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Mistica pienezza di vita: Volume 1, Tomo 1
Mistica pienezza di vita: Volume 1, Tomo 1
Mistica pienezza di vita: Volume 1, Tomo 1
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Mistica pienezza di vita: Volume 1, Tomo 1

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About this ebook

«La mistica non è un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. L’uomo è essenzialmente un mistico. Fino a tempi molto recenti (e alcuni la pensano così anche oggigiorno) si è considerata la mistica un fenomeno particolare più o meno straordinario, qualcosa al di fuori della conoscenza ‘normale’ dell’essere umano, un ‘qualcosa’ di speciale – patologico, paranormale o sovrannaturale. Questo studio aspira a far ‘reintegrare’ la ‘mistica’ nell’essere stesso dell’uomo: nell’uomo spirito mistico tanto quanto animale razionale ed essere corporale. In altre parole: la mistica non è una specializzazione, ma una dimensione antropologica, un qualcosa che appartiene all’essere umano in quanto tale. Ogni uomo è mistico – anche se solo potenzialmente. La mistica autentica quindi non disumanizza. Ci fa vedere che la nostra umanità è qualcosa di più (e non di meno) della pura razionalità.
La composizione del volume è semplice: una prima parte porta come lemma la Nuova innocenza, in quanto la mistica autentica non è una riflessione sull’Essere, ma un atteggiamento libero e spontaneo che sorge dalla pienezza della persona.
Una seconda parte tratta della meditazione, su cui poco si può dire perché essa è silenzio; seguono tre esempi di santi, le cui differenze ci mostrano che non esiste un solo concetto di santità.
La terza parte è formata da uno studio, sistematico e filosofico, sull’esperienza mistica. In questa parte cerco di confutare l’idea assai diffusa sulla mistica intesa come equivalente a fenomeni straordinari riservati a una piccola élite di mortali. Tutti siamo potenzialmente aperti all’esperienza mistica. L’idea che tutti siamo ‘figli di Dio’, presente in tante religioni, è stata formulata dal cristianesimo e costantemente ripetuta, ma poco meditata. Segue come appendice una riflessione filosofica sull’esperienza suprema da prospettive diverse e una preghiera che viene dal profondo del mio essere».
LanguageItaliano
PublisherJaca Book
Release dateNov 3, 2021
ISBN9788816803046
Mistica pienezza di vita: Volume 1, Tomo 1
Author

Raimon Panikkar

Raimon Panikkar (1918-2010), è un autore universalmente conosciuto, le cui opere sono tradotte in una decina di lingue. Partecipe di una pluralità di tradizioni (indiana ed europea, indù e cristiana, scientifica e umanistica) ha insegnato in Europa, in India e negli Stati Uniti. Nei primi anni Duemila, insieme con Jaca Book, ha iniziato a organizzare la sua Opera Omnia (curata da Milena Carrara Pavan), che oggi esce in edizione italiana, catalana, francese, inglese e spagnola.

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    Mistica pienezza di vita - Raimon Panikkar

    Sezione prima

    LA NUOVA INNOCENZA*

    *Questa prima sezione è tratta dal libro La nuova innocenza. Innocenza cosciente, Servitium, Sotto il Monte-Bergamo 2003 (testi scelti dalla prima edizione in tre volumi, 1993, 1994, 1996), nuova ed. 2005. Traduzione di Milena Carrara Pavan. Nel dettaglio: «I lampi» è un riassunto delle tre prefazioni; «La nuova innocenza», pp. 25-38; «Lo spirito contemplativo», pp. 39-57; «Lo sguardo innocente», pp. 105-109; «Azione e contemplazione», pp. 229-258.

    I LAMPI

    …a volte sono bianchi. Sono molto lontani. Non fanno rumore. Il tuono non si sente o solo molto dopo, e attutito. Non fanno paura. Non minacciano. È la serenità del pensiero teorico. È la meditazione filosofica. Si toccano princìpi. Per coloro che li intendono sono efficaci, ma c’è ancora una grande distanza per arrivare alla pratica. Può darsi che il lampo sia caduto in qualche posto, ma non ancora alla nostra portata. Gli intellettuali vivono tranquilli…

    …a volte sono rossi. Ci toccano più da vicino. Questi lampi fanno rumore. A volte fin troppo. Spaventano, ma poi molti nemmeno cadono. La nostra società nel bene o nel male, e che lo voglia o no, è (ancora?) piena di paura o di speranza nei confronti del fatto cristiano. Alcuni se ne vorrebbero sbarazzare e non sanno come. Altri si dichiarano indifferenti, ma nel profondo non riescono ad esserlo. Altri ancora vorrebbero farla rivivere, questa Chiesa, ma si muovono senza orientamento. Sono lampi di cristianìa¹.

    …a volte sono azzurri. Sono molto in alto. Questi lampi non cadono sulla terra e certamente non sulla «nostra» terra. Forse un giorno scenderanno, e quei problemi d’incontro tra popoli e tradizioni religiose non ci potranno più lasciare indifferenti. Il mondo delle alture sta lampeggiando. Isolamenti artificiali non servono più. Il problema dell’altro comincia a convertirsi nel proprio interrogativo.

    Lampi bianchi

    …che la tua sinistra non sappia ciò che fa la destra.

    Mt 6,3

    Molte volte mi è stato chiesto di spiegare la Resurrezione che implica la nuova innocenza, soprattutto avendo detto che non si tratta di voler recuperare la prima, giacché l’innocenza, una volta che la si è perduta, perduta rimane. E volerla recuperare non è innocente. Jahvè collocò i cherubini con la spada di fuoco davanti al Paradiso per liberarci da un secondo peccato originale, cioè dal desiderio di ritornare in Paradiso.

    C’è evidentemente un presupposto metafisico che è proprio ciò che rende possibile la Resurrezione. Qui però tenterò di spiegarlo piuttosto in una forma antropologica e in parte anche autobiografica.

    I maestri spirituali di quasi tutte le tradizioni ci parlano di quella che si può chiamare la spiritualità del novizio, il desiderio della perfezione, il mumukṣutva, l’intenzione di raggiungere il nirvāṇa, ecc. È la spiritualità purgativa, di purificazione, il brahmacarya, l’ascetismo, la pratica delle virtù, lo yama e il niyama, il bodhicitta, ecc.

    Ci si deve decidere, compromettere. È il senso dei voti, è la «teologia» del vrata, è l’obbedienza al guru, lo sforzo, la mortificazione, la rinuncia, l’esame di coscienza… Tutto questo è necessario per rendere possibile la libertà, la connaturalità con il bene.

    Ma passiamo a un secondo punto. Il primo è stato raggiunto, e adesso? Molte scuole, delle più svariate tradizioni, ci dicono che si deve stare sempre all’erta, che si deve fare attenzione a non tornare indietro, che chi è più in alto può cadere, che la vita spirituale è pericolosa. In pratica ci dicono che la vita umana sulla terra è proprio questa lotta costante, questo essere continuamente vigili, questa rinuncia sempre rinnovata. E l’esperienza ci dimostra che non hanno torto.

    I maestri esperti, che alcuni chiamano bodhisattva, altri guru, altri santi e altri semplicemente savi o anziani, ci dicono quello che io formulerei come la legge fondamentale dell’autentica vita umana, quella che, in maniera cosciente e libera, aspira alla pienezza di questo dono che è la vita stessa; vale a dire che non si tratta di un regalo fatto al vivente, bensì che il vivente stesso ne è il dono. Non mi si dona la vita. Io sono il dono donato dalla Vita. Io nasco quando mi si dà la vita. Io stesso sono il dono, il donato.

    Dunque, la legge fondamentale consiste nel fatto che quei mezzi, upāya, strumenti che ci fanno crescere nella vita, in ciò che abbiamo chiamato con ridondanza la vita spirituale, proprio questi mezzi diventano ostacoli, una volta che sono stati utilizzati. Se vedi il Buddha, dice un testo del Tripiṭaka, uccidilo! Se vedi il Cristo – ho ripetuto più volte – mangialo! Se credi nello Spirito, dimenticalo! Non metterlo davanti, non farne un oggetto, non oggettivarlo, non fare teo-logia dello Spirito; lascialo indietro, che soffi, che spinga, che ti ispiri – lui te, non tu lui –, dicendogli (logos) dove deve ispirarti o portarti. Lo Spirito richiede vele per riceverlo e un timoniere attento, ma non tollera piloti motorizzati. Soffia quando gli va, dove vuole e come gli pare. La tradizione monoteista dovrebbe ascoltare le altre tradizioni quando criticano il suo teocentrismo. Dio è un centro che è dappertutto, dice la stessa tradizione occidentale cristiana, e ciò significa che nessuno ne è il proprietario. E aggiunge anche che la circonferenza non è in nessun posto. Il teocentrismo può convertirsi in un modo di addomesticare il divino: noi, gli uomini, manipoliamo il centro, giacché siamo noi che postuliamo il centro. Che cosa non fanno gli uomini in nome di Dio! Potrei esprimere tutto ciò in forma più «orientale» ricordando un famoso maestro zen, Wumen (in giapponese conosciuto come Mumon), che afferma che l’essenza della verità buddhista sta nell’essere una barriera. Questo mi porta anche a ricordare i detti evangelici della porta stretta e del passaggio del cammello per la cruna di un ago (lasciando da parte esegesi e archeologie). La barriera va saltata, la porta va abbattuta, l’ago va rotto. Non ci è forse stato detto: «Chi ha orecchie per intendere, intenda»?

    Ma ancora non ho formulato il secondo punto. Vediamolo ora.

    Il desiderio di perfezione, ci suggerisce un vecchio sūtra buddhista ricordato da Atīśa, dev’essere superato da un desiderio superiore, dall’adhyāsaya, che consiste nel «dissolvimento» (san Giovanni della Croce) di tutti i precedenti desideri. Dico che il testo lo suggerisce, perché la mia esegesi ne è piuttosto un’elaborazione posteriore. Si tratta di rinunciare persino alla rinuncia, di liberarsi dallo stesso desiderio di perfezione, che può essere una forma di egoismo raffinato, e di credersi superiore agli altri. Una virtù fondamentale nella tradizione cristiana, forse prima che si svalutasse in mera virtù psicologica o morale, è l’umiltà. Solo a questo punto si fa esperienza della Grazia, del tariki, dell’altro potere, come dice la tradizione amidista del buddhismo giapponese sviluppato da Shinran.

    La nuova innocenza s’è liberata dalla brama di perfezione, dal desiderio di voler essere migliore, che implica necessariamente essere migliore degli altri. La nuova innocenza non entra nella competizione spirituale, non desidera, come dice il Buddha. È pura aspirazione, cioè è frutto di un’ispirazione che viene dall’interno e non da pensieri oggettivati, dai vikalpa delle tradizioni indiane. È il regno della spontaneità. Il desiderio vuole un telos, un fine. Si desidera un oggetto, si persegue una finalità; è l’oggettivazione della realtà. L’aspirazione viene dall’interno, non ha un perché, come dicono i mistici francescani e domenicani dei secoli scorsi, e come afferma lo zen ancora oggi. Se vogliamo andare da qualche altra parte, forse ci arriveremo; ma se corriamo spinti soltanto dal desiderio di arrivarci, non arriveremo mai, non godremo mai del presente, che è la rivelazione temporale dell’eternità. Se siamo viandanti solo protesi verso la cima, non godremo mai del cammino. Homo viator significa farsi il cammino, e non viaggiare a tutta velocità per una strada già fatta. Inoltre, vivremo sempre con l’angoscia di non arrivare alla meta. L’uomo è un essere itinerante, homo viator, certo, ma non esistono strade spirituali. Gli uccelli e i santi non lasciano orme. Nel cielo non ci sono sentieri, dice giustamente il Dhammapāda, ripetuto poi da san Giovanni della Croce: «Per di qua non vi è cammino». L’uomo è un viandante che, mentre cammina, sa che ogni passo già contiene ciò che rende il cammino cammino e non «una fogna nera» che ci porterà a un mare «glorioso» quando non ci saremo più – come lamenta Giobbe. «Il cammino si fa camminando», come dice Machado, perché la vita stessa è epektasis (Gregorio di Nissa) man mano che la viviamo.

    Non ci sono tecniche per arrivare alla nuova innocenza. È il regno della Grazia, dicono lo śaiva siddhānta, il cristianesimo e tante altre tradizioni.

    La nuova innocenza non è una seconda innocenza, non è una ripetizione della prima, non è una sua seconda edizione, nemmeno riveduta e corretta. È nuova, così nuova che non si ricorda d’essere seconda, perché non lo è; non è l’innocenza perduta recuperata, perché quella perduta è proprio perduta. Ho già detto che la nuova innocenza non è l’aver trovato il Paradiso perduto. La nuova innocenza non viene dopo la prima. Viene dopo quello che ho chiamato primo punto, dopo l’ascesi, la purificazione. Non vi sono scorciatoie, né strade rapide, né tecniche istantanee.

    Il cammino è anupāya, non ha mezzi, non esiste in realtà cammino. Ma ce ne sono stati, si fanno e si disfanno costantemente. La pazienza, o meglio, la tolleranza, la hypomonē predicata dal maestro di Nazaret, tramite la quale possiederemo le nostre vite, qui è fondamentale.

    La nuova innocenza è il regno della libertà. Ma libertà vuol dire abbandono della motivazione. La motivazione implica che l’oggetto del motivo è quello che dirige i nostri passi; andiamo verso un fine e naturalmente ci sentiremo defraudati se non lo conseguiremo. I motivi per conseguire fini penultimi possono essere, e generalmente lo sono, necessari. Ma qui non si tratta di qualcosa di penultimo e che pertanto può essere mediato. L’«ultimità» di cui parlo non viene dopo il penultimo, ma è concomitante a ogni passo. In questo senso ogni passo è ultimo, perché è definitivo. Non pensate quando meditate, dicono alcune tradizioni; non pensate quando fate testimonianza di me, dicono altre, che la vostra mano sinistra non sappia il bene che fa la destra, perché allora non sarebbe più bene. «Signore, quando t’abbiamo veduto affamato e povero?». Se l’avessero saputo, l’atto non avrebbe più avuto valore, non sarebbe stato autentico, libero. Dopo la parabola del pubblicano e del fariseo non si può più pregare in buona coscienza: se mi comporto da fariseo mi condanno, se mi comporto da pubblicano, una volta che ho imparato il trucco, sono anche peggiore. Non c’è via d’uscita cosciente e motivata. Per dirla filosoficamente, la riflessione è sempre di seconda mano e pertanto corrosiva. Solo lo Spirito prega con gemiti inenarrabili, dice san Paolo.

    L’esperienza della libertà precede la riflessione sull’atto libero. Questo è tale perché non ha alcun determinante esterno, nessun condizionante estrinseco. Quindi solo un cuore puro può essere libero. L’esperienza della libertà è l’esperienza del divino. Non è un oggetto, è l’atto stesso dell’Essere, è il fare che sorge spontaneamente dall’Essere. Ed è dopo che l’abbiamo fatto che possiamo rifletterci. Cosa affermano lo yoga e lo zen, ad esempio, se non questo?

    Il cammino che il primo punto richiede comporta molti pericoli, come ci dicono i maestri. Quello del secondo punto non ne comporta, perché non vi è cammino. Non ci sono criteri. Su cosa si baserebbe? È un giocare tutto o niente. Non vi è periculum, esperimento, prova. Vi è però il rischio di girare a vuoto, di restare imbambolati a guardare il cielo, come se stessimo cercando il resuscitato, dimenticandoci che la Resurrezione è la nostra. Siamo a un livello diverso da quello dei cammini.

    Dice il Buddha, ed è uno dei fondamenti della tradizione buddhista, che il desiderio del nirvāṇa è un ostacolo per arrivarvi tanto quanto il non desiderarlo. Se lo desideri non l’otterrai, e se non lo desideri… non otterrai necessariamente quello che non desideri. Né il desiderio né il non-desiderio qui servono a qualcosa. Il nirvāṇa è fuori dalla portata della volontà cosciente. Il nirvāṇa non è un oggetto, né del pensiero né della volontà. Una cosa simile la si potrebbe dire di Dio, del quale la Bibbia proibisce di nominare e di scrivere anche solo il nome. Non è la ragione la guida dell’uomo. Ci viene detto che lo è l’amore, ma l’amore non è una guida; è piuttosto un motore, l’autoenergia dell’Essere, la vita stessa.

    Tutto ciò non è fatalismo. Se si vuol pensare in termini estrinseci, sarebbe piuttosto Grazia. Rendersi conto che le cose più fondamentali della realtà sono fuori dalla giurisdizione del pensiero e della volontà costituisce per molte culture l’inizio della maturità. È questa coscienza che porta a lasciar crescere la fiducia nella realtà, che è la fonte della gioia e della pace. È la coscienza dell’aspirazione primordiale dell’Essere che ci viene data con la parola, come direbbero il Ṛg-veda e il Vangelo di san Giovanni.

    Mi si permetta una riflessione filosofica concisa.

    La nuova innocenza non è il sogno ingenuo di voler recuperare il Paradiso perduto. La nuova innocenza rappresenta la guarigione della ferita provocata dalla separazione dell’epistemologia dall’ontologia, facendo della conoscenza la caccia all’oggetto da parte di un soggetto che deve soltanto controllare che le sue armi (categorie) siano pulite. È molto significativo che un Heisenberg debba ricordare ai filosofi che il fatto di puntare il fucile già mette in allarme la lepre, che la conoscenza da parte del soggetto già modifica l’oggetto. Ogni conoscenza riflessiva all’interno di un’epistemologia separata da ogni ontologia non è più innocente, ha ferito l’oggetto. Innocente è chi non fa male (nocere).

    La riflessività innocente è quella che senza danneggiare l’oggetto ritorna al soggetto, è quella che non parte dalla dicotomia tra oggetto, cosa oggettiva, staccata dall’uomo, e soggetto, mente soggettiva che punta il fucile per cacciare l’oggetto – e che pertanto fa esperimenti per vedere come reagirà la lepre.

    La riflessività innocente avviluppa in un medesimo atto il conoscente e il conosciuto, proprio perché sa che l’uno non è dato senza l’altro. Conoscere non vuol dire cacciare ma crescere insieme, il conoscente e il conosciuto. Sono vincolati. Non vi è cosa senza l’uomo. La cosa non è né «in sé» né «in me». La cosa è con me: esse est co-esse.

    La trappola in cui è caduta la maggior parte dell’Occidente seguendo Hegel, che pensava all’ombra di Descartes, è stata quella di credere che la con-scientia non è quella scienza, gnōsis, jñāna, in cui soggetto e oggetto ugualmente partecipano, ma Bewusstsein, in cui l’autocoscienza si differenzia radicalmente dalla coscienza. Gli animali avrebbero coscienza, ma solo l’uomo possiederebbe autocoscienza, cioè riflessione. La riflessione sarebbe allora già una perdita dell’innocenza, perché sarebbe un ritornare su se stessi dopo aver conquistato l’oggetto al fine di possederlo. Conoscenza comincia ad essere possesso, invece di lasciarsi possedere insieme da ciò che gli scolastici, condotti dagli arabi, e seguendo Aristotele, chiamavano l’intellectus (attivo e passivo), una luce superiore, come la chiamò Agostino.

    Ma, d’altro canto, non si tratta evidentemente di ricadere in una posizione pre-critica. Non si tratta né di romanticizzare il passato, né di appoggiarsi su metafisiche antiquate che ora non sarebbero più innocenti ma colpevolmente incoscienti.

    Forse una metafora può essere d’aiuto. Io sto ascoltando una sinfonia. Posso restarne estasiato: mi sono identificato con la musica. Non sono cosciente d’altro. È la conoscenza estatica. Sono cosciente della musica, ma non ne ho una conoscenza riflessiva; non sono cosciente d’esserne cosciente.

    Posso anche averne una conoscenza riflessiva. Allora sono cosciente che sto ascoltando della musica e se mi piace oppure no. Ne ho una conoscenza critica. Posso parlarne e farne persino una descrizione comparativa secondo le mie conoscenze musicali precedenti.

    Nel primo caso si ha una situazione ontica. Sono musica, ci sono dentro. Non ho nessun’altra conoscenza; è gioia pura e forse neanche quello. Nel secondo caso si ha una situazione epistemologica. Ho una conoscenza riflessiva della musica e della mia condizione di ascoltatore di musica.

    Ma c’è anche un’altra possibilità. Quella d’essere un membro dell’orchestra. Con una conoscenza puramente epistemologica del brano musicale non s’arriverà mai a essere un primo violino geniale. Ma con una conoscenza puramente ontica, in condizione estatica, non passerà molto tempo senza che il direttore svegli il violinista dalla sua estasi, per ricordargli che non sta suonando da solo. Non può perdere coscienza di far parte di un complesso. Questa è la situazione ontologica. Ci si dimentica di se stessi, non vi è dicotomia tra soggetto e oggetto, ma al tempo stesso non si è né puramente assimilati né totalmente oggettivati; non si è né pura musica né contemplatori esterni; si è membri dell’orchestra, si è contemporaneamente musica e strumento. Più che l’esempio del violino qui ci potrebbe servire la stessa voce della cantante: voce, corpo, persona, orchestra, direttore e anche pubblico, pur essendo differenziati, non sono separati. La coscienza ontologica, a differenza di quella puramente ontica, è cosciente (allo stesso tempo) della realtà senza la separazione tra soggetto e oggetto. Non è né exstasis enstasis, è una pura stasis, uno stare nella sua totalità, non si è né musica né diva, si sta cantando. E questo stare è tutta l’orchestra, tutto il pubblico e tutta la mia persona. Questo è lo stato ontologico a cui mi riferivo.

    Ma allora, scrivere della nuova innocenza non è una contraddizione in termini? Evidentemente. Se ci si rende conto che è nuova, non è già più innocente. Se si vuole recuperare quella vecchia, è la degradazione della religione. A ragione un angelo con una spada di fuoco voleva evitare che gli uomini guardassero indietro – sebbene il Paradiso perduto fosse Sodoma. «Cammino per un sentiero senza ritorno» gridò Giobbe. «Nessuno che mettendo mano all’aratro guardi indietro è pronto per la Vita» disse il Cristo. La contraddizione è insuperabile a livello della dizione. La vita è parola, logos, ma il logomonismo è tanto asfissiante quanto qualunque monismo.

    Lampi rossi

    Vorrei ora introdurre i lampi rossi, rifacendomi al detto di Eraclito, riferito da sant’Ippolito, che è il lampo a governare tutto. E aggiunge che questo lampo è il fuoco duraturo, il fuoco eterno, divino, che molti commentatori identificheranno con Zeus. Che Dio sia fuoco lo dice anche la scrittura cristiana (Eb 12,29), facendo eco alla Torah (Dt 4,24); e ogni battesimo iniziatico cristiano deve esser fatto anche con il fuoco (Lc 3,16), ecc. Lampeggiante era il vestito di Gesù nella trasfigurazione (Lc 9,29; ecc.), così come quello dell’angelo della Resurrezione (Mt 28,3), e la sua venuta, ci è detto, sarà simile a quella del lampo che sorge da oriente ed è visibile fino a occidente (Mt 24,27).

    Se il tema della luce è un tema classico della spiritualità, quello del lampo chiaramente spaventa. Non dimentichiamo, uomini moderni, che le uniche fonti di luce, fino a poco tempo fa, erano il sole, la luna, le stelle e il fuoco. Il lampo lo fa discendere dal cielo. La metafora principale con cui nel linguaggio di molte tradizioni viene espressa la divinizzazione dell’uomo è precisamente l’illuminazione. E quando la cultura europea tenta di liberarsi dal peso di una religiosità troppo istituzionalizzata si definisce illuminismo. Il lampo è uno dei pilastri della metafora. La luce del cielo scende in questo caso sull’uomo e lo trasforma, anche al prezzo di bruciare l’uomo vecchio.

    Dante termina praticamente la sua Commedia con un riferimento al lampeggiare della divinità. È questo lampo che colpisce la mente creata perché si apra al mistero divino:

    ma non eran da ciò le proprie penne:

    se non che la mia mente fu percossa

    da un fulgore in che sua voglia venne.

    Paradiso XXXIII, 139-141

    Il Medioevo è pervaso da questa funzione del lampo, distruttrice della creaturalità e portatrice della divinizzazione. Dio agisce illuminandoci come un lampo istantaneo: in modum fulguris coruscantis, dice Riccardo di san Vittore (Benjamin Minor 82); e similmente dicono san Bonaventura, san Bernardo (l’esperienza di Dio arriva con la velocità di una folgore di luce: veluti in velocitate corusci luminis)² e tanti altri.

    Squisito è l’inglese del secolo XIV della Nube della non-conoscenza che, sufficientemente modernizzato perché lo si possa intendere, così dice:

    Allora forse qualche volta lui invia un raggio di luce spirituale che attraversa questa nuvola di non conoscenza che si interpone fra te e lui, e ti mostra alcuni dei suoi segreti, dei quali l’uomo non deve parlare né può farlo³.

    Già da quasi due secoli quel grande sconosciuto Franz von Baader, che ora alcuni cominciano ad apprezzare, scrisse un libro dal titolo Über den Blitz als Vater des Lichtes (1815, Sul lampo come padre della luce). Egli vi descrive un’intuizione nella quale io vedo la visione cosmoteandrica, che non solo continua quello che già vide Bacone con il suo assioma della harmonia luminis naturae et gratiae (armonia tra la luce della natura e la luce della Grazia), ma che ci porta al superamento di ogni dualità tra teismo e naturalismo, senza cadere in nessun monismo, sia spiritualista sia naturalista (materialista).

    La dualità tra natura e spirito è mortale per la vita umana. L’uomo ha appreso ciò da quando ha vissuto esperienzialmente la realtà dei lampi. La luce è un nome di Dio, persino nel cristianesimo (1 Gv 1,5s.), il quale pure chiama Dio Padre di tutti i lumi (Gv 1,17), uno degli appellativi di Zeus.

    Grandi pensieri lampeggiano a volte nella mia anima.

    Se mi appaiono come lampi si fa luce nella mia anima. Ma anche spariscono come lampi e io non li posso trattenere oltre⁴.

    Così si esprimeva Franz von Baader nel suo Tagebuch del 19 aprile 1796⁵. Anni più tardi un altro innamorato dei lampi scriveva:

    Molto crebbi, più dell’uomo e della bestia; e parlo – [però] nessuno parla con me. Crebbi troppo solitario e troppo alto. Aspetto: ma cosa aspetto dunque? La sede delle nuvole mi è troppo vicina – aspetto il primo lampo⁶.

    Dello stesso autore ne riporto ora a memoria un altro:

    Chi vuol esser lampo qualche volta, deve esser nuvola per lungo tempo⁷.

    Tutto questo ci dice che i lampi, come il fuoco, illuminano e distruggono, sono seducenti e affascinano, sono accompagnati dal tuono o lo possono lasciar indietro. Non credo che sia necessario ora spiegare tutto questo simbolismo. Ancora mi torna alla mente l’Ecce Homo di Nietzsche:

    Sì! Ben so da dove vengo!

    Mai soddisfatto come la fiamma

    brillo e mi consumo.

    Luce diventa quel che tocco,

    carbone quel che poi lascio:

    fiamma sono sicuramente⁸.

    Se lo dovessi dire in termini più filosofici direi quanto segue.

    La nuova innocenza non dipende né dalla volontà né dalla comprensione. Se la voglio, sarà per qualche cosa: perché è buona, per esempio, e allora la perdo. Se la comprendo, l’ho portata nel campo della mia coscienza riflessiva, e così la distruggo. È una Grazia, un dono che diventa cosciente una volta che si è ricevuto; un dono che ci mantiene nell’attitudine di costante ringraziamento, che ci può accompagnare senza che ce ne rendiamo conto, ma mai ci può precedere coscientemente. E nemmeno può essere mai un progetto: non si può programmare, non entra nel computer.

    La vecchia innocenza, quella che ancora chiamiamo innocenza, perché la nuova non dà nome a se stessa, si trova prima della riflessione – prima che il mentale si sia sviluppato in riflessione. La nuova innocenza è la metanoia, si trova oltre il mentale, senza però negarlo. Il superamento non è la negazione.

    La nuova innocenza è il terzo occhio. Ma questo non è un occhio isolato. È il terzo occhio insieme con gli altri due, nello stesso modo in cui i due occhi, nel senso della vista, non funzionano né separatamente (dualismo) né come se fossero un solo occhio (monismo), ma in modo non-dualista, in armonia naturale. Analogamente, il terzo occhio si unisce ai sensi e all’intelligenza per vedere le cose non solo in due, ma in tre dimensioni.

    La nuova innocenza è amare, conoscere, camminare, parlare… Non è avere amato, conosciuto, camminato, parlato… Il conosciuto è stato conosciuto; non è conosciuto: lo è stato e per questo, quando dico che lo conosco, ricordo solo che ho conosciuto, ma già non conosco più; ricordo che ho amato, però non amo più. Vivo nel ricordo, non vivo la vita, non vivo. La nuova innocenza è il presente che si è liberato dal passato e dal futuro, dal peso del passato e dalla paura del futuro: è la vita eterna, quella vita che Cristo disse di essere venuto a portare o, detto meglio, a far sì che la vivessimo (Gv 10,10).

    La prima innocenza perduta fu la perdita della coscienza estatica. Eravamo con le cose. Nuotavamo sommersi in esse. Eravamo le cose e, se in qualche momento la coscienza umana si proiettava verso noi stessi, ci scoprivamo una cosa in più tra le cose. Eravamo efficaci nel nostro contatto con le cose. Lottavamo da pari a pari perché ci svelassero i loro segreti, ci manifestassero le loro connessioni o perché ci fossero utili. Identificati con esse, le trasformavamo secondo il loro proprio livello e trasformavamo noi stessi con esse. Non eravamo coscienti del nostro privilegio umano, e per questo non ne abusavamo. Eravamo i re della creazione, di quel tipo di re che lottavano in prima linea, esponendosi ad essere sconfitti dallo stesso potere delle cose. La partecipazione mistica era totale.

    La perdita di questa innocenza è la scoperta dell’oggetto. Le cose diventano oggetti. La coscienza ne è il soggetto. E quando questa si fa riflessiva persino lo stesso soggetto si converte in un altro tipo di oggetto, per quanto privilegiato lo si consideri. La mia conoscenza in quanto soggetto implica lo spostamento da soggetto conoscente a oggetto conosciuto. I vantaggi che ne risultano sono enormi. È nata l’epistemologia. Si è resa possibile la critica. Ma allora, quando agisco come un re della creazione, come un oggetto privilegiato che fa però funzioni di soggetto, perdo la buona coscienza: è scomparsa l’innocenza.

    La nuova innocenza supera la dicotomia soggetto/oggetto, così come la divisione interno/esterno. Per dirlo in forma molto concentrata, si potrebbe dire che trascende ogni fenomenologia: non ci sono oggetti di conoscenza, né la conoscenza è un oggetto (della stessa conoscenza). C’è la realtà nella misura in cui noi stessi, essendo reali, la conosciamo, facendo parte di essa. La realtà non è la nostra coscienza di essa, ma la nostra coscienza di essa appartiene alla stessa realtà (che ha coscienza di se stessa). Né idealismo né realismo, bensì forse la realizzazione nel senso della parola inglese che ha già risentito di un certo influsso orientale: «We realize ourselves when we realize the real in and by the very act of realization» (Conosciamo noi stessi [ci realizziamo] quando conosciamo [realizziamo] la realtà nell’atto stesso del conoscere e attraverso lo stesso [per la realizzazione stessa]).

    La nuova innocenza rende impossibile scrutare (oggettivamente) la natura nel modo in cui la polizia ispeziona la casa di un presunto drogato, frugando in tutti i nascondigli per trovare tracce di droga. Porto questo esempio per non mettere in dubbio le buone intenzioni della investigazione, tanto scientifica quanto politica.

    La nuova innocenza partecipa alla realtà ed è cosciente della realtà della quale la sua stessa partecipazione fa parte. La simpatia, nella sua accezione più ampia e profonda, acquista qui la sua piena giustificazione.

    Il regno di Dio è il regno della giustizia; la passione per la giustizia è probabilmente ciò che più ci occorre nel nostro tempo, coscienti come siamo, almeno, dell’ingiustizia istituzionalizzata, perché gli sfruttamenti di una volta non hanno nessuna sanzione religiosa, come erano le elucubrazioni cristiane per giustificare la schiavitù o le crociate, o quelle brahmaniche per giustificare i fuori casta o la rigidità delle caste.

    Orbene, solo l’innocenza può contribuire alla giustizia in modo efficace e duraturo. Ciò significa che tutti i machiavellismi sono condannati a essere controproducenti. Voler instaurare la giustizia in Medio Oriente per moventi non innocenti come difendere interessi di monopoli petroliferi non porterà mai la giustizia in quei luoghi.

    Nella Bibbia ebraica innocenza e giustizia sono in relazione, anche se per opposizione: «Non uccidere l’innocente e il giusto» dice uno dei precetti dell’Alleanza giudaica (Es 23,7) che i Settanta traducono con athōon kai dikaion, la Vulgata con insontem et iustum (non occides) e Martin Buber con wer unsträflich und bewährt ist, den darifst du nimmer umbringen helfen (cfr. Dt 27,25 parlando del sangue innocente). E altrettanto lo ricorda il profeta Daniele nella famosa difesa di Susanna contro i due anziani che l’accusavano (secondo il testo greco [Dn 13,53] perché l’ebraico non lo porta).

    Lampi azzurri

    Mi sembra importante insistere sull’innocenza per un duplice motivo, morale e ontologico.

    Nell’ordine morale è urgente insistere sul carattere non-violento che la stessa parola indica: in-nocens, che non-nuoce. È la traduzione letterale di a-himsā che sembra sia stata dimenticata⁹. Non-violenza vuol dire non violare la dignità propria di ogni essere, la non violazione dell’ordine della realtà. Che tale discorso urga in un’epoca di violenze come l’attuale è evidente¹⁰.

    Nell’ordine ontologico è importante recuperare il valore dell’innocenza tanto nell’aspetto della conoscenza (logos) come in quello dell’Essere (ōn).

    Ne propongo qualche indicazione.

    Dio aveva ragione: se mangerete dell’albero che si trova nel centro del Paradiso, l’albero della conoscenza del bene e del male, morirete. Jahvè voleva forse dire che, se ci lasciamo guidare esclusivamente dall’etica, intesa come scienza razionale del bene e del male, moriremo?

    Ma anche il serpente non disse menzogna: se mangerete dell’albero vi si apriranno gli occhi e sarete come Dei (non come angeli, come dice la traduzione di Montserrat), conoscendo il bene e il male¹¹.

    Tuttavia questa conoscenza in un soggetto fragile, contingente come l’uomo, lo convertirà in un Dio mortale: non potrà sopportare la «conoscenza» del male.

    «[…] fece germogliare […] nel mezzo del giardino l’albero della conoscenza del bene e del male».

    Gen 2,9

    «L’uomo è diventato come uno di noi: ‘già conosce il bene e il male!’ e, se ora afferra il frutto dell’albero della vita, lo coglie e lo mangia, vivrà per sempre!».

    Gen 3,22

    «Scacciò l’uomo e pose a oriente dell’Eden i cherubini con la fiamma della spada folgorante per custodire la via all’albero della vita».

    Gen 3,24

    Che l’innocenza si perda disobbedendo a Jahvè e seguendo la voce del serpente lo sa tutto il mondo semitico e, con altre varianti, lo affermano praticamente anche tutte le tradizioni.

    «Sarete come Dio, conoscendo il bene e il male» dice la serpe. E tutti noi, tutti coloro che sono punti dalla curiosità di conoscere il bene e il male, sceglieranno la disobbedienza.

    Conosceremo il bene e il male, perderemo l’innocenza. La decisione di Adamo è ancora la nostra. Come lui abbiamo perso l’innocenza¹².

    La perdita dell’innocenza consiste nello scegliere l’albero della conoscenza, dimenticando l’albero della vita¹³. Solo Dio, un cuore assolutamente puro, può comprendere senza conoscere il bene e il male. Tanto Dio come il serpente ci dissero la verità. E questa è la condizione umana: essere tra il divino e il cosmico (non per nulla il serpente è quello che striscia per terra).

    La vecchia innocenza è stata perduta, come la si perde oggi: per la conoscenza svincolata dall’amore, per la mancanza di rispetto verso il mistero.

    Il mistero viene dato dalla trascendenza, da qualcosa che trascende l’uomo, dall’incomprensibile. Il comandamento divino è la voce della trascendenza: «Non mangerai di quel frutto». Ma l’uomo scopre che il frutto si può mangiare, che è possibile fare ciò che è proibito. L’uomo vuole sviluppare la sua potenzialità: fare tutto quello che gli è possibile. Questa è la tentazione più profonda della tecno-scienza: fare tutto quello che è possibile. Per quale motivo la scienza moderna dovrebbe accantonare la fusione dell’atomo, la manipolazione dei geni, la moltiplicazione del suo potere? Per quale ragione Dio, che ha dato all’uomo le possibilità di cui gode, vuole ora castrarlo nel suo desiderio di conoscenza? Forse aveva ragione il serpente dicendo che gli uomini sarebbero diventati come Dei, però Dei mortali e mortiferi.

    L’uomo mangia la mela, rompe l’atomo, isola i geni, accelera i ritmi… e si scopre nudo, insicuro, vulnerabile, lanciato a una velocità senza misura. L’uomo si converte in un soggetto che dipende dall’oggetto delle sue conoscenze. È la conoscenza del bene e del male. È la conoscenza che giudica, perché la conoscenza oggettiva non può evitare di farlo. Non è quella conoscenza che si trasforma nella cosa conosciuta, perché la conoscenza umana che può conoscere tutto non può essere tutto, in quanto l’uomo è limitato, contingente.

    La conoscenza umana è irreversibile: l’innocenza non si può recuperare. Né la cosiddetta «redenzione» cristiana ci vuole o ci può riportare nel primo Paradiso. La storia è irripetibile anche per un Dio. La realtà non ha leggi: è sempre novità.

    Può esserci una nuova innocenza? Quale Dio ci dirà che non conosceremo noi stessi, se non ci allontaneremo dall’albero della scienza? Anche se credessimo in lui, gli negheremmo il diritto di volerci mantenere nell’ignoranza, come un despota antico con il suo popolo. Per questo abbiamo già detto che non ci può essere una seconda innocenza e la nostalgia della prima non solo non ce la fa ritrovare, ma ci rende più infelici.

    Questo è il problema.

    La nuova innocenza dev’essere tanto nuova da non rimpiangere la prima: l’uomo ne ha perso l’esperienza e quando gliela si spiega non la desidera. Né vogliamo né possiamo rinunciare alla conoscenza del bene e del male. Siamo giunti a credere che siamo come Dei poiché viviamo praticamente in un mondo in cui Dio non gioca alcun ruolo realmente divino. La cosmologia scientifica, nella quale crede una gran parte del mondo, ha convertito Dio in un’ipotesi superflua, relegata, al massimo, alla sfera dell’intimità individuale. Un teismo forte e conseguente sarebbe intollerabile. Questa è la crisi dei monoteismi e l’islam ne è forse l’esempio più eclatante. Però il teismo addolcito e imprigionato del mondo moderno, dominato dalla tecno-scienza, risulta intollerabile per un Dio, per quante peripezie teologiche si vogliano fare: il Dio onnipotente è morto. Ricordiamo che la traduzione latina dei primi simboli cristiani del Credo è stata la causa (complessa certamente) di molti malintesi: omnipotens non suggerisce lo stesso significato di pantokrator.

    Che cosa vuol dire allora una nuova innocenza? Non sarà che il solo parlarne già la distrugga? Certamente! Ma questo costituisce uno dei suoi aspetti. Si può parlare della nuova innocenza malgrado essa sfugga alla conoscenza del bene e del male. È qualcosa che costantemente si perde e si acquista. Ci permette di parlarne solo al passato. È il suo ricordo che ci apre gli occhi per farci vedere che esisteva. Ma è il ricordo stesso che la mantiene nel nostro cuore quando questo è puro.

    La nuova innocenza non si fida della ragione. La forma tradizionale di dirlo è l’affermazione, tanto conosciuta e tanto deformata, che la fede ci salva, che è lei che ci resuscita e ci dà la vita eterna, quella che ci permette di mangiare dell’albero della vita.

    Che cosa vuol dire tutto ciò?

    In primo luogo, non continuare a mangiare dell’albero della conoscenza come se fosse quello della salvezza. Non si tratta di disprezzare la ragione, ma semplicemente di essere razionalmente scettici, di non porre la fiducia in essa e di aprire il terzo occhio (che è più del tertium genus cognitionis – l’intuizione di Spinoza). C’è un salto qualitativo tra il primo e il secondo grado di «conoscenza»; ma uno anche più grande fra il secondo e il terzo. Se il primo occhio ci dà fiducia in quello che i sensi ci «mostrano», e il secondo in ciò che la ragione ci «dice», il terzo rappresenta la fiducia che si ha nella stessa realtà (sine glossa, senza interpretazione). La saggezza è quell’atteggiamento umano che pone la sua fiducia non nella conoscenza ma nel cuore puro, la cui purezza include la trasparenza dell’intelletto. Solo l’innocente può essere libero. Libero dal regno della necessità (anagke) e universalità (katholon). La libertà non è «anarchia» (anarchia) bensì «idiosincrasia» (idiosygkrasia). Non è rifiuto di ogni principio ma scoperta del proprio valore. Questo richiede l’esperienza mistica.

    Dopo aver trascorso tutta la vita servendo la causa buddhista e praticando il buddhismo lui stesso, il grande imperatore Wu andò a trovare il maestro Bodhidharma, il fondatore dello zen, e gli domandò quale ricompensa potesse aspettarsi. Costui rispose laconicamente: «Nessuna

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