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Falene
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Falene

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Cos'hanno in comune una giovane zingara, un metronotte con una dipendenza da psicofarmaci e un impiegato di banca costretto ad una vita insignificante?

Sono gli unici a vedere l’eclissi che improvvisamente oscura il sole gettando la città in una notte oscura e senza fine. Mentre il Presidente della Nazione descrive entusiasta la ripresa economica e le persone continuano meccanicamente la loro vita senza mai alzare gli occhi al cielo, attirati dalle sfavillanti luci dei negozi e del centro commerciale, pervasi da un’irrefrenabile smania di acquisti, intorno a loro tutto muore e appassisce e il freddo diventa insopportabile per la mancanza di luce, ma né le televisioni né giornali ne danno notizia.

I tre, trasformati in improbabili ed involontari eroi, si trovano così a vagare nell’oscurità pulsante, inseguiti da animali impazziti e sadici cacciatori di topi che pattugliano le strade in cerca dei pochi che riescono a scorgere l’eclissi campeggiare nel cielo.

Falene è una storia di allucinante onirismo ed acuto pessimismo dietro la quale si cela un cuore nero, grondante sangue, in cui riecheggiano la fantascienza apocalittica degli anni '70, la feroce critica consumistica cara al George Romero di Zombi, la parabola politica del John Carpenter di Essi Vivono e un’acuta osservazione dell’essere umano, falena intrappolata in un meccanismo di asfissiante mestizia.

La storia che Matteo Mantero mette in scena denota uno sguardo tagliente ed acuminato, in grado di elevare un’opera di "genere" ad altezze inaspettate. Per questo Falene inquieta, spaventa, pone scomodi interrogativi.

Un lavoro di grande tenuta narrativa, che viaggia spedito come un treno, trasportandoci in un mondo sempre più ammantato di tenebre.

LanguageItaliano
Release dateSep 25, 2018
ISBN9788869344701
Falene
Author

Matteo Mantero

Matteo Mantero è nato a Savona nel '74 e vive a Roma. Studia chimica e poi biologia all'Università di Genova, abbandona gli studi ad un passo dalla laurea per dedicarsi alla scrittura.  Nel 2013 è eletto alla Camera dei Deputati con il Movimento 5 Stelle di cui diventerà vicepresidente, nel 2017 è rieletto Senatore. La sua azione politica si concentra sulla tutela dell’ambiente, della salute e dei diritti. Si distingue per il contrasto all’azzardopatia e la lotta per la liberalizzazione della Cannabis Terapeutica. È sua la legge sul Testamento Biologico approvata nel 2017. La passione per la scrittura lo ha sempre accompagnato. Scrive racconti sin da ragazzo ed ha vinto diversi premi: il Concorso Città di Savona, I Classificato al Concorso Letterario "Il Camaleonte" di Chieri e I Classificato al Premio Letterario “Graphie”. È finalista al Concorso “Il Corto” di Varese e al “Fi-Pi-Li Horror Festival” di Livorno. Nel 2004 ha pubblicato la raccolta di racconti Viva la Revolución. I suoi racconti sono stati pubblicati in alcune riviste e antologie. Falene è il suo primo romanzo.

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    Book preview

    Falene - Matteo Mantero

    MATTEO MANTERO

    Falene

    Fantascienza

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, settembre 2018

    Isbn 9788869344701

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Disegno di copertina: Paolo Niutta

    www.capselling.it

    Matteo Mantero

    Matteo Mantero è nato a Savona nel ‘74 e vive a Roma.

    Studia chimica e poi biologia all’Università di Genova, abbandona gli studi ad un passo dalla laurea per dedicarsi alla scrittura. Fa i più svariati lavori: bagnino, istruttore di nuoto, barista, arredatore, venditore e per un paio d’anni scrive per il quotidiano SavonaNews.

    Nel 2013 è eletto alla Camera dei Deputati con il Movimento 5 Stelle di cui diventerà vicepresidente, e nel 2017 è rieletto Senatore.

    La sua azione politica si concentra sulla tutela dell’ambiente, della salute e dei diritti. Si distingue per il contrasto all’azzardopatia e la lotta per la liberalizzazione della Cannabis Terapeutica. È sua la legge sul Testamento Biologico approvata nel 2017.

    La passione per la scrittura lo ha sempre accompagnato. Scrive racconti sin da ragazzo ed ha vinto diversi premi: il Concorso Città di Savona, I Classificato al Concorso Letterario Il Camaleonte di Chieri e I Classificato al Premio Letterario Graphie. È finalista al Concorso Il Corto di Varese e al Fi-Pi-Li Horror Festival di Livorno.

    Nel 2004 ha pubblicato la raccolta di racconti Viva la Revolución. I suoi racconti sono stati pubblicati in alcune riviste e antologie.

    Falene è il suo primo romanzo.

    Il sole si alzò nel cielo scaldando via la notte, schiarì le strade, colorò la terra e i muri grigi dei palazzi. Arrivò al suo apice, facendo sudare i pochi rimasti per strada, quindi iniziò a scendere, cauto, fino a scomparire dietro l’orizzonte dei palazzi, per l’ultima volta.

    Prologo

    Ignorato dai più il sole si alzò nel cielo scaldando via la notte, schiarì le strade, colorò la terra e i muri grigi dei palazzi. I suoi raggi furono catturati dalla clorofilla delle foglie, per legare atomi di carbonio e idrogeno in forma di fibre e zuccheri e rimisero in moto il sangue congelato delle lucertole.

    L’astro arrivò al suo apice, facendo sudare i pochi che erano rimasti per strada, quindi iniziò a scendere, cauto, fino a scomparire dietro l’orizzonte dei palazzi, per l’ultima volta.

    L’ultima alba

    Come ogni giorno, prima dell’alba, il metronotte posteggiò l’utilitaria di fronte al palazzone grigio. Il buio non si era ancora sciolto, ma già c’erano i primi movimenti, un paio di auto lanciate sulla strada sgombra, un uomo mingherlino e spettinato con un vecchio lupo al guinzaglio, il camion dei rifiuti. La città si sgranchiva, lui si ritirava.

    Salì i cinque piani che lo separavano dal monolocale in cui abitava, la solita stanchezza gli prese le gambe e poi le braccia, facendo ogni gradino più alto.

    Entrato in casa si trovò di fronte un rubicondo venditore che lo invitava a provare gratuitamente il nuovo deodorante per auto ai profumi della natura. Il metronotte sbatté le palpebre, non ricordava di aver lasciato il televisore acceso, a dire il vero non lo usava quasi mai. Prese il telecomando e cercò di spegnerlo, ma il venditore cicciottello insistette nel proporgli un nuovissimo dentifricio sbiancante. Poteva alzare ed abbassare il volume, ma non riusciva a cambiare canale o spegnere l’apparecchio. Si avvicinò e tirò la spina, lo schermo diventò una macchia grigia, gli sembrò di sentire il presentatore sussurrare "non farlo". Non se ne curò, aveva certamente inteso male, cominciò a spogliarsi lentamente. Infilò la pistola ed il piccolo taser nel cassetto della scrivania, chiuse con la chiave e la nascose nel taschino del giubbotto, come gli avevano insegnato al corso sulla sicurezza. Slacciò gli anfibi, sistemò l’uniforme nell’armadio, annusò i calzini per capire se andassero bene ancora per un giorno, poi si coricò. Aveva chiuso gli occhi da qualche minuto senza riuscire a prendere sonno, come ogni mattina, quando ricordò di non aver tirato le imposte. Si alzò malvolentieri, scostò le tende e aprì la finestra. L’aria fresca del mattino lo investì, si allungò oltre il davanzale di marmo ingiallito e sbloccò le persiane. Da quella posizione guardò il cielo, era cupo, come se la notte fosse ancora al suo apice e non vicina al termine, le luci dei lampioni erano accese, le auto e le persone si muovevano frenetiche, tutto era macchiato di buio.

    Una parte della sua coscienza gli disse che qualcosa non andava, che l’alba avrebbe dovuto affacciarsi da un pezzo. Non si fermò a pensarci, sentiva gli occhi bruciargli per la stanchezza. Chiuse le imposte, ingollò un’altra pastiglia di Roipnol e si mise a letto. Sognò un manto nero che copriva ogni cosa.

    L’impiegato di banca bloccò la sveglia qualche minuto prima che iniziasse a suonare. Si stropicciò gli occhi, ascoltò per un poco il respiro raschiante della moglie stesa accanto a lui, poi scivolò giù dal letto badando a non svegliare la donna.

    La stanza era fredda nonostante il riscaldamento acceso. L’impiegato di banca rabbrividì nel pigiama a scacchi, lanciò un’occhiata alla sagoma ingombrante della moglie sotto le coperte, quindi si avviò al bagno, strascicando i piedi per non fare rumore. Pisciò da seduto, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata alle mani. Poi si alzò e abbassò la tavoletta. Si lavò rapidamente il viso con l’acqua fredda, si vestì e si diresse in cucina.

    Il vecchio lupo lo aspettava scodinzolando e saltando, l’impiegato di banca gli grattò la testa, mise il guinzaglio, prese i sacchettini per la cacca e uscì.

    Zagor, il cane, guaì infastidito da qualcosa bloccandosi appena fuori il portone. L’uomo strattonò leggermente il guinzaglio e si avviò curvo, gli occhi ancora stretti.

    Sulla strada poche auto sparate con la fionda nel buio totale. Seguì le pozze di luce attorno ai lampioni fino al piccolo cancello di ferro che delimitava l’area canina.

    «Buongiorno», disse al vecchio barbone che di solito dormiva sulla panchina del parco. Lo incontrava ogni mattina e gli allungava una moneta per rasserenare la coscienza. Senza alcun motivo il vecchio colpì la moneta facendola volare e gli inveì contro. Se ne andò come un folle, borbottando ad alta voce. L’impiegato di banca raccolse la moneta e lo osservò allibito allontanarsi, quindi si voltò con una scrollata di spalle, spinse il cancelletto ed entrò nel parco.

    Sciolse subito Zagor, il cane non corse a rotolarsi nell’erba come era solito fare, gli restò vicino annusando l’aria guardingo.

    «Che c’è? – domandò l’impiegato di banca – Vai, corri!»

    Lanciò un bastoncino ritorto ma il cane non si mosse.

    «Fai come vuoi» disse, si sedette sulla panchina, tirò su il bavero del cappotto e chiuse gli occhi. Di lì a poco avrebbe iniziato a schiarire, il sole gli avrebbe fatto le palpebre rosa e un’altra giornata sarebbe iniziata, nella solita, identica maniera.

    Si assopì quasi subito, riscuotendosi solo quando sentì il cane uggiolare; aprì gli occhi stranito. Era ancora buio.

    Oltre il profilo seppia dei palazzoni scorse una corona di luce bianca che circondava una palla di pece. Sbatté le palpebre confuso. Gli occhi iniziarono a lacrimare, il cane ringhiò sommessamente.

    «È un’eclissi, nulla di cui aver paura – disse tirandolo a sé e battendo il palmo sul fianco della bestia – Non la guardare, fa male agli occhi.»

    Rientrò in fretta, la città si rimetteva in moto, come se nulla fosse.

    Una volta in cucina accese la radio per sentire il notiziario del mattino. La macchina elettrica per il caffè, programmata per quell’ora, stava spandendo per la stanza un aroma intenso. L’impiegato di banca prese il latte dal frigo, sistemò il succo di arancia sul tavolo, versò un po’ troppi croccantini nella ciotola di Zagor e si mise a tavola.

    La moglie arrivò pochi minuti dopo, accese il televisore alzando il volume fino a coprire quello della radio, quindi prese la testa di Zagor tra le mani facendosi leccare la faccia. Si mise a tavola senza lavarsi le mani.

    Lui si alzò per spegnere la radio con fare indispettito, ma lei non diede segno di essersene accorta.

    «Dove sono i miei cereali dietetici?» domandò la donna.

    L’impiegato di banca le passò la scatola azzurra con la silhouette di una ragazza molto in forma disegnata su. La moglie riempì la sua ciotola fino all’orlo, aggiunse un paio di cucchiai di preparato al cioccolato e coprì tutto con il latte. Iniziò a mangiare con suono non dissimile da quello che stava facendo Zagor con il muso nella ciotola.

    «Hai visto?» domandò lui.

    «Cosa?» chiese lei senza distogliere lo sguardo dalla tv.

    «L’eclissi.»

    «Che?»

    «L’eclissi! C’è una stranissima eclissi di sole, non vedi che è ancora tutto buio?»

    La moglie tirò su la testa e si voltò verso la veranda.

    «Sarà cattivo tempo» disse.

    «No – insisté lui – L’ho vista mentre portavo fuori Zagor, un’eclissi di sole. Ma è molto strano, non c’è la luna piena oggi e di solito non durano così a lungo.»

    «Ma che sei diventato astrologo?»

    «...astronomo...»

    «Quel che è.»

    «No, ma è una cosa... risaputa.»

    Lei smise di masticare per un attimo, prese il telecomando e cambiò rapidamente canale, in cerca di un notiziario. Si fermò sulla rassicurante immagine di una giornalista bionda che con un sorriso affabile annunciava a tutti l’inizio di una magnifica giornata.

    «Visto?» fece la moglie dell’impiegato. «In TV non ne parlano. Non è nulla. Cattivo tempo, passerà.»

    Le porte scorrevoli si aprirono pochi secondi dopo il fermo della vettura vomitando fuori centinaia di passeggeri accaldati. Le persone in attesa sulla banchina dovettero allargarsi in due ali per farli passare, ma continuarono a spingere e sgomitare per non perdere posizione, tra di loro la ragazza scura che trattenne il respiro per non sentire l’odore di sudore e colonia dell’uomo grasso che la stava letteralmente schiacciando. I passeggeri sulla banchina si mossero e la ragazza si lasciò trascinare a bordo con il piccolo coltello stretto in pugno.

    Le porte si chiusero tagliando fuori chi non aveva spinto abbastanza e la metro partì sibilando. L’uomo in carriera dovette aggrapparsi ad un palo sudicio per non cadere e le falde del bel soprabito si scostarono mostrando i pettorali gonfi costretti in una camicia bianca inamidata. Con la destra reggeva una ventiquattrore in pelle marrone. Il ragazzo con la treccia cominciò a suonare la sua fisarmonica mentre il fratellino con il moccolo al naso tendeva un bicchiere deformato della Mc Dirt’s verso i passeggeri per raccogliere qualche spicciolo. L’uomo in carriera fece un passo indietro per non farsi toccare dal bambino moccoloso. Faceva caldo, il ragazzo con la treccia suonava una canzone natalizia, l’aria era pesante.

    La ragazza scura si fece vicino all’uomo con la 24ore strusciando il fianco contro la sua patta. Lui non disse nulla, non cercò di scostarsi, semplicemente guardò altrove. La ragazza si girò un poco in modo che il rigonfiamento nei pantaloni dell’uomo premesse contro le sue natiche di quindicenne. Poi, con la lama, praticò un taglio a L nella fodera simil seta del soprabito Ralph Lauren. Il portafoglio le cadde in mano. La metro si fermò con un sussulto, le porte si aprirono, chi doveva scendere scese, chi doveva salire salì. La ragazza si allontanò lungo la banchina.

    Entrò in fretta nel bagno pubblico e si chiuse la porta alle spalle. C’era puzza di orina e disinfettanti, la ragazza fermò la porta con il cricchetto e aprì il portafogli. Dentro c’erano una decina di banconote e qualche carta di credito, le raccolse, poi controllò negli altri scomparti. Trovò un profilattico, qualche spicciolo, la carta di identità; l’uomo aveva trentanove anni, faceva l’agente immobiliare. Stracciò il documento, giusto per dispetto, e lo lasciò cadere, assieme al portafogli di finto coccodrillo, vicino alla tazza. Tolse alcune banconote dalla mazzetta e le nascose nelle mutandine, erano fredde a contatto con la pelle. Le altre le arrotolò attorno alle carte di credito e le infilò nell’anfibio. Osservò per un attimo la fototessera mezzo strappata sul pavimento bagnato. L’uomo era rasato e ben pettinato, aveva un sorriso impacciato, di quelli che si fanno davanti all’obiettivo di una macchina automatica. La ragazza sputò la gomma alla fragola nel cesso, tirò la catena e uscì lasciando la foto ad arricciarsi sulle piastrelle umide del bagno.

    Le vetture continuarono a fermarsi e partire per tutta la mattina. Persone entravano e uscivano, vecchi, ragazzi, uomini, donne, scuri, chiari con i capelli colorati o completamente glabri; si alternavano sulla banchina, sotto le luci artificiali, osservando inebetiti gli schermi pubblicitari, con le borse incustodite, le tasche gonfie.

    Erano da poco passate le dodici quando la ragazza si lasciò portare dalle scale mobili verso l’aria aperta. L’aspettavano la matrigna e il vecchio, pronti a raccogliere il frutto del suo lavoro. Il ragazzo con la lunga treccia di capelli scuri e il fratellino moccoloso stavano già su. Qualcosa di anomalo vagava nell’aria, da principio non le riuscì di capire cosa.

    «Quanto hai fatto?» domandò il vecchio. I tre incisivi superiori, gli unici denti che aveva in bocca, ignudi delle gengive, dondolavano ad ogni sillaba.

    La ragazza tirò fuori l’involto di banconote e carte dallo stivale e lo passò al vecchio che lo fece sparire nella tasca interna del cappotto.

    «È tutto, sei sicura?»

    Lei annuì decisa, aveva imparato a mentire guardandolo negli occhi.

    Il vecchio le diede una banconota perché comprassero qualcosa da mangiare e una pacca sul sedere, quindi si allontanò con la matrigna.

    Pochi minuti dopo i ragazzi stavano su uno scalino con un hamburger tra le mani.

    La ragazza si guardava attorno spaesata, tutto le pareva più cupo.

    «C’è qualcosa che non va» borbottò all’orecchio del ragazzo con la treccia.

    Lui alzò le spalle continuando ad ingozzarsi meccanicamente.

    «No – rispose – è buono.»

    La ragazza si voltò verso il dehors del caffè dove il vecchio stava seduto con la matrigna. Un’auto grigia si era fermata poco più avanti, ne erano scesi alcuni ragazzi che si erano accostati al tavolo del vecchio. L’uomo fece cenno al più grande di sedersi e quello obbedì, gli altri gli si fecero attorno. La ragazza li osservò per un po’, il ragazzo parlava, lanciando spesso occhiate a compagni in piedi dietro di lui, il vecchio annuiva. D’un tratto si voltò verso di lei, fissandola negli occhi, sorrise mostrando i denti penzoloni e batté l’indice sull’orologio d’oro al polso sinistro, quindi tornò al suo interlocutore.

    «Finite di mangiare – disse la ragazza scura agli altri due – dobbiamo scendere. E tu, pulisciti il naso.»

    Poi chiuse gli occhi, alzò il viso al cielo e appoggiò la nuca al muro di cemento. Quando li riaprì si trovò ad osservare un grande buco nero circondato da un’aura di un bianco accecante. Abbassò lo sguardo sbattendo le palpebre. Lì avrebbe dovuto starci il sole.

    Cercò di alzarsi, ma sentiva le gambe strane, come se avessero smarrito l’energia, chiuse forte gli occhi e li riaprì, molte volte, ma il sole insisteva a non ricomparire. La sberla arrivò inaspettata, la ragazza si voltò con le lacrime agli occhi e vide la matrigna china su di lei. Il vecchio stava in piedi poco più indietro, l’auto grigia era ripartita.

    «Ti ha detto di tornare al lavoro – fece la donna – Vuoi che ti faccia riprovare la cinghia?»

    Lei cercò di alzarsi ma le gambe non le diedero retta.

    «Il sole – disse alla donna – Non vedi? Il sole...»

    «Ma che dici? Muoviti» fece la matrigna dandole una spinta, la ragazza perse l’equilibrio e finì per terra a gambe larghe.

    «Che hai lì?» sibilò il vecchio indicando il rigonfiamento nei leggings neri.

    «Niente – disse lei cercando di tirarsi in piedi – Non ho niente.»

    «Lo vedremo.»

    In un attimo le fu addosso, l’immobilizzò schiacciandole la mano sinistra sul petto. Infilò le dita fredde sotto il bordo dei leggings e delle mutandine, li abbassò con forza fino a metà coscia, graffiandole il pube.

    «Lasciami stare – gridò lei – lasciami stare.»

    I ragazzi la guardavano ridacchiando, i passanti tirarono dritto.

    «Ecco cosa nascondevi, puttanella» fece il vecchio prendendo il rotolo di banconote nascosto negli slip.

    Si chinò su di lei, portò il rotolo sotto il naso e aspirò con forza, poi scoppiò a ridere con la bocca sdentata a pochi centimetri dal viso della ragazza.

    «Ne hai nascosti altri?»

    «No» fece lei girando la testa di lato. Sentiva il puzzo del suo fiato.

    «Non mentire, è peggio, lo sai.»

    «No.»

    «Lo vedremo. Stasera te lo chiederò di nuovo, con la cinghia.»

    Si alzò lasciandola distesa, con i pantaloni abbassati e se ne andò ridendo.

    «Andate a lavorare ora!» urlò la matrigna prima di seguirlo.

    La ragazza scura tirò su i pantaloni e si rannicchiò sull’asfalto decisa a non piangere. Dietro di lei sentiva i fratellastri parlottare e ridere. Si alzò in piedi e senza dire una parola mollò un ceffone al più grande dei due. «Scendete» disse. Lui la guardò con odio, ma obbedì.

    La ragazza li lasciò scendere, poi lanciò una rapida occhiata al nero sole sopra le loro teste, abbassò subito lo sguardo e corse a rifugiarsi nella la rassicurante luce artificiale della metropolitana.

    Il buio si scioglieva solo per poche decine di metri davanti ai fari tesi dell’auto, richiudendosi al suo passaggio come l’acqua scura di una pozza. L’impiegato di banca guidava chino in avanti, per vedere un poco più distante. Il sole cieco incombeva alla sua sinistra, apparentemente immobile.

    L’uomo con una mano reggeva il volante, con l’altra cercava freneticamente un notiziario radio che desse cenno del fenomeno.

    Il camion del latte gli si parò davanti all’improvviso, viaggiava a luci spente. L’impiegato di banca sterzò bruscamente per evitarlo e quasi urtò il SUV argento che lo stava sorpassando, anch’esso a luci spente. D’istinto schiacciò il freno e l’auto sbandò scodando sulla carreggiata. L’uomo tenne stretto il volante e chiuse gli occhi. L’auto si fermò appoggiandosi al guard-rail.

    Restò immobile, finché il respiro non fu tornato regolare, quindi riaprì gli occhi. Sulla provinciale le auto continuavano a correre a fari spenti, quasi invisibili nel buio.

    «Ma state impazzendo tutti?» urlò alle auto in corsa.

    Restò ancora per un poco aggrappato al volante, a guardare le auto a fari spenti comparire e scomparire nel buio, poi, con cautela, riprese la strada. Arrivò al lavoro con oltre mezz’ora di ritardo.

    Entrando in banca fu abbagliato dalle luci al neon, l’immagine di una giovane ragazza bruna gli sorrise dal grande poster sulla parete vicino l’ingresso, concedetevi la gioia del nuovo conto smart, consigliava a grandi lettere rosse.

    Tutto scorreva come al solito, i colleghi erano già dietro le scrivanie in attesa dell’apertura, il direttore nel suo ufficio, la guardia armata fuori dalla porta, i clienti accalcati all’ingresso, come se quello fosse il giorno migliore per effettuare un’operazione bancaria.

    Si sedette in fretta nel suo box, sistemò la cravatta osservando il proprio riflesso nello schermo ancora cieco del computer, controllò il fondo cassa, allineò i timbri, temperò le matite, quindi avviò il calcolatore elettronico e ruotò il cartello in modo che la scritta operativo fosse rivolta verso i clienti.

    «Buongiorno» salutò.

    L’uomo anziano che apriva la fila lo fissò come se fosse stupito di trovarsi lì.

    «Che posso fare per lei?»

    L’uomo lanciò un’occhiata attorno, stranito, fece un passo avanti e appoggiò le mani rugose al bancone. Teneva fra le dita un foglietto stropicciato, una lista della spesa forse, lo fissò per alcuni secondi.

    «Devo aprire un conto» disse infine alzando lo sguardo.

    «Certo. Mi dovrebbe dare i suoi dati...»

    Senza dire una parola l’uomo estrasse dalla tasca del cappotto una busta ingiallita piegata in due e chiusa con un grosso elastico verde, la posò sul ripiano del bancone e, con movimenti incerti delle mani grinzose, cercò di aprirla, aveva dita grandi ma ossute, impacciate da un lieve tremolio. L’elastico molto spesso e ben tirato opponeva una certa resistenza che minacciava di rovinare la busta, cosa che pareva indispensabile evitare. Il vecchio lottò per un poco con l’involto, poi d’improvviso rinunciò. Passò la busta ancora chiusa dall’elastico sotto il vetro dello sportello in modo che l’impiegato potesse prenderla, le unghie dell’indice e del medio della mano destra macchiate del giallo dalla nicotina.

    L’impiegato di banca raccolse la busta e la liberò con delicatezza dall’elastico, all’interno c’erano i documenti del vecchio e di sua moglie e diverse banconote. L’impiegato le contò poggiandole una ad una sul ripiano in finto larice del bancone in modo che il cliente potesse controllare.

    «Sono novecentonovanta euro» disse alzando lo sguardo.

    «E un centesimo» corresse il vecchio.

    L’impiegato di banca controllò nella busta trovando un centesimo di rame.

    «...e un centesimo, li vuole versare sul nuovo conto?»

    «Sì.»

    «Bene, questa è la cifra esatta, al centesimo, per avere diritto alla nostra promozione smart.»

    Il vecchio annuì. Accettò di includere tutti gli optional del conto, dalla carta gold, all’home-banking, senza neppure informarsi sul costo di quei servizi, quindi rimise la busta vuota in tasca e si allontanò.

    La signora castana che era in coda fece un passo avanti e appoggiò le piccole mani al bancone.

    «Buongiorno» salutò l’impiegato di banca.

    «Buongiorno.»

    Le dita minute della donna tamburellavano nervosamente sul bancone, le unghie smaltate di bordeaux emettevano un picchiettio fastidioso colpendo il piano laminato.

    «Voglio aprire un conto» disse.

    L’impiegato inarcò le sopracciglia, la donna pareva avere molto fretta.

    «Subito signora...»

    «Ecco, bene, qui c’è il mio documento d’identità, ecco, il tesserino del codice fiscale, ecco e novecentonovanta euro e un cent. Ecco.»

    Il globo nero si distingueva nel buio solo per l’aura baluginante che la circondava. Adesso era alto nel cielo, sembrava enorme.

    Il metronotte lo fissava in piedi nel mezzo del parcheggio del Grande Centro Commerciale, le gambe leggermente divaricate, le mani affondate nelle tasche del giubbotto di pelle. Con la sinistra carezzava, attraverso il tessuto, il calcio della sua 38 special.

    Intorno a lui auto uscivano ed entravano dai parcheggi, signore spingevano carrelli carichi di spesa, o trascinavano bambini recalcitranti, ragazzi fumavano, mariti caricavano sacchetti gonfi nel portabagagli. Le auto si muovevano nel buio a fari spenti, come se l’oscurità che era calata sulla città non esistesse. Le persone gli scivolavano intorno, lo urtavano senza fare caso a lui.

    Un giovane brufoloso gli passò a fianco caracollando e l’uomo lo fermò stringendo la mano attorno al suo avambraccio. Il ragazzo lo guardò perplesso, il metronotte aveva gli occhi arrossati per aver osservato troppo a lungo la grande eclissi e le guance barbute coperte dalle lacrime.

    «Ehi!» fece il ragazzo cercando di liberarsi dalla presa.

    «Dove stai andando?» domandò il metronotte sfregandosi gli occhi doloranti con la mano libera.

    «Qui... qui al centro commerciale.»

    «E quella? Non ti preoccupi di quella?» indicò il cielo.

    «Che?»

    «Il sole, non vedi? L’ eclisse...»

    «Ma di che diavolo stai parlando? Tu stai fuori.»

    Il ragazzo si liberò con uno strattone e si allontanò borbottando.

    Il metronotte si voltò nuovamente verso il sole nero e gli occhi ricominciarono a lacrimare.

    Doveva comprare degli occhiali per le radiazioni, pensò. Distolse lo sguardo con riluttanza da quell’aura surreale e si diresse verso l’ingresso del centro commerciale. Con le dita ricominciò a tastare la rassicurante solidità del piccolo revolver attraverso la tasca del giubbotto.

    Le porte scorrevoli si dischiusero per farlo passare e il metronotte fu investito da luci artificiali e da una cacofonia di suoni. Una fila disordinata gli si parò davanti, ragazzi e ragazze per lo più, ma anche alcuni uomini, intasavano quasi completamente il corridoio formando un serpentone che s’insinuava nel negozio di videogames. Il metronotte fu tentato di mettersi in coda con loro, se erano tutti lì ci doveva essere qualcosa d’importante. Il ragazzo brufoloso che aveva fermato poco prima se ne stava in piedi dietro gli altri giochicchiando al cellulare.

    «Che succede?» domandò il metronotte appoggiando una mano sulla spalla del giovane per attirarne l’attenzione.

    «Ehi, ancora tu? Ma che vuoi da me?»

    «Voglio solo sapere che fate qui, tutti in fila.»

    «Ma che diavolo ti prende? Come che facciamo?»

    Il ragazzo aveva alzato il tono della voce.

    «E toglimi le mani di dosso o chiamo la sicurezza.»

    Alcuni degli altri ragazzi in coda si erano voltati. «Che succede? – borbottavano – Che fa?»

    «Smettila di strillare – fece il metronotte togliendo la mano – Ti ho solo fatto una domanda.»

    «Ma lo conosci?» domandò una ragazza minuta al giovane.

    «No, è un pazzo! Mi ha fermato nel parcheggio, diceva cose incomprensibili, mi ha messo le mani addosso.»

    «Ma che dici? Gli ho solo

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