diventa storia di scuole regionali quando non cittadine– o almeno tale modello si affianca a quello tradizionale. La Storia pittorica della Italia di Luigi Lanzi, che esce per la prima volta nel 1793 e in edizione definitiva nel 1808, rappresenta l’allineamento della storia dell’arte nei confronti delle ricerche storiche e letterarie dell’età dei lumi, antonomasticamente rappresentate da Ludovico Antonio Muratori. Non è poco indicativo che il sottotitolo dell’opera parli di trattazione dal Risorgimento delle arti belle ai giorni nostri, intendendolo, qui ancora vasarianamente, come periodo a partire dalla fine del XIII secolo. La variante lessicale «Risorgimento», benché utilizzata anche, per la scultura, da Leopoldo Cicognara, naturalmente non avrà vita lunga, venendo completamente assorbita dalla sfera politica (alla quale l’aveva del resto già legata Vittorio Alfieri parlando del «nostro imminente risorgimento»).
Credo che l’onda lunga vasariana agisca comunque, persin dentro e ovviamente oltre Lanzi, nel mantenere il Rinascimento, e particolarmente quello toscano, come palestra privilegiata della nascente connoisseurship, tra fine Ottocento e inizio Novecento (nonostante la magnifica anomalia rappresentata da Giovanni Battista Cavalcaselle). A dire la verità, quest’ultimo fenomeno (che sostanzialmente, semplificando al massimo, possiamo dire che segue la linea Ruhmor-Morelli-Berenson, con appunto Cavalcaselle, e Wilhelm von Bode sul versante sculturale, a fare da alternative) nella sua fase pionieristica privilegia ancor più i primitivi, cioè gli artisti anteriori alla canonica triade della «maniera moderna» costituita da Leonardo, Michelangelo e Raffaello. In questa scelta, agli antipodi dell’estetica vasariana, sta una variante di gusto a livello estetico, storiografico e filosofico emersa a cavaliere della metà del XIX secolo, nella temperie del Romanticismo al tramonto. Sia il movimento artistico e confessionale dei Nazareni tedeschi e dei Preraffaelliti inglesi, sia la classica indagine storiografica di Burckhardt (1860, appena dopo quella, meno fortunata, del francese Jules Michelet), non meno della sensibilità vittoriana, tanto in estetica (Pater) quanto in letteratura (Forster) hanno contribuito a questo stato di cose. Ne siamo ancora toccati noi: basti pensare al ruolo esagerato che la cultura di massa tuttora tributa a maestri come Botticelli, a favore di altri non meno o addirittura più grandi ma non altrettanto popolari. La connoisseurship, poi, si eleva a scienza grazie anche alla nuova (e noi sappiamo, relativa) oggettività consentita dalle riprese fotografiche rispetto alle riproduzioni mediate disponibili fino alla metà del XIX secolo.
Di questa complessa stratificazione danno conto, con la dovuta complessità di significati, i saggi di Francesco De Carolis e di Roberto Cassanelli (ma anche di Ambrosini Massari, dato che le interconnessioni tematiche, fortunatamente, agiscono strettamente nelle pagine di questo libro).
I «Modelli» rappresentano una delle possibili chiavi attraverso cui leggere il Rinascimento. Modelli derivati dall’antico, non solo nelle arti figurative ma anche in architettura, dove si impone gradualmente, con una vera e propria esplosione nel XVI secolo, la forma della chiesa a pianta centrale. Come dimostra Paul Davies, si tratta in realtà di un felice equivoco: la pianta centrale non era solitamente usata dagli architetti romani per i templi, ma per gli impianti termali. La forza evocativa del pantheon era però così forte da trasmettersi sulla lettura di tutti gli altri edifici a pianta centrale di epoca imperiale nota agli antiquari e architetti rinascimentali.
Poi ci sono i modelli in circolazione, che mai come in questo periodo si moltiplicano: come la stampa permette una più rapida diffusione delle idee e un accesso a una cultura medio-alta da parte di categorie che in precedenza ne sarebbero state sostanzialmente escluse (la principale vittima di questa straordinaria invenzione fu la miniatura, il cui splendido, composito e socialmente stratificato tramonto è qui tratteggiato da Pier Luigi Mulas), così le incisioni si impongono come veicolo delle invenzioni dei grandi maestri, da Mantegna a Dürer a Raffaello: le strategie messe in atto da questi maestri, per salvaguardare la proprietà delle loro idee formali nel momento stesso in cui si preoccupano della loro diffusione capillare rappresenta il punto di partenza del moderno concetto di copyright, come spiega Laura Aldovini. Va peraltro precisato che tale sforzo si concentra sul commercio delle stampe, cercando di evitare la proliferazione dei falsi più o meno conclamati, non della disponibilità delle invenzioni per le imprese più diverse (dai cicli di affreschi alle arti suntuarie). Non meno pervasivi sono i modelli veicolati dalle decorazioni in terracotta, che nel corso del XV secolo virano, specie in area padana, da motivi ornamentali tardogotici a temi di inappuntabile tenuta antiquaria; del resto all’ottima resa a fronte di un costo contenuto per gli ornati d’architettura fa riscontro la scoperta delle possibilità propriamente sculturali (impreziosite da un plusvalore ideologico che vede la scultura fittile come una delle tante «rinascite» di una tecnica antica). Si tratta di una vera epopea che dagli iniziali capolavori di Donatello e dalla fortunatissima invenzione robbiana della terracotta invetriata arriva fino a Gaudenzio Ferrari