Il Cattivo maestro: Dante intimo
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Angelo Minerva
Angelo Minerva, allievo di Giulio Ferroni, ha tra le sue pubblicazioni le sillogi poetiche Il lago dei limoni, Edizioni Periferia, Cosenza, 1989; I pesci rossi, Book Sprint Edizioni, Salerno, 2013; Lontani baleni, in Favonio, Aletti Editore, Roma, 2014; Doppio in-canto, Tabula fati, Chieti, 2014 (Premio Editoria Abruzzese - Città di Roccamorice 2015); e il romanzo Giacomino sulla luna, Book Sprint Edizioni, Salerno, 2013. Suoi scritti sono apparsi su varie riviste. È autore di recensioni e saggi critici.
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Book preview
Il Cattivo maestro - Angelo Minerva
Angelo Minerva
Il Cattivo Maestro
(Dante intimo)
Letteratura
© Bibliotheka Edizioni
Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma
tel: +39 06.86390279
info@bibliotheka.it
www.bibliotheka.it
I edizione, Aprile 2016
Isbn 9788869341465
È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.
Tutti i diritti sono riservati.
In copertina:
Ritratto di sei poeti toscani
, Giorgio Vasari, olio su tela, 1544, Minneapolis Institute of Arts
Disegno di copertina: Eureka3
www.eureka3.it
Angelo Minerva
Allievo di Giulio Ferroni, ha tra le sue pubblicazioni le sillogi poetiche Il lago dei limoni, Edizioni Periferia, Cosenza, 1989; I pesci rossi, Book Sprint Edizioni, Salerno, 2013; Lontani baleni, in Favonio, Aletti Editore, Roma, 2014; Doppio in-canto, Tabula fati, Chieti, 2014 (Premio Editoria Abruzzese–Città di Roccamorice 2015); e il romanzo Giacomino sulla luna, Book Sprint Edizioni, Salerno, 2013.
Suoi scritti sono apparsi su varie riviste.
È autore di recensioni e saggi critici
Premessa
Con questo saggio dal titolo Il cattivo maestro – Dante intimo si vuole dare risposta ad alcune essenziali domande riguardanti le reali motivazioni che hanno portato il poeta fiorentino a scrivere il suo immortale poema e, al contempo, mettere in evidenza la strategia da lui innescata per prevalere su tutta una società che egli condanna senza reticenze, compresi i suoi colleghi letterati del presente e del passato.
Il sapiente filtro poetico ha messo al sicuro l’ambiziosissimo autore da eventuali – e diversamente abbastanza logiche – accuse di egocentrismo o di megalomania, se non addirittura di empietà.
L’esperienza visionaria dell’aldilà, dalle valenze dichiaratamente messianiche, gli offre, infatti, la possibilità di ergersi a sommo giudice così da poter condannare o assolvere, non sempre e non solo alla luce dell’etica cristiana, una moltitudine di persone fatte a bella posta convergere nelle maglie della Commedia.
Sicuramente un forte movente psicologico è alla base del complesso progetto dantesco: la ferma e risoluta volontà di superare l’impasse dovuta all’esilio e all’ingiusta condanna – almeno a suo dire – da parte dei suoi concittadini, cercando di affermare il proprio straordinario valore di uomo di cultura coi tentativi rimasti incompiuti del De vulgari eloquentia e del Convivio prima e di poeta con la Divina Commedia poi.
Il riconoscimento della propria eccellenza poetica, molto probabilmente, non gli avrebbe riaperto le porte di Firenze, non subito almeno, ma avrebbe agevolato la sua problematica esistenza di esule, spalancandogli le porte dei palazzi dei potenti dell’epoca.
La figura che emerge è quella molto più realistica di un uomo ambizioso e superbo che non si arrende di fronte alle difficoltà, anche se all’apparenza insormontabili, che la vita gli pone davanti, ma è pronto a combattere con l’unico strumento che possiede e nell’unico modo che effettivamente conosce benissimo: la scrittura poetica.
Tutto ciò scaturisce dai rapporti di Dante, maestro per molti aspetti delle generazioni che dal Medioevo giungono fino alla realtà odierna – soprattutto grazie all’attenzione ancora riservata nelle scuole superiori alla Commedia – con quelli che, a vari livelli e in diversa misura, possono essere indicati come modelli essenziali nella sua formazione culturale e umana.
Ed ecco Guido Cavalcanti, definito nella Vita nova, a lui dedicata, il primo de li miei amici, di cui Dante, ancora giovanissimo, si serve per entrare dalla porta principale nell’ambiente letterario toscano della seconda metà del Duecento e che mette poi da parte quando quell’amicizia diventa un problema per lui ormai deciso a impegnarsi nella carriera politica. Il guelfo bianco Guido era contrario al compromesso politico e disapprovava i contatti dell’amico con la famiglia Donati a cui facevano capo i Neri.
Brunetto Latini, per cultura e prestigio, rappresenta, invece, il maestro che Dante avrebbe voluto tanto avere e che riesce comunque a esibire come tale nella Commedia; ma, almeno nell’immediato, è anche uno scomodo termine di paragone, per questo il discepolo lo relega nell’Inferno, tra i sodomiti, compromettendone per sempre il profilo morale e, seppur indirettamente, la funzione stessa di valido maestro.
Virgilio, maestro ideale e di assoluto prestigio, è scelto ad hoc, fra i tanti possibili, come personale guida nei primi due regni dell’oltretomba. Anche in questo caso, però, Dante non può astenersi dall’esercitare la sua azione corrosiva, facendo pesare sul poeta pagano la censura religiosa.
Un caso a parte è quello dell’amico Casella, maestro nell’arte musicale, di cui Dante si serve nel II canto del Purgatorio per scopi scopertamente autocelebrativi.
Cino da Pistoia, fedelissimo discepolo e amico per lunghi anni del poeta fiorentino, completa il quadro: la voluta esclusione dalla Commedia conferma la presa di distanza di Dante da chi sarebbe potuto diventare per lui, a livello poetico, uno scomodo termine di paragone.
A secoli di distanza, la prospettiva storica, col suo enorme carico di studi specialistici assai approfonditi e dettagliati sul personaggio e di analisi precisa e puntuale dell’intera sua opera, ha contribuito a creare un’immagine distaccata, statuaria, granitica, inattaccabile dell’Alighieri: per questo bisognerebbe riportarlo a una dimensione più viva e autentica, che pure gli è appartenuta nel corso della sua esistenza, legata alle comuni esigenze della quotidianità, all’intimità dei sentimenti più personali e segreti, e anche ai tratti meno nobili e più umani del carattere.
La vendetta di Dante, nemico della patria!
Qual è il vero movente che spinge Dante Alighieri a ideare e comporre un’opera tanto straordinaria e impegnativa come la sua Divina Commedia? L’esigenza di redimersi e di portare con sé l’umanità che sembra essersi ormai allontanata quasi irrimediabilmente dalla retta via? Un moto di puro altruismo, di umana pietà o, ancor di più, un’azione spiritualmente risolutrice dalle connotazioni messianiche e divine? Oppure l’ambizione? Il desiderio sfrenato di affermare la propria superiorità intellettuale, oltre che morale, sugli altri? E perché non pensare all’odio? Alla lucida e spietata volontà di rifarsi platealmente dei torti subiti, arrogandosi il potere sovrumano di decretare i destini ultraterreni di un gran numero di propri simili? In buonafede o in malafede che fosse, il risultato è indiscutibile. Restano, però, sempre in ombra il motivo, la genesi tutta intima e umana del progetto poetico più ambizioso e superbo mai concepito.
Forse la risposta più vicina alla verità è legata all’energica e sofferta decisione di un uomo avvilito dalla calunnia, prostrato psicologicamente e moralmente da una condanna ingiusta, non meritata, dall’amara constatazione che l’ingratitudine sopravanza di gran lunga i meriti, che gli amici possono, a un tratto, diventare nemici, e che le certezze economiche, sociali e anche il prestigio culturale possono disfarsi all’improvviso come per un beffardo gioco del destino. Oppure, ancora, che in un panorama politico, generalmente corrotto, in cui, però, è comunque necessario mantenere una facciata d’onestà e di pulizia morale, l’essere scoperti disonesti e pubblicamente messi alla gogna, la condanna ufficialmente riconosciuta e propagandata diventano un’onta tanto insopportabile quanto discutibile e soprattutto umanamente inattaccabile. In questi casi è il carattere a fare la differenza. E il superbo Dante il carattere lo aveva ben forte, risoluto, ambizioso, egocentrico, determinato!
Per questo mal sopporta la persecuzione per sé, per la sua famiglia, e anche, almeno fino a un certo punto, per gli uomini della sua parte politica, quella dei fiorentini Bianchi e quando arriva la condanna perentoria, pubblica, inappellabile e per lui inaccettabile per baratteria, cioè per corruzione – avrebbe, in definitiva, amministrato in modo disonesto il denaro pubblico – decide di reagire; dimostrerà a tutti la sua innocenza, la sua buonafede, la sua completa estraneità ai fatti che gli vengono addebitati, ma per poterlo fare dovrebbe tornare a Firenze. Lì sicuramente esistono le prove che potrebbero scagionarlo, ma questo non è possibile, la città è ormai in mano ai nemici di sempre, i Neri, giunti al potere grazie all’intervento risolutore di Carlo di Valois, richiesto esplicitamente da papa Bonifacio VIII, e quindi questa strada diventa subito impercorribile.
Nonostante ciò, per anni, almeno fino al 1313 – cioè all’anno dell’improvvisa morte dell’imperatore Arrigo VII, che con la sua impresa ancora in fieri di riconquista del giardino dell’Impero avrebbe potuto ribaltare molti destini politici e tra questi quello ormai assai compromesso di Dante – egli progetta di tornare finalmente in patria nella speranza di strapparsi di dosso una volta per tutte l’infamia che gli avevano gettato contro, con cui avevano cercato di seppellirlo per sempre sotto un cumulo di calunnie, pesanti e pestifere come putrido fango: da condannato si farà giudice, ma nulla a che vedere con le leggi terrene a cui, in qualche modo, si può controbattere e a cui ci si può opporre! Sarà un giudice inappellabile, integerrimo, supremo. Sarà lui a sotterrare, e per sempre, la memoria, la fama e il valore di chi ha osato nuocergli; sarà sempre lui a esaltare chi nell’economia dell’opera sarà funzionale al suo disegno. Intanto, però, progetta e organizza, realizza e porta a compimento la sua originalissima ed efficacissima vendetta!
Anche per questo, quando gli verrà proposto dai nemici di sempre di tornare in Firenze – e tornare avrebbe significato dover ammettere implicitamente le proprie responsabilità –, egli rifiuterà sdegnato.
Ne è eloquente testimonianza l’Epistola XII, indirizzata a un non ben identificato amico fiorentino, con la quale risponde alle missive di amici e parenti che, speranzosi e solerti, lo avvertivano dell’amnistia che il 19 maggio 1315 il Comune di Firenze aveva offerto a tutti i fuorusciti, che avrebbero avuto così la possibilità di rientrare in città a patto, però, che avessero pagato una multa e riconosciuto, pubblicamente,