Il Reparto numero 6
By Anton Čechov
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Scritto nel 1892, dopo il ritorno dell'autore da Sachalin (isola russa che ospitava una colonia penale, della quale scrisse un libro-inchiesta, L'isola di Sachalin, sulle disumane condizioni di vita dei forzati), "Reparto numero 6" è uno dei più famosi racconti di Cechov.
Aspra invettiva e critica sociale, allegoria sulla vita e la morte, ma anche della stessa Russia, è il resoconto delle condizioni manicomiali in un piccolo padiglione psichiatrico di un ospedale civile della Russia zarista, dove sono internate e rinchiuse cinque persone trattate come bestie.
Anton Čechov
Anton Čechov (29/01/1860-15/03/1904) è stato uno dei più grandi esponenti della letteratura russa. Scrittore introverso e drammaturgo eccelso, ha denunciato la società del suo tempo, in cui anche la vita intellettuale e letteraria ristagnano. Tra i suoi capolavori, modellati sul tragico quotidiano e sull'alienazione esistenziale: Il gabbiano, Zio Vanja, Le tre sorelle e Il giardino dei ciliegi.
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Book preview
Il Reparto numero 6 - Anton Čechov
© Bibliotheka Edizioni
Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma
tel: +39 06.86390279
info@bibliotheka.it
www.bibliotheka.it
I edizione, ottobre 2019
Isbn 9788869345784
e-Isbn 9788869345791
È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,
del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta
dell’editore e con citazione esplicita della fonte.
Progetto grafico e disegno di copertina:
Brozzolo Riccardo per Eureka3 S.r.l.
www.eureka3.it
Anton Čechov
Anton Čechov (29/01/1860-15/03/1904) è stato uno dei più grandi esponenti della letteratura russa. Scrittore introverso e drammaturgo eccelso, ha denunciato la società del suo tempo, in cui anche la vita intellettuale e letteraria ristagnavano.
Tra i suoi capolavori, modellati sul tragico quotidiano e sull’alienazione esistenziale, è obbligatorio ricordare Il gabbiano, Zio Vanja, Le tre sorelle e Il giardino dei ciliegi.
Una denuncia contro l’ignoranza e l’oscurantismo, un inno in favore del progresso, delle potenzialità della scienza e della medicina, contro l’esaltazione parossistica della natura e dell’ascetismo religioso.
- 1 -
C’è un piccolo padiglione all’interno dell’ospedale, circondato da un vero e proprio bosco di cardi, d’ortica e di canapa selvatica. Il tetto è tutto rugginoso, il comignolo per metà crollato, gli scalini alla porta d’ingresso sono ormai marciti e infestati d’erbaccia, e dell’intonaco non è rimasta che qualche traccia.
Il padiglione, con la sua facciata anteriore, guarda all’ospedale. Con quella posteriore si apre alla campagna, da cui è separato dal brunito recinto dell’ospedale irto di spuntoni. Questi, rivoltati all’insù, il recinto e il padiglione stesso hanno quell’aria particolare di squallore e desolazione che qui da noi in Russia è una caratteristica tipica degli stabilimenti ospedalieri e carcerari. Se non avete timore delle bruciature da ortica, inoltriamoci pure per l’angusto sentiero che conduce al padiglione, e osserviamo cosa vi accade dentro.
Dopo aver varcato la porta d’ingresso, penetriamo nell’atrio dove alle pareti e intorno alla stufa si ammassano autentiche montagne di rifiuti d’ospedale. Materassi, vecchie tuniche lacere, pantaloni, camiciotti rigati di blu, calzature logore ormai inutilizzabili; tutto questo sta lì ad imputridire in un ciarpame a mucchi, esalando un tanfo soffocante. Sul ciarpame, con la pipa tra i denti, se ne sta coricato il guardiano Nikita, un vecchio soldato in congedo dai galloni divenuti rossastri. Costui ha un viso aspro e allampanato, con certe ciglia corrucciate e rugose che lo fanno assomigliare ad un cane da pastore delle steppe. Ha il naso molto rosso. Di statura è alquanto minuto, secco e nervoso in apparenza ma dal portamento solido e con due pugni ben saldi. Egli appartiene a quella categoria di uomini ingenui, fiduciosi, disciplinati e ottusi, la cui unica passione è la cura che tutto sia in regola, e, sulla base di questa, si sentono legittimati a picchiare chiunque deroghi a questa regola. E Nikita picchia: in faccia, sul petto, sulla schiena, dovunque gli capiti, persuaso com’è che se non facesse così, le cose qui dentro non sarebbero in regola.
Più avanti, dopo l’atrio, si apre uno spazioso camerone che occupa l’intero padiglione, non contando l’atrio. Le pareti vi sono tinte d’un sudicio azzurro, e il soffitto è annerito come in una di quelle isbe fuligginose: questo dettaglio rende ben evidente che in questo ambiente, durante l’inverno, le stufe fanno fumo e l’atmosfera diventa asfissiante. Le finestre, dalla parte interna, sono deturpate da inferriate. L’impiantito è grezzo e irto di schegge. Predomina un tanfo di cavoli acidi, di bruciaticcio di stoppini, di cimici e di ammoniaca; e si tratta di un tanfo che in un primo momento produce su di voi un’impressione simile a quella che provereste entrando in un serraglio. Nel locale, poi, ci sono dei letti inchiavardati all’impiantito. Ed è su questi che siedono o stanno coricati degli uomini in camici da ospedale di colore turchino, con papaline all’antica sul capo. Sono i mentecatti. Ce ne sono cinque in tutto. Uno solo è di famiglia distinta, mentre gli altri appartengono al popolino. Il primo, partendo dalla porta, è un alto, macilento artigiano dai rossi baffi imponenti e dagli occhi piagnucolosi: sta lì seduto sostenendosi la testa e fissando sempre un punto. Nel registro dell’ospedale la malattia che lo affligge è definita ipocondria, pur se in realtà egli è affetto da paralisi progressiva. Giorno e notte non fa che crucciarsi scrollando la testa, sospirando, disegnando amari sorrisi. Egli partecipa raramente ai discorsi degli altri e non dà risposta alle domande che gli vengono rivolte. In maniera meccanica mangia e beve, quando gliene danno. A giudicare dal tormentoso, ininterrotto tossire, tenendo anche conto della sua magrezza e degli zigomi purpurei, deve essere affetto da un principio di tisi.
Dopo di lui viene un piccoletto vivace, irrequietissimo, un vecchietto con la barbetta a punta e i neri capelli crespi come quelli d’un negro. Nel corso della giornata costui passeggia avanti e indietro per il padiglione, passando da una finestra all’altra, oppure se ne sta a sedere sul suo letto con le gambe incrociate alla turca, e con l’instancabilità di un fringuello marino continua a fischiettare, a cantare e a squittire dal ridere. Quest’infantile allegrezza e vivacità di carattere, l’ometto la manifesta anche di notte quando si desta per recitare le sue preghiere, il che equivale a percuotersi il petto coi pugni e a segnare ghirigori col dito sull’uscio. Si tratta dell’ebreo Moisejka, un demente impazzito all’incirca vent’anni fa dopo che un violento incendio gli ebbe distrutto la sua fabbrica di cappelli. Di tutti gli inquilini del Reparto numero 6, a lui solo è concesso di uscire dal padiglione e perfino dal recinto dell’ospedale, per andare nella pubblica via. È questo un privilegio di cui gode da molto tempo, per via della sua anzianità di ricoverato e alla calma, innocua demenza che ne fa una specie di buffone della città, dov’è ormai un’abitudine vederlo per le strade fra un crocchio di monelli e di cani. Con quella sua tunichetta indosso, con quella grottesca papalina, in pantofole e, a volte, a piedi nudi, o addirittura senza calzoni, egli si aggira per le strade soffermandosi ai portoni e alle botteghe a chiedere un soldino. In un posto gli danno del kvas, da un’altra parte del pane, in un terzo un soldino, dimodoché fa ritorno al padiglione, ordinariamente, ricco e satollo. Non è raro però che tutto quanto riporta con sé, Nikita glielo toglie a suo uso e consumo. E quest’operazione è compiuta dal soldato in una maniera tanto brutale e con stizza che, mentre gli va rovesciando le tasche, chiama Iddio a testimone che mai più da quel giorno permetterà all’ebreo di uscire in strada, giacché il disordine, per lui, è la peggior cosa del mondo. Da parte sua Moisejka sbriga volentieri diverse ambasce per gli altri. Dà da bere ai compagni, li copre mentre dormono,