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Il tempo di una canzone: Saggi sulla popular music
Il tempo di una canzone: Saggi sulla popular music
Il tempo di una canzone: Saggi sulla popular music
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Il tempo di una canzone: Saggi sulla popular music

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Il tempo di una canzone è una raccolta di saggi sulla popular music, ai quali Franco Fabbri ha lavorato negli ultimi dieci anni e fino a tempi recentissimi. Soprattutto, più della metà sono stati scritti e pubblicati in altre lingue ed erano finora inediti in italiano: fra questi, alcuni sono in assoluto i più letti – nella lingua originale – da un vasto pubblico internazionale. La popular music è studiata dal punto di vista storico (dalla canzone napoletana e statunitense nella prima metà dell’Ottocento, fino al rebetico, e poi al rock, al beat, e alla canzone d’autore, dagli anni Cinquanta del Novecento ai giorni nostri), analitico (il sound delle surf bands, del progressive rock, di Peter Gabriel, di De André, della musica ascoltata in cuffia e in streaming), teorico (le classificazioni per generi, le diverse tendenze degli studi musicali, il plagio). C’è spazio anche per saggi sulla musica da film, per l’impatto delle tecnologie sulla produzione e sul consumo di musica, per riflessioni sull’industria editoriale e discografica e sul diritto d’autore.
LanguageItaliano
PublisherJaca Book
Release dateJun 1, 2021
ISBN9788816802933
Il tempo di una canzone: Saggi sulla popular music
Author

Franco Fabbri

È noto per essere stato uno dei primi studiosi della popular music, non solo in Italia. Fra i vari aspetti della sua personalità di musicista e studioso «polimorfo» (l’aggettivo è nella motivazione del Premio Tenco, conferitogli nel 2019) ci sono quelli di conduttore a Radio Tre, docente all’Università e al Conservatorio, amministratore di enti lirici e sinfonici, direttore artistico di rassegne musicali, redattore di riviste musicologiche, oltre alla più nota attività di cantante, chitarrista e autore nel gruppo degli Stormy Six, e co-fondatore (1974) de l’Orchestra, una delle prime etichette indipendenti italiane. È stato tra i promotori della International Association for the Study of Popular Music, fondata nel 1981, presieduta varie volte fino al 2019. Tra i suoi libri: Elettronica e musica (1984, introduzione di Luigi Nono); Il suono in cui viviamo (1996); Album bianco (2000); L’ascolto tabù (2005); Around the clock. Una breve storia della popular music (2008). Con Jaca Book ha pubblicato Non è musica leggera (2020).

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    Il tempo di una canzone - Franco Fabbri

    COS’È LA POPULAR MUSIC? E COSA NON È? UN RESOCONTO, DOPO TRENT’ANNI DI POPULAR MUSIC STUDIES

    «Cos’è la popular music?» («What Is Popular Music?») era il titolo della seconda conferenza internazionale di studi sulla popular music, che si tenne a Reggio Emilia nel 1983. La IASPM (International Association for the Study of Popular Music) esisteva già, ma i membri del comitato direttivo non trovarono che fosse sconveniente (o, quasi, bizzarro) chiedere a studiosi di molti paesi diversi di riflettere su cosa fosse veramente la popular music.

    Più tardi è parso che la domanda avesse finalmente una risposta: non solo nei nomi e nei titoli di istituzioni e riviste accademiche, ma soprattutto nel senso comune degli studiosi. A un certo punto l’acronimo PMS (Popular Music Studies) è diventato familiare a livello internazionale, come nome di una pratica interdisciplinare che apparentemente non aveva bisogno di spiegazioni. «Sappiamo tutti cosa sono i popular music studies», diceva qualcuno. Così si diffuse un riconoscimento consensuale non solo di cosa sia la popular music, ma anche di quali siano le pratiche dominanti nel suo studio.

    Tuttavia, sotto la crosta sottile di questo accordo apparentemente vasto si agitano e si scontrano correnti magmatiche, che emergono qua e là durante i convegni, nei blog e nelle mailing list, nei dibattiti istituzionali. Cercherò qui di seguito di mettere in evidenza alcuni problemi che mi sembrano collegati sia a quell’accordo di superficie, sia a quelle correnti profonde di disaccordo sull’identità dell’universo della popular music.

    Nel luglio del 2009 la IASPM organizzò la quattordicesima conferenza internazionale a Liverpool. Fui sorpreso nello scoprire che gli unici partecipanti che erano stati presenti anche alla prima conferenza, ad Amsterdam nel 1981, eravamo David Horn e io. Non poté passare inosservato il fatto che molti degli studiosi della prima generazione, perfino quelli che abitavano non lontano da Liverpool, non c’erano, e che altri (come alcuni studiosi statunitensi), che erano stati alle conferenze di Roma (2005) e di Città del Messico (2007), non se l’erano sentita di intraprendere il viaggio, più facile ed economico, verso le rive del Mersey: direi che durante le prime giornate questo fu uno degli argomenti di conversazione più comuni nelle pause fra le sessioni. Alcuni commentavano che le conferenze internazionali erano diventate luoghi dove gli studiosi più giovani cercavano di far progredire le loro carriere, altri aggiungevano che in Gran Bretagna le conferenze organizzate a livello locale durante l’anno accademico offrivano un focus migliore e date più convenienti, e quindi era là che i «grandi nomi» (o gli studiosi più anziani) andavano: tutti segni di una situazione matura, molto diversa dalle prime conferenze avventurose di Amsterdam o Reggio Emilia, per non dire di Accra, in Ghana (1987). Alla fine quella di Liverpool fu un’ottima conferenza. E soprattutto, quali che fossero le ragioni per cui gli studiosi ultrasessantenni non avevano partecipato, la crescita dei popular music studies negli ultimi trent’anni è stata tale che gli studiosi che erano stati alle primissime conferenze sarebbero stati comunque una minoranza.

    Ad Amsterdam nel 1981 erano state presentate diciotto relazioni, quarantuno a Reggio Emilia nel 1983, trecentoventisei a Roma nel 2005, duecentodiciassette a Città del Messico nel 2007, duecentoventidue a Liverpool nel 2009. È ovvio, anche se su questo non ci sono dati precisi, che la grande maggioranza degli studiosi di popular music attuali – un migliaio abbondante nel mondo, per quelli che abbiano un qualche ruolo nelle istituzioni accademiche – siano trentenni o quarantenni, e non erano presenti (alcuni proprio non erano ancora nati) quando la IASPM venne fondata e si tennero le prime conferenze. D’altra parte, uno studio storico dello sviluppo dei popular music studies non sembra esistere ancora. Per questo, chiedendo un po’ di pazienza ai lettori che c’erano fin dall’inizio (oggi avrebbero dai settant’anni in su), cercherò come prima cosa di investigare le origini degli studi organizzati sulla popular music, nei primi anni Ottanta del Novecento.

    Ho scritto «organizzati», perché non dedicherò più di qualche paragrafo a tentativi precedenti, più o meno isolati, di esaminare la popular music come oggetto di studio, come (andando a ritroso nel tempo), Rockmusik. Aspekte zur Geschichte, Ästhetik, Production (1977), di Wolfgang Sandner; o il dibattito Chester-Merton, e l’osservazione iniziale di Andrew Chester (1970a) che «negli ultimi tre anni la musica rock è stata considerata, sia all’interno che all’esterno della sua base sociale, come un argomento degno di seria attenzione critica» (e aggiunge: «Tuttavia, il livello della scrittura sul rock rimane basso, e il passaggio cruciale di fondare una vera e propria estetica del rock deve ancora essere affrontato»); o l’introduzione di Umberto Eco a Le canzoni della cattiva coscienza (Jona, Liberovici, Straniero, De Maria, 1964), e quello stesso libro; oppure On Popular Music (1941) e altri saggi, precedenti e successivi, di Adorno; o «The Popular Music Industry» di Duncan MacDougald Jr. (lo studio al quale si riferisce Adorno nel suo saggio più famoso), incluso in Radio Research 1941, a cura di Paul F. Lazarsfeld e Frank N. Stanton (che comprende anche il saggio di Adorno «The Radio Symphony. An Experiment in Theory»). Ciascuno di questi esempi, comunque, merita un po’ di attenzione, perché nel loro insieme aiutano a comprendere sia le ragioni per cui i popular music studies hanno faticato a introdursi nelle istituzioni educative e di ricerca, sia la forma che poi hanno assunto.

    Il saggio di MacDougald Jr. contiene una descrizione illuminante di quella che l’autore chiama «l’industria della popular music». Si tratta, naturalmente, dell’editoria musicale statunitense, o meglio di Tin Pan Alley nei tardi anni Trenta e negli anni Quaranta: questo rende il saggio uno strumento educativo formidabile per quei nostri studenti che per «industria musicale» (con la stessa fiducia inflessibile di MacDougald nel 1941, ma con un contenuto diverso) intendono l’industria discografica attuale, e solo quella. MacDougald descrive come l’editoria musicale creava, promuoveva e vendeva i suoi prodotti, suggerendo quasi inevitabilmente un carattere fordista nei processi produttivi, e sottolineando il ruolo del plugging (la promozione, con metodi leciti o illeciti). Leggendo il saggio si è indotti a credere che qualunque canzone i dirigenti dell’editoria musicale ritenessero essere stata «costruita» come si deve ai fini di ottenere successo l’avrebbe probabilmente ottenuto, purché si seguissero le opportune procedure di plugging. L’autore ammette onestamente che a volte il plugging non funzionava, e che certe canzoni potessero rimanere nell’oscurità, ma l’ideologia complessiva del saggio (comprensibilmente, visto che faceva parte di una corrente pionieristica di studi sull’industria culturale) sembra essere fondata su un’identificazione davvero troppo facile fra i processi dell’industria della popular music e quelli dell’industria fordista e le sue catene di montaggio. Come ci rivela una citazione da The Enquirer, l’industria musicale stessa guardava alla competizione fra canzoni per ottenere passaggi radiofonici più in termini sportivi (le corse di cavalli) che come un processo tecnologico deterministico, il che spiega anche la successiva adozione del termine «disc jockey»:

    «All the Things You Are» ha preso il primo posto, con undici lunghezze, guidato da Eddie Dolphin col suo staff, che ha portato anche «I Didn’t Know What Time It Was» al terzo posto a pari merito con Henry Spitzer della Chappell. Bel lavoro, ragazzi. «Who Told You I Cared» si è piazzato, sotto la guida di Norman Foley e Colleghi – lo staff di Jack Robbins ha pilotato «Lilacs in the Rain» in sesta posizione, mentre i guerrieri di Johnny White hanno infilato «Can I Help It» nella quinta casella. Lo staff Santly-Joy ha portato «Honestly» dal quattordicesimo al nono posto (The Enquirer, 18 dicembre 1939, cit. in MacDougald 1941, 99-100, mia traduzione).

    Ma questo potrebbe essere visto come un modo di romanticizzare un lavoro promozionale noioso, basato su scadenze concitate, plugging ad alta pressione, eccetera.

    La lettura del saggio di MacDougald da parte di Adorno, nel suo ben noto On Popular Music, si adegua all’interpretazione fordista. Il concetto-chiave è «standardizzazione», e oggi è difficile sfuggire al sospetto che il saggio di MacDougald fosse a quell’epoca la sua principale (o unica?) fonte di informazione sull’editoria musicale. In una nota Adorno scrive:

    Poiché il funzionamento reale del meccanismo di promozione sulla scena americana della popular music è descritto dettagliatamente in uno studio di Duncan MacDougald, il presente studio si limita alla discussione teorica di alcuni degli aspetti più generali del modo in cui il materiale viene imposto (Adorno 2004, 86, n. 13).

    Come minimo, si potrebbe dire che On Popular Music debba essere letto tenendo presente il saggio di MacDougald. Per essere più espliciti, si potrebbe dire che On Popular Music debba essere letto sapendo che le informazioni sui processi dell’editoria musicale sulle quali è basato sono tratte da un saggio ideologicamente distorto volto a presentare «l’industria della popular music» come una moderna industria fordista tout court, basata su prodotti standardizzati (la canzone di Tin Pan Alley di trentadue battute) e su procedure standardizzate.

    Questa non è la sede per una critica più articolata di On Popular Music e di Adorno, che si può trovare in molti saggi assai validi (Paddison 1982, Gendron 1986, Middleton 1990, Robinson 1994, Krims 2003), la maggior parte dei quali mettono in evidenza il fatto che la percezione da parte di Adorno della musica che lo circondava (quando non era musica «seria») fosse a dir poco disinformata. L’unica aggiunta che farei qui è che in tutto il saggio (a parte qualche accenno a dettagli dei testi delle canzoni) non c’è mai il benché minimo accenno ad abbozzare anche una brevissima analisi musicale di una canzone, mentre ci sono parecchie descrizioni (per quanto schematiche) di pezzi di Beethoven, Haydn, Wagner, eccetera; di tutte le canzoni si dice che sono basate su una struttura fissa di trentadue battute, e si trovano molte ripetizioni del concetto che i dettagli delle canzoni popular non sono mai correlati con il tutto, come avviene invece nella musica «seria», e che tutti gli elementi sono intercambiabili. Però, Adorno non si chiede mai perché le canzoni di Tin Pan Alley abbiano una struttura AABA e non, che ne so, ABAA. Ma permettetemi di notare che molti commenti critici sui saggi di Adorno risalgono ai primi anni degli studi «organizzati» sulla popular music, e questo è un segno dell’effetto che le teorie di Adorno ebbero sul loro sviluppo.

    È noto che Adorno, uno dei sostenitori più rispettati del modernismo in musica, era visto dopo la Seconda Guerra Mondiale come un punto di riferimento per gli intellettuali progressisti anche fuori dalle cerchie musicali, e dunque il suo atteggiamento disgustato e snob nei confronti della popular music e del jazz (o, come ormai sappiamo, nei confronti di ciò che egli pensava che quei generi fossero) contribuì a creare o innalzare una barriera volta a tenerli fuori dalle istituzioni educative e accademiche. I musicologi conservatori erano già contro la «musica leggera»: se il campione della musica moderna era contro anche lui, e gli scrittori, i drammaturghi, gli artisti, i filosofi, i politici progressisti si fidavano della sua critica implacabile (e, perbacco, davvero poco dialettica), chi si sarebbe mai mosso?

    Ma a volte tendiamo a dimenticare che le teorie di Adorno sulla standardizzazione erano usate anche all’interno del dibattito sulla popular music, e non dubito che in una certa misura esse contribuirono (in modo dialettico, tipicamente adorniano) allo sviluppo dei popular music studies.

    Un esempio ci è fornito da Le canzoni della cattiva coscienza, un libro pubblicato nel 1964, scritto da Michele L. Straniero, Sergio Liberovici, Emilio Jona e Giorgio De Maria, in precedenza membri del collettivo di cantanti, autori, poeti, saggisti che si diede il nome di «Cantacronache», fondato a Torino nel 1957-58 con l’obiettivo dichiarato di «evadere dall’evasione». Mentre il lavoro musicale del collettivo (che comprendeva anche Margherita Galante Garrone detta Margot e Fausto Amodei, e al quale collaborarono anche intellettuali come Italo Calvino, Franco Fortini, Umberto Eco e altri) era influenzato da modelli francesi e tedeschi (Georges Brassens, le canzoni di Brecht-Eisler, Ernst Busch), la loro posizione critica era stata plasmata fortemente da alcuni dei saggi di Adorno, che erano stati tradotti in italiano. Non On Popular Music (una traduzione italiana fu pubblicata molto più tardi, nel 2004), ma in modo particolare Dissonanzen, la raccolta di saggi che comprendeva «Über den Fetisch-charakter in der Musik und die Regression des Hörens» («Il carattere di feticcio della musica e il regresso dell’ascolto»), pubblicata in italiano nel 1959 (Adorno 1959a), tradotta da Giacomo Manzoni (critico musicale, e uno dei maggiori compositori della «musica nuova», dell’avanguardia, che scrisse anche delle musiche per il Cantacronache).¹ Anche Filosofia della musica moderna fu tradotto da Manzoni e pubblicato nello stesso anno. Si può dire, quindi, che l’introduzione presso il pubblico italiano di alcuni degli scritti musicali più importanti di Adorno avvenne (cronologicamente, e anche geograficamente) molto vicino ai membri e ai collaboratori del Cantacronache. L’impatto sulla musicologia italiana e sugli ambienti intellettuali fu a dir poco esplosivo. Alcuni dei saggi de Le canzoni della cattiva coscienza (specialmente quello di Liberovici) attaccano i prodotti dell’industria musicale di quell’epoca con gli stessi toni delle critiche adorniane più sprezzanti nei confronti della musica di largo consumo. Ma ci sono due differenze importanti. Primo, canzoni e arrangiamenti sono sottoposti ad analisi dettagliate, per quanto spesso basate su pregiudizi adorniani, qualche volta rovesciati: così, mentre Adorno sembra rispettare gli arrangiatori più degli autori di canzoni, Liberovici tratta la pratica dell’arrangiamento in sé come una forma di corruzione, in conformità con gli accompagnamenti ridotti all’osso dei dischi prodotti dal Cantacronache. Secondo, Le canzoni della cattiva coscienza porta avanti l’idea che possano esserci «altre» canzoni, e che la creazione di canzoni può sfuggire al meccanismo alienante dell’industria musicale, proprio come il Cantacronache aveva fatto per qualche anno. Umberto Eco, nella sua prefazione, riconosce lo sforzo da parte degli autori del libro nel costruire una critica della «musica gastronomica» o della «canzone di consumo», ma riconosce anche l’esistenza di «un filone attivo di autori, musicisti e cantanti che fanno le canzoni in modo diverso dagli altri» (Eco 1964a, 11: il corsivo è suo), e della «proposta di una canzone diversa» (ivi, p. 12). È interessante notare che Eco osserva che «la canzone diversa richiede rispetto e interesse» (p. 13), e che dunque «rappresenta ancora, sia pure a livello di una cultura di massa, un’opzione colta» (ibid.). Ciò che Eco suggerisce nelle pagine successive è un’analisi profonda, senza pregiudizi aristocratici, delle cosiddette «canzoni di consumo» (che nell’ambito degli studi attuali sarebbero rubricate come popular music mainstream): un’analisi volta non tanto a una critica distruttiva delle pratiche industriali, quanto a capire i bisogni emotivi e culturali fondamentali di coloro che ascoltano quelle canzoni. E si domanda: la canzone «diversa» soddisfa quei bisogni? Sotto molti aspetti, quindi, Eco prende distanza dal libro che gli è stato chiesto di presentare, come si può dedurre anche dalla sua frase conclusiva: «In quest’ordine di idee, il libro dei nostri quattro autori va quindi accolto come un primo passo (una indispensabile pars destruens) di una discussione la cui prosecuzione si fa sempre più urgente» (p. 28). La «Prefazione» di Eco fu pubblicata in quello stesso anno anche nella sua raccolta di saggi Apocalittici e Integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, col titolo «La canzone di consumo» (Eco 1964b). Probabilmente per evitare un riferimento preciso al libro per il quale era stato scritto quel testo, la frase conclusiva è stata tagliata: per quanto Apocalittici e integrati sia stato, all’epoca, al centro di un dibattito vivace all’interno delle cerchie intellettuali italiane, e nonostante abbia segnato l’inizio di una nuova stagione negli studi sulla comunicazione di massa (includendo, fra i vari argomenti, la radio, la televisione, la pubblicità, i fumetti), quella discussione «sempre più urgente» sulla canzone di fatto non continuò.²

    Il suggerimento che possano esistere pratiche e ideologie d’opposizione basate sulle contraddizioni interne al campo della popular music era stato formulato fin dagli anni Cinquanta da sociologi come David Riesman (1950) o Howard S. Becker (1963),³ talvolta con una critica esplicita, o anche implicita, alle teorie di Adorno. Sia che si considerasse la contrapposizione tra i fan del rock ‘n’ roll e i sostenitori delle canzoni di Tin Pan Alley e dei crooners, o quella fra i musicisti professionisti vicini al jazz e la musica da ballo commerciale, o quella fra gli operatori di folk revival e i cantanti pop (rappresentata in modo paradigmatico dallo «scandalo» di Newport del 1965), si può dire che ora della metà degli anni Sessanta si era istituito nei suoi termini essenziali un dibattito «commerciale vs. anticommerciale», basato sull’idea di base (contraria a tutti gli scritti di Adorno sull’argomento) che la popular music non è necessariamente perduta nelle mani avide dell’industria, e che può essere «salvata».

    I caveat di Eco sulle canzoni «diverse» restarono sconosciuti, o inascoltati. Il dibattito Chester-Merton del 1970 (Chester 1970a, Merton 1970, Chester 1970b) dimostra come Adorno possa essere «usato» all’interno di un discorso nel quale il valore estetico della popular music sia preso in considerazione, o addirittura dato per scontato, e non solo quando Merton (citando un articolo precedente) afferma: «Forse una polarizzazione Stones/Beatles come quella che Adorno costruì fra Schönberg e Stravinsky potrebbe essere davvero un esercizio fruttuoso» (Merton 1970). Rock vs. pop, l’autonomia dell’opera musicale vs. il contesto, l’approccio musicologico verso quello socioculturale, l’integrità di un brano musicale vs. l’analisi delle sue parti costitutive, l’analisi musicale vs. la critica del testo verbale, l’intensionalità vs. l’estensionalità: molti dei concetti-chiave del dibattito successivo sono già presenti sotto l’ombrello del materialismo dialettico, e adombrati dal suggerimento perenne (di Lenin, di Mao) che «il popolo non è mai una categoria stabile: la sua identità è mutevole e congiunturale, perché è continuamente ridefinita dal conflitto tra le classi e dalla loro cultura» (Lenin, Collected Works, Vol. 9, 112, cit. in Merton 1970, traduzione mia).

    «La semplicità familiare dell’espressione [popular music]», scrive Merton, «nasconde delle sabbie mobili. Chi è il popolo?» Una bella domanda. Il giornalismo rock degli anni Settanta evita le sabbie mobili, o ci si butta dentro a cuor leggero, identificando il «popolo» con il pubblico giovanile del rock: il rock è la popular music moderna, il rock è la musica folk odierna (Landau 1972, 130), il rock è perfino (nell’annotazione in qualche modo ironica di Wolfgang Sandner) «die E-Musik der Popmusik» (la musica seria della musica pop, Sandner 1977, 31). È il rock che merita attenzione critica, anche in saggi seri (Laing 1970, Gillett 1970, Denisoff e Peterson 1972, Marcus 1975, Sandner 1977), per la sua rilevanza sociale e politica nelle società contemporanee «avanzate», e per la sua crescente raffinatezza musicale. La rivista Popular Music and Society, fondata nel 1971, accetta costruttivamente la vaghezza di entrambi i concetti, «popolare» e «società», ma (mentre ci sono altri argomenti possibili che potrebbero essere periferici agli interessi della rivista, perché sono scarsamente popolari o perché non vengono analizzati con la società sullo sfondo) non c’è dubbio che il rock sia al tempo stesso popolare e sociale. La pionieristica raccolta di saggi di Sandner è sotto molti aspetti esemplare di questo clima, e allo stesso tempo anticipa alcuni sviluppi successivi: è intitolata Rockmusik. Aspekte zur Geschichte, Ästhetik, Production (La musica rock. Prospettive sulla storia, estetica, produzione); è pubblicata da Schott, la storica casa editrice musicale e accademica tedesca; contiene saggi di uno dei fondatori della moderna sociologia della musica, Tibor Kneif; e contiene trascrizioni e analisi di pezzi di Chuck Berry e dei Gentle Giant. Lo studio di queste musiche non è ancora ammesso nelle istituzioni, ma bussa fortemente alla loro porta.

    Ma prima di arrivare alla fondazione degli studi «organizzati» sulla popular music, dobbiamo considerare un’altra forza propulsiva, distinta e complementare, separata da quelle della critica sociale e culturale, del giornalismo rock e della prima musicologia rock, o delle esigenze dei musicisti e produttori rock, in cerca di riconoscimento per il loro lavoro sempre più complesso. Parlo degli insegnanti e dei docenti di musica. Gli insegnanti (in vari paesi europei) erano sotto pressione da parte dei loro studenti, i quali chiedevano spiegazioni sulla musica che ascoltavano: si sentivano disorientati, perché la maggior parte di quella musica era fuori dalla copertura dei loro curricula professionali. Lo stesso avveniva per i docenti di musica che lavoravano nelle scuole. Vale la pena di notare che tre delle diciotto relazioni presentate ad Amsterdam nel 1981 si occupavano di questo (Tagg 1982, Josephs 1982, Straarup 1982). E c’erano anche docenti di musica indipendenti, musicisti jazz, rock, pop, folk, ancora attivi o ormai dediti solo all’insegnamento, che desideravano discutere i propri metodi con i colleghi, alla ricerca di un riconoscimento sociale o istituzionale: si domandavano come mai gli strumenti, i generi e le teorie che insegnavano non potevano essere introdotti nei conservatori o nelle università. In alcuni paesi tutto questo finì per tradursi in un importante movimento sociale: in Italia portò alla fondazione (nel 1979) di una rivista, Laboratorio musica – diretta da Luigi Nono e pubblicata insieme dall’editore Ricordi e dall’Arci (l’organizzazione culturale e ricreativa della sinistra) – che ospitò alcuni dei primi studi sulla popular music dopo Le canzoni della cattiva coscienza.

    L’insieme di questa corrente era meno focalizzato sul rock, e più orientato a considerare tutti i generi e le culture musicali esclusi dall’accademia; era sensibile a problemi locali e (sotto la spinta delle correnti ideologiche di quel tempo) all’«imperialismo culturale». Sostengo che questi aspetti devono essere considerati per spiegare come mai il raggio dei popular music studies (o della relativa ricerca, come nel titolo della conferenza del 1981) fu allargato a comprendere tutti i generi, i repertori, le culture, gli eventi esclusi dalle istituzioni accademiche, includendo prodotti industriali specialistici come la musica per il cinema e la televisione, le sigle, i jingle, e naturalmente le culture musicali di ogni parte del mondo, sempre usando la stessa espressione angloamericana, «popular music».

    Anche se la metafora della «corrente» è da prendere con le molle, direi che gli studi organizzati sulla popular music ebbero inizio quando l’ondata di studi più recente (basata soprattutto su musicologia e semiotica) si congiunse con la corrente preesistente degli studi sociologicamente e antropologicamente orientati, con l’intermediazione dei cultural studies della scuola di Birmingham (basata sulla tradizione della sociologia, ma influenzata dallo strutturalismo e dal post-strutturalismo francese). Un quadro troppo semplice, forse, ma abbastanza adatto a descrivere i diversi interessi disciplinari degli studiosi (e dei musicisti, insegnanti, giornalisti, programmatori radiofonici) che presero parte alle conferenze sulla ricerca nella popular music all’inizio degli anni Ottanta, o di quelli che scrissero articoli per la rivista Popular Music, da poco fondata. In ogni modo, ci sono tracce consistenti di quella confluenza nello Statuto della IASPM (articolo 2.1):

    L’obiettivo dell’Associazione è di fornire un’organizzazione internazionale, interdisciplinare e interprofessionale per promuovere lo studio della popular music. Un principio-guida dovrebbe essere quello di stabilire nella politica e nell’attività dell’Associazione una rappresentanza corretta ed equilibrata fra diversi continenti, nazioni, culture e specializzazioni.

    Non c’era alcun suggerimento di fondare una nuova disciplina, chiamata «popular music studies». Piuttosto, si alludeva al fatto che lo studio della popular music avrebbe potuto o dovuto cambiare le strutture delle discipline esistenti, e specialmente la musicologia: si veda, ad esempio, l’invito di Richard Middleton a ri-costruire la storia della musica (1985a e 1985 b), o l’affermazione da parte di Philip Tagg che ciò di cui si aveva veramente bisogno non era un’associazione per lo studio della popular music, ma un’associazione per lo studio popolare della musica. Questi inviti e queste affermazioni non erano nuovi nella storia delle musicologie: erano state centrali nello sviluppo di discipline nuove, ogni volta che le resistenze degli studiosi conservatori (e potenti) bloccavano l’inclusione di nuovi argomenti, fin dalla nascita della musicologia comparata, e fino alla nascita dell’etnomusicologia e dell’antropologia musicale. Bisogna dire, però, che le promesse di includere più musiche (o tutte le musiche) come oggetto di studio delle musicologie nuove o estese non furono mai veramente mantenute: per un periodo molto lungo nella storia dell’etnomusicologia la popular music era stata vista come il campo del nemico, e perfino il tentativo di Charles Seeger di concepire un campo unificato della musicologia (Seeger 1970) escluse certe musiche che all’autore non erano gradite! La questione del valore o del gusto, basata anche su una tradizione weberiana di lunga data, può spiegare l’inclusione nel secondo volume della rivista Popular Music di un articolo come «On Being Tasteless» (Sul non avere gusto) di William Brooks, ed è una delle ragioni per le quali il primo approccio monumentale di Philip Tagg (1981) a una singola canzone riguarda «Fernando» degli Abba e non, per esempio, «Design» dei Gentle Giant, il pezzo analizzato nel libro di Sandner del 1977 (entrambe le canzoni erano del 1976):

    […] quando la Mahavisnu Orchestra, i Gentle Giant o simili esponenti di un rock «difficile» suonano per i loro fan, è da discutere se quelle occasioni debbano essere chiamate «popular», dato che la funzione sociomusicale sottintesa comprende fenomeni socioculturali del tutto tipici della musica d’arte, come l’identificazione in un gruppo di pari, collegata a nozioni di superiorità estetica (Tagg 1979a, mia traduzione).

    Dunque, lo sforzo di definire la popular music, in un quadro teorico che permetta di considerare differenze e analogie tra diversi tipi di musica, può essere visto non solo come la ricerca indispensabile dei «confini» di un nuovo campo di studi, ma anche, e piuttosto, come un modo di trovare una base oggettiva, per evitare che i popular music studies diventino semplicemente la raccolta degli interessi e dei gusti degli studiosi.

    Mi si permetta un’osservazione personale. Vorrei precisare che non vedo niente di male nello studiare come vengono creati valori e canoni, o come si forma il gusto (e come funziona), in qualsiasi cultura musicale, che sia il tardo romanticismo europeo, lo heavy metal, la cultura dei Kaluli. E mi interessa moltissimo l’importanza di argomenti come questi in quella che potremmo chiamare metamusicologia: vale a dire, perché uno decide di studiare Mahler, i Kiss o la musica del popolo che vive nella regione del Bosavi? Ma questa è un’altra questione. Quando presentai la mia «teoria dei generi», ancora a uno stato abbastanza primordiale, alla conferenza di Amsterdam del 1981, un caro amico mi disse: «Bene, hai fatto una panoramica dei generi esistenti, e di come funzionano. Ma ciò di cui abbiamo davvero bisogno è una teoria che permetta di stabilire quale genere è il migliore

    Di fronte al sobbollire dell’adornismo, residuo dell’estetica rock degli anni Settanta ma anche dovuto alla presenza incombente di quel convitato di pietra nei discorsi accademici (una delle relazioni presentate ad Amsterdam era intitolata «Et si l’on reparlait d’Adorno?», Beaud 1982), molti degli studiosi di popular music attivi nei primi anni Ottanta presero distanza dalle questioni del gusto e del valore, in molti modi e per diverse ragioni: alcuni – come Tagg – si trattennero addirittura dallo studiare musica della quale erano appassionati, scegliendo di lavorare invece sul mainstream della popular music transnazionale; alcuni misero in guardia contro l’egemonia dell’atteggiamento canonista della musicologia convenzionale, col sottinteso che gli studi sulla popular music dovevano consolidarsi prima di occuparsi estensivamente di generi (per così dire) ad alta intensità valoriale, come il progressive rock o l’avant-rock. Questa pregiudiziale anti-esteticista era probabilmente troppo rigida, ma fece scaturire discussioni utili, ad esempio sulla popular music non commerciale (o unpopular popular music), definita da Umberto Fiori nella sua relazione alla conferenza di Reggio Emilia del 1983:

    Dovremmo dire che trentamila persone che ascoltano Anthony Braxton a Perugia sono un’élite sociale? Che numero di ascoltatori è necessario per permetterci di parlare senza ambiguità della musica che ascoltano come popular music? Che numero di ascoltatori è necessario perché possiamo considerare le loro motivazioni come «il bisogno di musica migliore», invece che come «la ricerca di superiorità estetica»? In altre parole, la popular music è definita in qualche modo dalla quantità? […] La popular music non commerciale è comunque popular music (Fiori 1985, 14).

    Ricordo che allora mi trovai in disaccordo sia con Fiori che con il passaggio di Tagg nel suo Kojak (quello che ho citato prima), criticato da Fiori. Penso che nessuno chiamerebbe la musica di Anthony Braxton «popular music», qualunque sia il numero dei suoi ascoltatori (e sono sicurissimo, avendo conosciuto Braxton, che nemmeno lui lo farebbe mai): nella sua polemica, Fiori cadeva nella stessa trappola quantitativa verso la quale metteva in guardia. E, allo stesso tempo, veniva a trovarsi nelle stesse sabbie mobili descritte a suo tempo da Merton, identificando i giovani italiani di sinistra (che formavano il pubblico di Umbria Jazz nei tardi anni Settanta) con il «popolo». Ma certo aveva ragione – specialmente in una conferenza intitolata «What Is Popular Music?» – a indicare che qualsiasi definizione della popular music dovesse essere compatibile con l’esistenza della popular music non commerciale. Aggiungerei, in parziale disaccordo con Tagg, che la muso music, la musica che i musicisti dilettanti e professionali amano, ma che non riscuote particolare successo presso il grande pubblico, dovrebbe interessare molto agli studiosi, per l’influenza che esercita su comunità molto importanti ai fini della produzione di popular music.

    Ma torniamo alle definizioni. In contemporanea con l’emissione del Call for papers per la seconda conferenza internazionale della IASPM (intitolata, appunto, «What Is Popular Music?»), la Cambridge University Press stava per pubblicare il secondo volume (intitolato «Theory And Method») della rivista Popular Music. Non è una coincidenza, naturalmente. Molti degli articoli di quel volume si occupano della questione delle categorie musicali, collegandola a problemi metodologici: «Analysing Popular Music: Theory, Method And Practice» di Philip Tagg (1982b), «A Theoretical Model For The Sociomusicological Analysis Of Popular Music» di John Shepherd (1982), «Editor’s Introduction To Volume 2» di Richard Middleton (1982), e il mio «What Kind Of Music?» (Fabbri 1982b). Un’intera sezione della conferenza di Reggio Emilia è intitolata «Theoretical Perspectives», e penso che sia utile elencare tutte le relazioni che ne facevano parte: «What Is Popular Music?» di Chris Cutler (1985), «Popular Music: Theory, Practice, Value» di Umberto Fiori (1985), «Popular Music, Class Conflict And The Music-Historical Field» di Richard Middleton (1985), «Popularity in Music: Some Aspects Of A Historical Materialist Theory Of Popular Music» di Peter Wicke (1985), «A Latin-American Approach In A Pioneering Essay» di Coriún Aharonián (1985), «The Wondrous World Of Popular Intonation», di Vladimir Zak (1985), «Definition As Mystification: A Consideration Of Labels As A Hindrance To Understand Significance in Music» di John Shepherd (1985), «Definitions And Research Orientation: Do We Need A Definition Of Popular Music?» di Frans. A.J. Birrer (1985), «Popular Music In The Terminology Of Communication And Information Theory», di Manfred P. Galden (1985).

    Nel suo saggio Shepherd cita un articolo di Gaynor G. Jones e Jay Rahn, «Definitions of Popular Music: Recycled» pubblicato nel 1981 in una raccolta di scritti sulla Nuova Musica (!), messa insieme da Gregory Battcock (altri articoli sono, fra gli altri, di Earle Brown, Cornelius Cardew, Brian Eno, Nam June Paik, Steve Reich):

    Ci sono almeno dodici criteri in base ai quali si può determinare la popolarità di qualsiasi musica: 1) il numero delle persone coinvolte; 2) l’omogeneità e l’eterogeneità, prese insieme, del pubblico; 3) l’impredicibilità degli ascoltatori; 4) la dimensione dell’impresa che commercializza il prodotto; 5) l’efficacia (vale a dire, l’ampiezza e l’economicità) della trasmissione; 6) la trasmissione uditiva, piuttosto che visiva; 7) la funzione non spirituale, o di intrattenimento; 8) la semplicità dell’oggetto estetico; 9) l’enfasi sull’esecutore piuttosto che sull’autore; 10) la standardizzazione; 11) l’ampiezza della variabilità; 12) il grado di efemeralità (Jones e Rahn 1981, 47-48, mia traduzione).

    Non ci sono dubbi sul perché Shepherd trovasse che le etichette sono un ostacolo per la comprensione del significato in musica, o perché Fiori sospettasse la presenza di criteri quantitativi! E, mi si lasci dire, questi dodici criteri appaiono oggi come il paradigma delle posizioni più reazionarie sulla popular music (che, in alcuni casi, ancora vengono insegnate nei Conservatori italiani!). Tuttavia, elenchi di criteri formalmente simili a quelli di Jones e Rahn potevano essere messi insieme dispiegando descrizioni più complesse di un campo musicale multidimensionale, come quelle presentate da Tagg in un grafico (1982b, 42), o da me: «Un sistema esaminato in questo modo apparirebbe come una matrice con righe di regole e colonne di generi, dove ogni singolo elemento aij indicherebbe il valore della regola i per il genere j» (Fabbri 1982, 54).

    Un «sistema», nella «teoria dei generi» che presentai nei primi anni Ottanta, era una raccolta o insieme di generi, e quindi lo schema poteva essere applicato a qualsiasi combinazione di tipi di musica: sottogeneri che appartengono a un genere; generi che appartengono a una categoria musicale come «d’arte», «folk», «popular»; o categorie come quelle appena citate, appartenenti alla «musica», intesa come l’insieme di tutte le musiche (gli eventi musicali) del mondo. Di fatto quella teoria si è evoluta, fino a tempi molto recenti, da una teoria dei generi all’interno della popular music a una teoria della categorizzazione musicale, applicabile a tutti i tipi di musica, comprese le singole «opere», che in realtà sono – secondo il mio punto di vista – insiemi di eventi musicali distinti ai quali ci si riferisce con lo stesso nome (Fabbri 2006).

    Non era (e non è) una teoria normativa, dato che le norme, le regole, i codici (e anche i prototipi, la «arie di famiglia», eccetera) che definiscono un genere o un tipo di musica devono essere scoperte empiricamente e non sono basate sulle ipotesi degli studiosi (che sono, comunque, soggette alla falsificazione popperiana); e non era (e non è) una teoria «statica», come qualcuno ha detto (Frith 1996, Negus 1999, Santoro 2010), perché l’interazione e la stratificazione di norme e codici differenti, nel contesto di competenze diverse e di comunità mutevoli, danno ai generi e alle altre categorie musicali una qualità sfumata, vibrante, in continuo cambiamento. L’aspetto di quella teoria che mi soddisfaceva di più era precisamente la sua capacità di descrivere come i generi potessero essere formati, come potessero essere interpretati diversamente da comunità diverse, come potessero evolvere e perfino scomparire. Cosa c’è di «statico» in questo?

    Le categorie musicali sono più categorie «folk» che taxa scientifici: un certo tipo di musica, e perfino la musica stessa, è definito dalle persone che svolgono «qualunque tipo di attività intorno a qualunque tipo di suoni», come ha affermato Stefani (1976). E la musica è «qualunque cosa una comunità consideri come tale» (Stefani e Guerra Lisi 2004, 126-127), ha aggiunto, con un riferimento ovvio ed esplicito alle affermazioni di John Cage e di Luciano Berio su questo argomento. Questa accettazione di una definizione emic della musica e delle sue sottocategorie non era ancora chiara in tutte le teorie e discussioni sulla definizione di popular music nella prima fase degli studi organizzati, ma era la base implicita di una buona percentuale delle relazioni presentate a Reggio Emilia nel 1983, quelle che si occupavano di «National And Regional Perspectives». Molte di quelle erano su comunità non anglofone, e dunque il problema di tradurre «popular music» nelle espressioni corrispondenti (se ce n’erano) in altre lingue (o viceversa) aggiungeva complessità al compito di capire se una certa cultura o attività musicale dovesse essere considerata «folk» o «popular», o qualcos’altro. Infatti, alla seconda conferenza della IASPM (seconda anche, sotto questo aspetto, solo a quella di Città del Messico del 2007) parteciparono molti etnomusicologi, dato che la domanda formulata nel titolo li sollecitava a mettere alla prova i «confini» della loro disciplina. «Musica popolare» in italiano significa musica tradizionale (o folk), e infatti quando il grafico mi portò la sua idea per il manifesto della conferenza non fui troppo sorpreso nel vedere che aveva disegnato una specie di banjo a sei corde, dove le corde erano tese fra un cielo blu e una terra verde. Seguendo i miei consigli (a quel punto non avevamo né tempo né denaro per cambiare del tutto il manifesto) il grafico aggiunse un cavo per chitarra rosso, a spirale, col suo bravo jack.

    Questa, forse, può essere una dimostrazione del concetto che qualunque cosa uno consideri come popular music, di fatto è popular music: che non è esattamente quello che volevo dire parlando di categorie «folk», di descrizioni emic, di Stefani, Cage, Berio e così via. Ma può essere certamente un’introduzione al clima che seguì dopo Reggio Emilia e quella particolare attenzione alle definizioni, specialmente se si considerano i tempi, i luoghi, i contesti e gli obiettivi delle conferenze successive: Montreal nel 1985, la prima conferenza in Nord America, dopo una rapida crescita della IASPM come organizzazione veramente internazionale; Accra nel 1987, un tributo alla musica africana nell’anno dell’«invenzione» commerciale della world music; Parigi nel 1989 (la storia, naturalmente); Berlino nel 1991 (avrebbe dovuto essere a Berlino Est, ma il Muro fu abbattuto prima). Nel frattempo, la comunità degli studi sulla popular music aveva adottato qualche definizione del suo oggetto? Aveva accettato i suggerimenti di Shepherd o di Birrer che le definizioni erano un ostacolo, o semplicemente non ce n’era bisogno? O forse era in cerca di definizioni nuove e più convincenti?

    Verso la fine di quel periodo l’allora giovane studioso italiano Roberto Agostini scrisse un articolo intitolato «Studiare la popular music» (Agostini 1992) per un libro curato da Gino Stefani (1992), che raccoglieva i risultati di alcuni studi italiani pionieristici (erano tutti estratti da tesi sostenute all’Università di Bologna, in un’epoca nella quale quegli studi erano in pieno rigoglio, grazie al lavoro di Stefani, di Mario Baroni e di Roberto Leydi). Agostini dice:

    La recente discussione sul tema della popular music ha appunto avuto origine da questa sorta di nozione intuitiva di popular music, che a livello generale trova un sostanziale accordo, ma che a livello più approfondito rivela una notevole poliedricità e suscita divergenze. All’interno dell’universo musicale contemporaneo è infatti possibile ritagliare intuitivamente un vasto insieme di attività musicali che non sono né colte né folk che spazia dal punk al rock ‘n’ roll, dal reggae allo hip-hop, dalle sonorizzazioni ambientali ai jingles, dalle musiche del cinema e della televisione alle canzoni di ogni genere, fino a raggiungere zone di più difficile classificazione come il jazz, il rock «progressivo», il tango, il minimalismo. Ora, malgrado le evidenti diversità, abbiamo comunque l’impressione di trovarci di fronte ad una certa omogeneità, ad alcuni elementi comuni (vedi Tagg 1979a e Fabbri 1985, 11-14). Infatti, tutte queste attività musicali:

    – non si studiano nelle istituzioni pubbliche (conservatori, università, scuole di ogni tipo, istituti di ricerca);

    – sono inserite nel contesto di attività complesse (messaggi multimediali, sottoculture e controculture, sottofondo di ambienti pubblici e privati);

    – circolano perlopiù attraverso forme riprodotte (mezzi di comunicazione di massa, dischi, nastri, cd, ecc.) e sono prodotte principalmente in

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