Le mani in pasta: Le mafie restituiscono il maltolto
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Carlo Barbieri
Nato a Milano nel 1955, ha lavorato per più di 43 anni in Coop Italia, il Consorzio Nazionale delle Cooperative di Consumo aderenti a Legacoop. Come dirigente commerciale è entrato in contatto con la realtà delle Cooperative sociali Libera Terra, delle quali ha cercato di valorizzare i prodotti all’interno delle strutture di vendita Coop. Analogamente si è prodigato per la valorizzazione delle produzioni italiane tradizionali di qualità insieme agli amici di Slow Food. Ha rappresentato Coop Italia all’Assemblea dei Soci dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e sin dalla sua nascita siede in Consiglio di Amministrazione dell’Agenzia Cooperare con Libera Terra. Da qualche anno in pensione, vive tra Portogallo e Italia. Questo è il suo primo libro con Jaca Book.
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Le mani in pasta - Carlo Barbieri
UN LIBRO DI SPERANZA E PASSIONE CIVILE
Daniele Biacchessi
«La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni».
Così scrive Giovanni Falcone nelle settimane convulse che precedono la sua uccisione il 23 maggio 1992, nello svincolo autostradale Capaci-Isola delle Femmine, colpito in una strage epocale insieme alla moglie Francesca Morvillo e alla sua scorta (composta da Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani) dalla mafia politica, quella che normalmente non fa rumore e che si annida anche nei gangli vitali dello Stato, e che a volte rialza la testa.
Giovanni Falcone, come Paolo Borsellino e tanti altri servitori dello Stato, sindacalisti, politici, amministratori della cosa pubblica, sindaci, presidenti di Province e Regioni, umili cittadini, assassinati dalle mafie nel nostro Paese, comprendono prima di altri un concetto di chiara, ma difficile applicazione: per accelerare la fine del fenomeno mafioso, con le sue regole scritte e nascoste, con i suoi legami con la politica e pezzi infedeli delle istituzioni, c’è bisogno di impegno, pazienza, volontà, conoscenza, e tanto coraggio. Non è cosa da tutti, perché il coraggio non lo impari a scuola o tra i libri, devi averlo dentro nel tuo DNA: significa esporti in prima persona, metterci la faccia, in alcuni territori del Sud, ma anche del profondo Nord arricchito, vuole dire rischiare la propria vita. L’impegno antimafia deve essere costante e durare nel tempo, deve coinvolgere pezzi consistenti della società civile, diciamo deve essere una «resistenza di lunga durata» svolta con spirito di sacrificio e intelligenza. L’Italia è il Paese delle mille leggi buone, ma spesso poco applicate. Ce ne sono due che ancora oggi fanno paura ai boss di Cosa Nostra, della Camorra, della ’ndrangheta, della Sacra Corona Unita, e delle cosche criminali internazionali.
Tutto inizia dalla legge del 13 settembre 1982, n. 646, detta anche Rognoni-La Torre. Il testo normativo trae origine da una proposta di legge presentata alla Camera dei deputati il 31 marzo 1980 (primo firmatario Pio La Torre, segretario regionale siciliano del PCI poi assassinato dalla mafia), alla quale si aggiungono le proposte di Virginio Rognoni e alla cui formulazione tecnica collaborano anche i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, all’epoca in servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo. L’articolo 1 introduce nel codice penale italiano l’art. 416 bis che delinea il reato dell’associazione di tipo mafioso. «È da applicare quando coloro che fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri». Nei confronti del condannato è inoltre sempre obbligatoria la confisca penale delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti a esse inerenti, nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare. Il tribunale competente, anche d’ufficio, può ordinare con decreto motivato sia il sequestro preventivo che conservativo dei beni appartenuti al soggetto nei confronti del quale sia stato iniziato il procedimento di prevenzione perché accusato di appartenere all’associazione di stampo mafioso. I beni di cui dispone, direttamente o indirettamente, sulla base di indizi come il divario ingiustificabile tra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati, possono essere sequestrati se si ha motivo di ritenere che siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Alcune intuizioni del progetto iniziale di Pio La Torre vengono sviluppate solo nella normativa successiva, come quella introdotta con la legge n. 109 del 1996 che prevede «il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle mafie, per impedire il loro recupero da parte delle organizzazioni criminali, per restituirli alla collettività rendendo concreto, effettivo ed evidente il ripristino della legalità e della dignità».
Il racconto di Carlo Barbieri nella ristampa del libro Le mani in pasta parte da qui, da ciò che è avvenuto dopo la promulgazione di queste leggi, nella loro più ampia applicazione. Perché la mafia la colpisci certamente con gli arresti, con la prevenzione, ma la sferzata gli arriva con il sequestro e la confisca dei conti correnti. La legge prevede l’assegnazione dei patrimoni e delle ricchezze di provenienza illecita a quei soggetti – associazioni, cooperative, Comuni, Province e Regioni – in grado di restituirli alla cittadinanza, tramite servizi, attività di promozione sociale e lavoro. Secondo i dati aggiornati dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti il 2 marzo 2021, 36.616 beni immobili (particelle catastali) confiscati dal 1982 a oggi, il 48% sono stati destinati dall’Agenzia nazionale per le finalità istituzionali e sociali, ma 5 beni su 10 rimangono ancora da destinare. Il maggior numero di beni immobili confiscati in Sicilia (6906), seguono Calabria (2908), Campania (2747), Puglia (1535) e Lombardia (1242). Sono invece 4384 le aziende confiscate, di queste il 34% è stata già destinato alla vendita o alla liquidazione, all’affitto o alla gestione da parte di cooperative formate dai lavoratori delle stesse; il 66% è in questo momento ancora in gestione presso l’ANBSC. Anche qui la Sicilia prima tra le regioni per il numero di aziende destinate (533), seguono Campania (283), Calabria (204) e Lazio (160). In particolare, dal 1982 al 1996 ci sono state 1263 confische e 34 destinazioni: sono i primi anni di applicazione della legge Rognoni-La Torre, durante i quali non è ancora in vigore la legge per il riutilizzo sociale. Dal 1996 al 2008 aumentano notevolmente i numeri e nel solo anno 2001 si arriva addirittura a 1023 confische e 315 destinazioni. Negli anni successivi fino al 2019, ultimo anno per cui si dispone della relazione dell’Agenzia, viene riportato solo il dato relativo alle destinazioni, che raggiunge quota 1512 nel 2019. L’andamento storico delle destinazioni dei beni mobili registrati è tracciabile dal 1982: nella relazione 2017-2018 dell’Agenzia nazionale, infatti, viene riportato che fino al 2018 sono stati destinati 3829 beni mobili di diversa tipologia, con queste percentuali: Distruzione/Demolizione: 42,07%; Comodato gratuito: 20,55%; Vendita: 18,65%; Assegnazione Forze dell’Ordine: 14,60%; Cessione ai Vigili del Fuoco e Soccorso pubblico: 4,12%. Libera ha censito 867 soggetti diversi del terzo settore impegnati nella gestione di beni immobili confiscati alla criminalità organizzata, ottenuti in concessione dagli enti locali, in ben 17 regioni su 20. Dai dati raccolti attraverso l’azione territoriale della rete di Libera emerge che più della metà delle realtà sociali è costituita da associazioni di diversa tipologia (468), mentre le cooperative sociali sono 189 (dato comprensivo delle cooperative dei lavoratori delle aziende confiscate e dei consorzi di cooperative). Tra gli altri soggetti gestori del terzo settore, ci sono 11 associazioni sportive dilettantistiche, 23 soggetti del terzo settore che gestiscono servizi di welfare sussidiario in convenzione con enti pubblici (tra cui aziende sanitarie, enti parco e consorzi di Comuni), 36 associazioni temporanee di scopo o reti di associazioni, 60 realtà del mondo religioso (diocesi, parrocchie e Caritas), 26 fondazioni, 14 gruppi dello scoutismo e infine 6 istituti scolastici di diversi ordini e gradi. La regione con il maggior numero di realtà sociali che gestiscono beni confiscati alle mafie è la Sicilia con 218 soggetti gestori, seguono la Calabria con 147, la Campania con 135 e la Lombardia con 133. Mediamente nel campione del censimento di Libera tra il sequestro e l’effettivo riutilizzo sociale trascorrono ben 10 anni.
Il lavoro sui terreni confiscati ha portato alla produzione di olio, vino, pasta, taralli, legumi, conserve alimentari e altri prodotti biologici realizzati dalle cooperative di giovani e contrassegnati dal marchio di qualità e legalità Libera Terra. Ogni anno su questi terreni si svolgono i campi di volontariato internazionale con giovani provenienti da ogni parte del mondo. In Sicilia la Cooperativa Placido Rizzotto effettua l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. In Calabria la cooperativa sociale di lavoro e produzione «Valle del Marro-Libera Terra» coltiva nella Piana di Gioia Tauro 60 ettari di terreni confiscati alla ‘ndrangheta. In Puglia cresce la cooperativa Libera Terra. Oggi le Coop Placido Rizzotto – Libera Terra, Pio La Torre – Libera Terra (sempre di San Giuseppe Jato) e Terre di Puglia – Libera Terra di Mesagne hanno dato vita alla Società consortile Libera Terra Mediterraneo, che collabora con altre associazioni che si occupano di alimentazione biologica (Alce Nero & Mielizia, Fondazione Slow Food per la Biodiversità), di turismo (Palma Nana soc. coop.) e di finanza sociale (Banca Popolare Etica, Coopfond). Sono in cantiere progetti per costituire nuove cooperative in altre aree d’Italia e replicare ulteriormente il modello. Carlo Barbieri nel suo lavoro di dirigente delle Coop è stato uno dei motori propulsori dello sviluppo di questo movimento culturale, economico, di impegno civile.
Ma chi sono questi ragazzi che sfidano le mafie sul territorio? Li chiameremo i ragazzi che hanno fatto l’impresa. Ore 4, Massimiliano si sveglia. Alle 5 deve essere sui campi, per raccogliere l’uva. Massimiliano è un bracciante, ma molto particolare, unico. Perché quando si sveglia è in carcere. Perché lui è un 416 bis, condannato a 12 anni per associazione a delinquere di tipo mafioso, la Sacra Corona Unita, la mafia pugliese. Ma ora non è più un mafioso. Coltiva le terre sottratte ai boss. Dall’illegalità alla cultura della legalità. Sono le storie che ci piacciono che rendono il nostro Paese bello anche da vivere. Non lasciamoli mai soli questi ragazzi.
TUTTI POSSIAMO COMBATTERE LE MAFIE
Marco Pedroni
(Presidente ANCC-Coop)
Carlo Barbieri è un collega di Coop e un caro amico, che per passione e per lavoro si è molto occupato dell’origine dei nostri prodotti; per origine intendiamo non solo quella merceologica, ma anche le persone, le relazioni, le organizzazioni che ci sono dietro e dentro ogni prodotto.
Un prodotto non è buono solo perché è gustoso e salutare; deve essere