Il gusto della vita: La bellezza, il desiderio, il tempo, la festa, i sensi
By Derio Olivero and Andrea Grillo
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About this ebook
Che cosa ci serve per vivere? Non per sopravvivere (per questo basta un po' d'aria e un po' di cibo), ma per desiderare la vita, per crederci, per volerla davvero. Alcuni dicono che per vivere sia necessario saper soffrire; altri ritengono che basti avere una buona forza di volontà; altri ancora osannano la rassegnazione, consigliando di non farsi troppe domande, di accettare passivamente e di accontentarsi; altri sottolineano il dovere, l'obbedienza alle leggi, ai supremi princìpi.
Io credo che per vivere occorra trovare qualcosa di bello. Sì, la cosa fondamentale è trovare qualcosa di bello nel lavoro, nelle relazioni, nella casa in cui abiti, nel paese dove risiedi. Trovare qualcosa di bello, che ti attragga, ti appassioni, ti metta in moto. Trovare qualcosa di bello che ti faccia toccare con mano il gusto della vita. Senza gusto, senza sapore, senza senso la vita diventa un’inutile condanna. Ci vuole qualcosa di bello che tocchi i tuoi sensi e ti riaccenda il desiderio. Affinché la quotidianità non diventi banale e asfissiante. Spesso la vita sembra insipida. E ci stanca. Come mangiare una minestra senza sale. Per questo dobbiamo lavorare per trovare le «cose belle». Che sono stelle che illuminano le nostre notti. E riaccendono la vita.
«Siamo arrabbiati e fermi.
Dovremmo essere fiduciosi e in cammino.
Guardare le stelle ci aiuta a ripartire».
Derio Olivero
Appassionato di arte, fotografia, montagna. Appassionato dei giovani. Varie esperienze alle spalle: docente di teologia, parroco, vicario generale per la diocesi di Fossano (CN). Dal 2017 è vescovo della diocesi di Pinerolo (TO).
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Il gusto della vita - Derio Olivero
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Derio Olivero
Il gusto della vita
La bellezza, il desiderio, il tempo, la festa, i sensi
Effatà Editrice logoPrefazione
Il processo del desiderio, in un quadro gustato come un film
La grande tradizione cristiana, che scaturisce dall’annuncio del Risorto, per essere fedele a se stessa, deve esigere, da sé e per sé, una grande libertà. Non vi può essere «annuncio del Risorto» senza questa libertà. È proprio la «vita oltre la morte» a chiederlo e a pretenderlo. Senza immaginazione, non si può credere. Così gli occhi, che guardano, non vedono senza immaginazione. Per vedere davvero, occorre scoprire qualcosa di stupendo, immaginare un mondo compiuto, restare inquieti.
Per introdurre questo volume prezioso, e provare a comprenderne il centro, l’analisi di un bel quadro può essere un passaggio quasi obbligato. Per onorare le passioni, le emozioni e i gusti del suo autore.
Quadro di Paul Brill, 'Paesaggio con i pellegrini di Emmaus e allegoria dei due greggi'.Paysage avec les pèlerins d’Emmaüs (Paesaggio con i pellegrini di Emmaus e allegoria dei due greggi) (1617), Paul Brill (1554-1626), © RMN-Grand Palais (musée du Louvre) / Franck Raux, Museo del Louvre (Parigi).
Guardiamo questo paesaggio. La campagna, le colline, il cielo e le nubi dominano. Vediamo pecore e capre e oche e galline muoversi in basso. Al centro della tela, quasi impercettibili, in bianco, si vedono due figure, appena accennate, piccolissime. A sinistra, sotto la torre, un gruppo di tre uomini, in cammino. A destra, sotto un arco e un pergolato, altri tre uomini, seduti a tavola, che mangiano.
Ecco una straordinaria rappresentazione del famoso racconto dei «due di Emmaus», svolta dal pittore Paul Brill quasi come un «fumetto». Proviamo ad offrirne una interpretazione quasi cinematografica, come se fosse una sceneggiatura.
Al centro del quadro, la solitudine di due «orfani», segnati da quello che a loro avviso è stato l’abbandono irreparabile, nel trauma desolante della croce. I due personaggi, anonimi, camminano al centro della tela, sono scossi e si sentono perduti, sono rimasti senza speranza.
A sinistra i due incontrano un «terzo», che ha caratteristiche originali: si rivolge loro con la parola, cammina in mezzo a loro, porta in braccio un agnellino e nella mano sinistra reca un bastone a forma di croce.
A destra, sotto il pergolato, a tavola, i due osservano il «terzo» che spezza il pane, nella solenne pausa del cammino, in un luogo appartato e silenzioso.
In una sequenza irresistibile, la solitudine e lo sconforto dell’abbandono vengono rotti dalla parola di salvezza e dall’azione di grazie.
Quanta forza di immaginazione, quanta poesia, quanta grazia in questa rappresentazione! Il destino dei popoli è racchiuso in questo «viaggio». Viaggio di mestizia, di interrogazione, di scoperta, di sorpresa, di commozione, di ardore e di speranza. Sappiamo bene che l’andare dei due non si è fermato a tavola. Anzi, dalla tavola della rivelazione del Risorto, si trasforma in annuncio di salvezza, in corsa di comunicazione, in condivisione dell’inaudito.
Tutta la scena sta sotto l’occhio acuto di «falchi alto levati», che si librano lievemente al di sopra dell’orizzonte.
Il libro a cui scrivo questa breve prefazione mette in gioco con maestria questo doppio livello di libertà: con gesto libero e audace dischiude panorami per poter corrispondere, almeno un poco, alla libertà sovrana con cui Dio consola, riconcilia, seduce, conduce, sprona, salva. È la libertà del Dio che si fa pellegrino con i pellegrini e che li aiuta a decifrare i segni delle parole e delle cose. È la libertà dell’artista, che restituisce a Dio la sua libertà, assumendo in proprio l’azzardo di immagini inconsuete, di sequenze toccanti, di panorami struggenti. Per certi versi proprio il panorama non appare come sfondo, ma come scopo nel quadro di Brill. Grazie al riconoscimento del Signore nella parola proclamata e nel pane spezzato, risulta possibile scorgere un orizzonte, trovare tracce affidabili, immaginare un futuro promettente.
Così accade anche in questo itinerario di tracce e di lettere, di memorie e di esempi, qui accuratamente compilati: incontri non casuali e occasioni di incontro permettono un percorso di ricomprensione del quotidiano, lungo la linea tracciata dal sottotitolo: segni del bello, del desiderio, del tempo, della festa e dei sensi sono le figure che unificano episodi, letture, immagini, testi, e che si conchiudono sempre con lettere, con piccole missive in cui è ricapitolata e rilanciata l’esperienza centrale della fede.
Il gusto della vita diventa così condizione per una vita riconosciuta come gustosa, sensibile, festosa, ritmata, desiderabile, attraente. Scoprire il legame segreto e semplice tra la fede nel Risorto e queste emozionate figure dell’umano che è comune potrà incuriosire, potrà sorprendere, potrà forse anche spiazzare. Ma mai potrà farlo più di quanto abbiano scoperto i due discepoli che «scendevano da Gerusalemme», così bene intercettati e risollevati dal «pellegrino inconsapevole», la cui parola è divenuta potenza di vita e di amore, e la cui mensa si è dimostrata comunione di corpo e di sangue con il Signore.
Andrea Grillo
1.
Per ritrovare le stelle
Fotografia di sfondo di un lampione che illumina la parete di un edificio, in secondo piano si vede la silhouette di un campanile.La bellezza
Fotografia artistica di un lampione che illumina la parete di un edificio, in secondo piano si vede la silhouette di un campanile.© Davide Dutto
Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, che non veda i forni crematori, non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così.
Etty Hillesum (ad Auschwitz)
«In cinque minuti mi dica la sostanza della sua esperienza di filosofo». «È la scelta tra due soluzioni: l’assurdo e il mistero. Il mio collega Sartre ha scelto l’assurdo, io il mistero». «Ma qual è la differenza? Anche il mistero sembra assurdo!». «No, l’assurdo è un muro impenetrabile contro cui ci si spiaccica in un suicidio. Il mistero è una scala: si sale di gradino in gradino verso la luce, sperando».
Intervista a Jean Guitton
Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione.
James Hillman
Chiunque sia in grado di mantenere la capacità di vedere la bellezza non diventerà mai vecchio.
Franz Kafka
La via della bellezza ci porta a cogliere il tutto nel frammento.
Benedetto XVI
Soltanto ciò che all’inizio ci lascia senza parole è meritevole di essere espresso.
Jean‐Louis Chrétien
Il bello, adesso
Vogliamo parlare di bellezza. La mattina in cui ho ritirato la foto che ci aiuterà nella riflessione (cfr. p. 8) sono rimasto impressionato; pensavo: «Bella! Troppo bella!». Poi, nel pomeriggio, da una persona a cui voglio bene mi è arrivato uno di quei pugnali che entrano nel cuore e lo fanno sanguinare; più tardi, sono andato a trovare un amico che stava morendo. Così è nata dentro di me la domanda: come faccio a parlare di bellezza quando ho il cuore che sanguina, o quando vedo una persona che ha vissuto una vita importante e sta morendo?
Ma mentre tornavo a casa, in macchina, a un certo punto ho avvistato un albero, di un rosso mutevole in cento sfumature diverse; ho fermato l’automobile e l’ho guardato. Pur con il cuore pesante, mi sono detto: «Anche se oggi io vedo tutto grigio, quest’albero è proprio bello». Dietro l’albero si vedevano le montagne imbiancate: era bellissimo. E ho fatto l’esperienza del fatto che la bellezza ti apre a un po’ di senso. Perché mentre ero lì che guardavo quell’albero mi dicevo: «Se c’è un albero così bello, anche se io oggi vedo tutto buio, ci sarà un senso a questa vita...». Così, mentre riprendevo la strada, mi sono reso conto della verità di una frase che avevo letto in estate senza capirla del tutto: «Bello è ciò che rende visibile le tracce di senso». E mi è tornato in mente, comprendendone meglio la verità, ciò che aveva scritto una ragazza di ventotto anni, Etty Hillesum, nel campo di concentramento di Auschwitz:
Ma cosa credete, che non veda il filo spinato; non veda i forni crematori, non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così.
Hans Urs von Balthasar, uno dei massimi pensatori del ’900, teologo cristiano, con i suoi libri ha detto: «È giunto il tempo in cui non il buono, non il vero ma il bello vale».
Dite a un giovane: «Questo si deve fare perché si deve fare», e lui vi risponderà: «Spiegami perché». Il fatto che si deve non gli dice niente. Il dovere non appassiona. Ditegli: «Questo è vero perché è così», e vi risponderà: «Secondo te. Io la penso diversamente».
Il vero e il buono, pur essendo categorie fondamentali, da soli non dicono più niente: «soltanto il bello vale», cioè soltanto ciò che ti attrae gli occhi e ti parla di qualcosa di importante e ti fa intuire che il buono e il vero sono importanti. Soltanto il bello è una porta per entrare nel vero e nel buono.
Ma di questi tempi la bellezza è ambigua, perché nel nostro mondo dire bellezza può voler dire «qualcosa da divorare». C’è della gente che, quando la incontri, ti sciorina tutti i paesi che ha visitato nella sua vita: a Istanbul c’è stata, a Katmandu c’è stata... e se chiedi: «Che cosa ti è piaciuto di Istanbul?» ti risponde: «È una città normale, sai». Tu sei andato fino a Istanbul per vedere una città normale? Questo è un modo per divorare le bellezze e non capirne nulla, cioè non gustarle. «Ho visto tutti i paesi del mondo». Ma ce n’è uno che ti ha appassionato? «No». Cosa ci vado a fare in giro per il mondo se non so ammirare? È tempo perso, però posso dire di aver mangiato tutta la bellezza del mondo. C’è gente che fa così anche con gli uomini e con le donne. Ci sono giovani che dicono: «Io di ragazze ne ho avute trenta». E che gusto ha l’amore? «Non lo so». La bellezza da divorare non serve a niente.
Oppure — è l’altro grande rischio — il nostro mondo misura la bellezza: «Lo sai quanto vale questa borsetta? Spara una cifra!». Magari non ti piace granché, però se vale duemila euro dev’essere bella per forza... Ma non è così. La bellezza è diventata muta, e questa società a volte ci pare così brutta perché è muta.
Bello è ciò che rende visibili tracce di senso: non ce l’ho con quella borsetta, ma deve dire qualcosa, non solo mostrare il cartellino del prezzo.
Cercheremo di dirci come si sta di fronte alla bellezza: la bellezza va colta, accolta, mostrata e testimoniata.
La bellezza va colta, cioè bisogna vederla, con occhi capaci di guardare.
Va accolta, cioè bisogna far sì che entri dentro di noi perché ci deve dire qualcosa, deve darci un senso, un gusto, almeno una passione, un sorriso.
Va mostrata: bisogna imparare ogni tanto a parlare di bellezza agli altri; se vai in montagna e torni a casa e non racconti che è stato bello, cosa ci sei andato a fare? «Te lo devo raccontare perché è troppo bello: se tu vedessi il Monviso la mattina presto, è da mozzafiato!». Così vale per un quadro, per un fiore, per una borsetta: non mi dire quanto vale, parlami della tua borsetta se è proprio bella, descrivimi che sensazioni ti dà... La bellezza misurata crea solo divisione, la vera bellezza si può condividere, è per tutti, ricchi e poveri.
Va testimoniata: se sai vedere qualcosa di bello, devi anche testimoniarlo. La bellezza deve generare bellezza, magari con un gesto un po’ più gentile, un abbraccio dato un po’ meglio, un sorriso o un saluto fatti come si deve, un grazie detto un po’ più con il cuore.
Quando Gesù dice ai discepoli di guardare gli uccelli del cielo, che «non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 6,26), aggiunge alla bellezza delle creature una cosa importante, cioè la cura amorevole di Dio per loro (e così per i gigli del campo, e per le persone che incontra). È vedere dietro al creato le mani buone del buon Dio. I cristiani parlano persino della bellezza della croce: non perché sono pazzi (la croce fa schifo), ma perché sulla croce si vede un Dio che si fa a pezzi per noi. Cosa c’è di più bello di un Dio che non smetterà mai di prendersi a cuore la nostra vita e le nostre giornate? E quel Dio è dietro di me, dietro di te, dietro ogni cosa: ogni cosa ha sicuramente una bellezza perché di essa sicuramente si cura Dio. Questo è ciò che vogliamo imparare.
La foto che abbiamo scelto ce lo ricorderà (cfr. p. 8). Se la guardiamo sembra un po’ banale. È pure molto buia. L’abbiamo fatta così per dire: «Guarda, anche qui dentro, anche in una cosa non appariscente, c’è una bellezza». Nel buio c’è un lampione — non un faro! — che cerca a fatica di fare un po’ di luce: fa tenerezza... La bellezza è quella cosa che dà tracce di senso, che cerca cioè di dare un senso anche al buio che ogni tanto abbiamo nel cuore. E poi c’è un campanile. Dai campanili piove soave la musica delle campane, che da sempre ricorda la musica che scende dal cielo, per dirci che la bellezza in cui noi crediamo è soprattutto la bellezza di un Dio che sempre scende giù dal cielo per prendersi cura di noi, suoi figli.
Questa foto è realizzata con una tecnica fotografica che produce immagini un po’ sgranate, coi bordi un po’ indefiniti. Ci dice che anche con poveri mezzi possiamo vedere bellezze: non c’è bisogno di avere chissà cosa, bastano due occhi e un cuore... Ed è della forma della Polaroid, l’istantanea per definizione: abbiamo scelto questa forma per dire che tutto ciò che abbiamo detto è vero adesso, in questo momento. Se ci guardiamo attorno c’è tanta bellezza, adesso e per tutti gli adesso della nostra vita. Allora, ogni tanto, quando guardiamo questa foto diciamo: «Cosa c’è di bello in questo momento?». Credo sia un buon esercizio.
Incorniciare le stelle
Ogni volta, quando con l’amico fotografo facciamo la scelta della foto, immancabilmente dico: «Ah, di tutti gli anni questa è la più bella!». Poi, me la porto molto nel cuore: la