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In difesa di Don Giovanni
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In difesa di Don Giovanni

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About this ebook

In un periodo in cui don Giovanni è il più delle volte rappresentato come un playboy violento, la difesa della sua figura viene da una donna che rivendica la propria appartenenza femminista, mettendola in tensione con la carica eversiva del personaggio. Non solo seduttore, ma oppositore irriducibile, assunto a incarnare un potenziale di libertà che comprende anche la spietatezza e la beffa, rievocando gli ideali e le illusioni degli anni Sessanta.
Il testo alterna dialoghi immaginari tra la narratrice e don Giovanni a capitoli in cui lei stessa racconta di incontri con specialisti e appassionati del mito di don Giovanni. Tra le versioni del mito che vengono presentate nei dialoghi: il racconto orale (di cui si trovano tracce fin dal Quattrocento) su Leonzio allievo di Machiavelli e dannato per il suo ateismo, messo in scena dai gesuiti di Ingolstadt nel 1615; la Commedia dell’Arte e il teatro dei burattini; l’opera di Mozart e Da Ponte; le versioni di Tirso de Molina, Molière, Byron, Hoffmann, ma anche di Ellery Queen, e quelle di film in cui don Giovanni e  impersonato da Erroll Flynn (1948) o Marlon Brando (1995); le storie di Porfirio Rubirosa e Fred Buscaglione; e – grazie a un’interpretazione innovativa – le rielaborazioni coloniali e postcoloniali del mito di don Giovanni.
LanguageItaliano
Release dateNov 10, 2020
ISBN9791280124203
In difesa di Don Giovanni
Author

Luisa Passerini

Luisa Passeggini è Professore Emerita di Storia all'Istituto Universitario Europeo di Firenze. Tra i suoi libri: Conversation on Visual Memory (2018); Women and Men in Love. European identity in the Twentieth Century (2012); Memoria e utopia. il primato dell'intersoggettività (2003); L'Europa e l'amore (1999); Autoritratto di gruppo (1988, 2008); Torino operaia e fascismo (1984).

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    In difesa di Don Giovanni - Luisa Passerini

    Parola di Donna

    Luisa Passerini

    In difesa di don Giovanni

    Mitobiografia di una femminista

    manifestolibri

    Parola di donna

    a cura di

    Teresa Bertilotti

    Simona Bonsignori

    © 2020 manifestolibri

    la talpa srl, Roma

    Isbn 979-12-8012-420-3

    Fatti salvi i diritti degli eventuali aventi causa

    www.manifestolibri.it

    info: book@manifestolibri.it

    Promozione: ufficiostampa@manifestolibri.it

    …fermo

    sostenne in tutto il peso lo sguardo delle donne

    Rainer Maria Rilke

    Overture

    Primo dialogo immaginario

    Una domenica mattina di metà settembre

    Nei momenti di distrazione mi raggiunge la voce di don Giovanni. Fa osservazioni, commenti, domande, in genere ironiche o addirittura caustiche. Il più delle volte non rispondo. Oggi, mentre passeggio lungo i Murazzi del Po in vista di Superga, mi interpella direttamente:

    – Sono quasi trent’anni che mi insegui collezionando ogni indizio su di me, dai racconti alla saggistica e alle locandine di spettacoli, tanto che mi hai dedicato un intero scaffale della tua biblioteca. Non sarebbe ora di tirare le fila? Lo so che mi ritieni estraneo al tuo lavoro di ricercatrice e docente, anzi hai paura che guasti ulteriormente la tua figura pubblica, già messa alla prova da alcuni tuoi libri e atteggiamenti. Però ormai sei in pensione da tempo… O forse temi che la mia fama sia incompatibile con la reputazione di femminista?

    È vero che la mia infatuazione dongiovannesca mi sembra politicamente scorretta, e che sul piano professionale sconfina in un passato più remoto dell’unico secolo di cui so qualcosa, il Novecento. Non a caso questa passione si è accentuata da quando mi sono ritirata dall’università, convinta che avrei smesso la ricerca specialistica per dedicarmi alla libera lettura e a una scrittura più creativa. Da allora la voce del seduttore è diventata più frequente, e me lo ritrovo sempre tra i piedi. O meglio, nella testa, come adesso:

    – Io credo che la tua fissazione abbia radici lontane. Nell’adolescenza e nell’età adulta, quando divoravi l’esistenza e volevi fare tutto quello che ti piaceva — o credevi ti piacesse — cercavi inconsapevolmente di imitare don Giovanni, che funziona bene da esempio se si vuol succhiare il più possibile dalla vita sia personale sia pubblica. A meno che si tratti di una storia più vecchia. Avresti ammirato don Giovanni se l’avessi conosciuto da ragazza?

    Ma io l’ho conosciuto! Mio papà aveva fama di essere un dongiovanni, aspetto fortemente stigmatizzato dalla mia nonna materna. Lei mi raccontava con indignazione (più che giusta ai miei occhi di oggi) della lettera d’amore di una sua ammiratrice, che mia mamma gli aveva trovato in tasca poco tempo dopo il matrimonio. Per me era normale che lui fosse tanto noncurante da lasciare in giro lettere compromettenti, e quella vicenda mi pareva del tutto comprensibile, dato che era così bello e affascinante. Non conoscevo la gelosia e attribuivo al suo costante buonumore, almeno in parte, il successo con le donne.

    Non so quanto fosse giustificata la sua fama di seduttore né avevo mai potuto coglierne indizi precisi. Di don Giovanni aveva almeno una caratteristica visibile: la gola. Non solo cucinava benissimo, brandacujun col baccalà, trofie con pesto patate e fagiolini, la frittata coi gianchetti. Ma voleva anche assaggiare tutto. Quando qualcuno era ai fornelli, lui ronzava nei dintorni e prendeva piccoli assaggi da ogni pentola, schioccando la lingua, dando qualche consiglio. Anche per farmi inghiottire qualcosa, come lo sciroppo ricostituente che mi davano ogni primavera, lui ne provava la punta di un cucchiaino, faceva una smorfia indecifrabile e me ne tendeva sorridendo un cucchiaio pieno, che trangugiavo senza protestare. Forse la disposizione così ereditata ad assaggiare tutto era alla base della mia voglia di divorare l’esistenza, nei termini di don Giovanni.

    Durante la giovinezza mi ero convinta che la vita mi dovesse qualcosa perché avevo avuto un’infanzia poco felice, e quindi potessi correre impunemente qualsiasi rischio. Soltanto sul tardi la mia fissazione su don Giovanni è diventata esplicita e meno inconsapevole, come un amore che non osa esprimersi. Ci sono ostacoli non solo psicologici, ma anche pratici: la raccolta della documentazione è un’impresa infinita, visto che esiste una bibliografia di migliaia di titoli compilata da uno studioso di un’università della Virginia, che si accresce continuamente. Dare uno sbocco a questa mia ricerca, farne qualcosa di diverso da un passatempo irriflesso mi è sempre parso arduo e quasi vergognoso.

    – Sei depressa o meglio demoralizzata. Don Giovanni è l’opposto della demoralizzazione, perché non si è mai installato nella moralità. Tu e molti altri avevate cercato di stabilire un rapporto estremo tra pubblico e privato, facendo le scelte politiche e private che vi sembravano più radicali in quel momento e in quei luoghi. E ora che non si può più, sei atterrata, prostrata, sconfitta.

    Riconosco che ha ragione. Allora perché non sperimentare un genere consono al mio stato d’animo attuale, il cosiddetto depression memoir? Ha già un canone, in varie lingue e su registri che vanno dal comico al drammatico, e sono state scritte cose bellissime su questo tono. Perché non provarci anch’io, come tanti altri?

    – Ma non ti sembrerebbe ridicolo cimentarsi con don Giovanni in chiave di depressione? Io non mi sono mai lamentato o tantomeno depresso né per i miei scacchi né per l’infortunio finale. È ora di smetterla con la scrittura coscienziale–memorialistica, e di prendere le distanze dall’io. Basta coi ricordi del padre. Le rievocazioni della tua infanzia nel nostro contesto sono fuori luogo. Devi cercare un’altra strada. Potresti mettere insieme una specie di catalogo di vari tentativi di afferrarmi, scegliendo tra quelli che hai trovato, tuoi e di altri, nel corso degli ultimi decenni.

    – Hai una bella faccia tosta: invitarmi a mettermi al tuo servizio!

    – Oh, finalmente mi rivolgi la parola. No, al servizio della tua ossessione, e anche del tuo mestiere, invece di credere come tanti di essere diventata capace di scrivere novelle e romanzi nell’ultima fase della vita.

    – Che cosa intendi col mio mestiere?

    – Quello di storica orale. Intervistatrice, raccoglitrice di testimonianze, testimone a tua volta. Puoi applicare il mestiere alla mia fama, incrociandolo con la raccolta dei miti sulla mia figura, invece di inseguire l’illusione di produrre qualcosa di più creativo. In passato hai scritto o trascritto registrazioni dei tuoi pensieri ed esperienze o rielaborazioni di memorie di persone che avevi intervistato. Adesso puoi registrare un altro tipo di memorie, quelle su di me.

    – Ma la memoria di don Giovanni è antica.

    – Appunto, c’è molto da esplorare, perché viene ancora trasmessa, manipolata, vissuta.

    – E poi è sterminata…

    – Si capisce che non puoi raccogliere tutto. Non ti sto suggerendo di scimmiottare Leporello facendo un inventario completo. Dare voce a tutte le storie su di me sarebbe un tentativo esagerato. Invece potresti fare un po’ di storia orale centrata sul mio mito che includa anche la tua voce: riprodurre conversazioni e discorsi, tenere una specie di diario etnografico, proprio come hai fatto e insegnato a fare tante volte. Puoi mettere insieme tante voci diverse, radunando una specie di consesso virtuale di cui faccia parte anche tu. Hai insistito tanto su soggettività e intersoggettività!

    – Consesso virtuale?

    – Anche la scrittura, non solo il computer, è virtuale!

    – E tu sei irreale.

    – No, io sono immaginario, è molto diverso, dovresti saperlo.

    Incasso, e ribatto:

    – Certo che alla fine della vita cercare di conciliare il mestiere e la passione, e proprio attraverso don Giovanni, sembra un’impresa destinata allo scacco.

    – Dipende da che punto di vista. Intanto potremmo cominciare da qui: la prossima volta voglio un vero dialogo!

    Venezia

    Burle teologiche

    Un martedì pomeriggio di fine settembre

    Accettando il consiglio del mio don Giovanni interiore, ho deciso di seguire le Giornate su Don Giovanni e Casanova che si tengono ogni anno in una diversa città italiana, questa volta a Venezia. Ci vado con una giovane donna polacca, Emilia, che è stata mia allieva parecchi anni fa. Adesso ha quasi cinquant’anni ma è sempre scherzosa, a volte pungente, come allora. La compagnia teatrale di cui è consulente a Varsavia sta considerando l’ipotesi di mettere in scena una pièce ispirata a don Giovanni. Da tempo volevamo rivederci e abbiamo colto questa occasione, che ci riporta in un luogo dove eravamo state insieme, negli anni del suo dottorato, per un convegno di storia orale.

    Le Giornate si svolgono alla Fondazione Cini, nell’isola di San Giorgio. Il mattino ci sono lezioni, dibattiti e seminari, nel pomeriggio e la sera spettacoli teatrali e cinematografici. La lingua per le sessioni pubbliche è l’inglese, ma negli intervalli si sentono parlare molte lingue del mondo. La prima relazione che ascoltiamo, sulle questioni teologiche in cui affonda le radici il nostro mito, è tenuta da un gesuita di origine africana. È un buon narratore, che intreccia il racconto sulle origini di don Giovanni con l’analisi storica del retaggio gesuitico. Emilia, che si definisce una cattolica della sinistra radicale, è contemporaneamente curiosa e diffidente.

    Da parte mia, sapevo delle antiche tradizioni orali che confluiscono nella storia di don Giovanni, tra cui il racconto sul giovane che incontra un defunto e lo sfida invitandolo a cena. Il folklore europeo ne annovera centinaia di varianti, diffuse dall’Irlanda alla Spagna, dalla Germania ai Balcani, alcune delle quali risalgono al Quattrocento. Ero anche al corrente di un canto brettone di quel periodo, ma non della prima versione scritta, in latino: la storia del giovane conte Leonzio, protagonista di un dramma teatrale messo in scena dai gesuiti nel 1615, che doveva servire di ammonimento per maestri e allievi del loro collegio di Ingolstadt in Baviera. Un giorno Leonzio, che ha appreso il materialismo e l’ateismo dal suo maestro Machiavelli, passeggiando in un cimitero si imbatte in un teschio. Dopo averlo preso a calci, lo apostrofa chiamandolo testa secca e lo incalza con domande di natura teologica: è vero che uno spirito immortale è racchiuso nel corpo mortale? ammesso che lo spirito sopravviva dopo la morte, dove abita? ed è salvato o viene punito? Gli chiede di rispondere la sera stessa, invitandolo a cena.

    Presentando il contesto storico di questo monologo, padre Oscar Silveira menziona che dieci anni prima aveva avuto luogo la rappresentazione dell’Amleto di Shakespeare, con l’apostrofe al teschio di Yorick, il buffone di corte che faceva giocare Amleto bambino. Anche le domande che Amleto rivolge al teschio sottolineano la vanità della vita e il comune destino dei mortali: diventare pasto per i vermi. Ma la specificità del dramma di Leonzio è di inserirsi nella tradizione dell’antimachiavellismo. Proprio nello stesso anno 1615 i gesuiti di Ingolstadt bruciavano pubblicamente l’effige di Machiavelli, in quanto autore di opere condannate al rogo mezzo secolo prima. Il fuoco e le fiamme, sottolinea il relatore, sono parte dello scenario intrinseco al mito di don Giovanni.

    Nella storia di Leonzio, Machiavelli è presentato come un perverso caposcuola e maestro di materialismo, che ha addestrato l’allievo a obbedire solo alle proprie voglie, sulla base di una razionalità che privilegia il piacere e l’utile. Il giovane conte è un esempio di orientamento materialistico in molti sensi, come conferma la cena sontuosa che la sera stessa dell’incontro col teschio offre ai suoi convitati. Quando il banchetto è già a uno stadio avanzato, viene interrotto da un bussare violento alla porta di casa: il defunto chiede di entrare e ogni tentativo di sbarrargli l’accesso è vano. Si presenta al convito, di dove fuggono precipitosamente tutti gli invitati compreso Machiavelli, che non mostra alcun interesse per le risposte alle domande teologiche poste dal suo allievo. Il morto rivela di essere un bisavolo di Leonzio riemerso dall’inferno per affermare l’esistenza dell’altro mondo, e il giovane non ha scampo: in un finale cruento, il suo antenato gli schiaccia la testa contro il muro, dove rimane attaccato il cervello sanguinante, e ne trascina il corpo all’inferno.

    Secondo padre Silveira, l’insistenza sulla testa nel racconto dell’incontro col teschio e della morte di Leonzio indica che il suo peccato originale è proprio l’atteggiamento razionalistico, un peccato appunto di testa. La morale della storia è che esistono solo due opzioni: la conversione oppure la dannazione. Non ce n’è una terza, né per la ragione materialistica né per la dottrina gesuitica classica. Per loro è vero ancora oggi — borbotta Emilia in tono polemico nei confronti del relatore.

    Silveira critica l’interpretazione secondo cui Leonzio sarebbe una versione imperfetta di don Giovanni, integrata in seguito col tema delle donne. A suo parere, non costituisce affatto una metà arcaica, poi modernizzata con l’aggiunta del sesso, come se questo fosse un elemento tardo e secondario. Per noi oggi Leonzio può valere come una rappresentazione del libero pensiero allo stato puro, quindi non necessariamente prima, ma più convincentemente dopo o durante la liberazione sessuale. Che può essere data per scontata, come un effetto secondario, nell’universo della dissacrazione e della lotta per il potere spirituale. Leonzio è nostro contemporaneo anche perché il sesso ha perso gran parte della sua centralità e tabuizzazione.

    Mentre io accolgo con simpatia il discorso del prelato, Emilia è molto critica. Mi fa osservare che avverte nel suo tono una sorta di trionfalismo, come se fosse soddisfatto della punizione di Leonzio e implicitamente volesse dirci: Avevamo ragione noi!. Conosco il cattolicesimo libertario e innovatore di Emilia, di cui si vedevano le avvisaglie nella sua tesi di dottorato sulle donne cattoliche nella Polonia comunista, e so che guarda con fastidio e insofferenza verso forme della stessa fede intese apertamente al dominio sul mondo. Comunque la convinco ad avvicinare il relatore nell’intervallo, se non altro per farci un’idea più precisa del suo atteggiamento.

    Il gesuita ci accoglie come se l’omaggio gli fosse dovuto. È un uomo atticciato, non molto alto, vestito con eleganza senza alcun richiamo all’abito clericale — testa rotonda, naso leggermente schiacciato, corti capelli crespi e volto glabro. Quando mi presento, si mette a ridere e mi apostrofa in italiano: Ma io La conosco!. Mi spiega di essere mozambicano e di aver visto a suo tempo un mio libro sulla lotta di liberazione nel Mozambico pubblicato all’inizio degli anni Settanta, quando frequentava il Liceo Sociale dei gesuiti torinesi. Ne deduco che deve avere almeno quindici anni meno di me, ma sembra più giovane. Ci invita a cena la sera stessa con altri suoi amici e conoscenti, proponendo di incontrarci prima per un aperitivo nel suo albergo. Io accetto volentieri, mentre Emilia ha buon gioco a defilarsi, volendo seguire la rassegna cinematografica delle Giornate.

    Il convegno riprende con una relazione sul Burlador de Sevilla di Tirso de Molina. La presenta una ispanista olandese che usa la maggior parte del suo tempo per dibattere se il dramma sia effettivamente di Tirso o di un altro autore, se sia stato davvero scritto e recitato tra il 1620 e il 1630, e via di questo passo. Ci annoiamo, forse anche per ignoranza, ma quando finalmente termina la relazione, il dibattito diventa subito acceso. Un giovane scrittore egiziano protesta in modo tagliente per la scarsa attenzione dedicata dalla relatrice al finale del dramma, sostenendo che in termini di logica narrativa l’intera commedia prende luce dalla conclusione: Don Juan Tenorio contava di pentirsi alla fine della vita, ma gli viene negato il tempo di farlo.

    Come dice il titolo dell’opera — incalza lo studioso, con la bella faccia un po’ aggrondata — il don Juan di Tirso ordisce una burla dopo l’altra, con inganni a ripetizione ai danni delle donne. Il Burlador fa appello alla giovinezza per giustificare le sue simulazioni, ma più che da giovane si comporta come se fosse immortale. Tant’è vero che ripetutamente risponde a chi gli ricorda la prospettiva del castigo divino e la certezza della morte: Tan largo me lo fiáis!, quanto tempo mi dai! Quando lo spettro del padre di doña Ana, da lui ucciso nel tentativo di sedurne la figlia, torna per vendicarsi, don Juan non mostra alcun timore, anzi gioca l’ultima carta che ha tenuto in serbo: Lascia che chiami chi mi confessi e assolva!. Ma il defunto gli oppone un rifiuto senza appello: Non c’è più tempo: te ne ricordi tardi!. Emilia mi sussurra che concorda pienamente con questa obiezione: la drammaticità della narrazione sta nel fallimento dello scherzo finale; è proprio questo esito che è stuzzicante, non solo dal punto di vista teologico ma anche allo scopo di un’eventuale messa in scena. Non a caso i temi portanti della rappresentazione a Varsavia e Cracovia saranno il tempo e l’età: l’età di don Giovanni, vecchio o giovane o eterno.

    Nel dibattito interviene anche padre Silveira a puntualizzare in che senso la finalità teologica si intreccia con quella narrativa. Secondo alcuni teologi dell’epoca sarebbe stato possibile sfuggire al castigo divino per semplice attrizione, cioè per un timore dell’inferno che equivale a un amore imperfetto verso Dio, senza dover attingere alla contrizione, che è amore perfetto perché implica il pentimento. Don Juan Tenorio non si pente e non ha neanche paura dell’inferno, quindi non può essere salvato. In questo modo Tirso prende posizione a favore della tesi sostenuta dal teologo Luìs de Molina, che negava la possibilità del perdono in extremis.

    L’ispanista, piccata, replica di sapere benissimo che il finale di Tirso rimanda alla problematica del rapporto tra grazia divina, libertà umana e predestinazione, che aveva suscitato accesi dibattiti nel periodo della Controriforma. Ma si lascia andare a uno sfoggio di erudizione — come se non avesse sentito la relazione di padre Silveira — per ribadire quello che le sta più a cuore: anche se Tirso avesse conosciuto il dramma di Ingolstadt, sarebbe stato comunque il primo a inserire nella storia la seduzione delle donne, dimostrando così l’origine spagnola della figura di don Giovanni, contro ogni ipotesi di derivazioni italiane.

    Il gesuita, lasciando cadere la querelle sulla priorità nazionale, ribatte che non tutti e non sempre i gesuiti erano molinisti. Nel dramma di Tirso, chi credeva di beffare tenendo in serbo un’arma estrema — il riconoscimento dei suoi peccati in una confessione formale — viene beffato a sua volta. Così la fiducia di sfuggire alla punizione ricorrendo a un cavillo formalistico si rivela infondata, perché senza un mutamento interiore non ci può essere né perdono né salvezza.

    Seguiamo compunte il dialogo a tre sulle implicazioni teologiche del dramma, ma Emilia finisce per irritarsi e va a fumare una sigaretta. La seguo per sentire le sue ragioni, che esprime con foga:

    – Ne fanno una questione di dottrina oppure di esigenza narrativa, che sono tutt’e due spiegazioni inadeguate, non all’altezza del problema etico–teologico. Non riescono a mantenere la tensione tra l’umano e il divino–

    – Questo umano disconosce o ignora il divino, che quindi lo annienta.

    – Ecco, appunto, il divino è ridotto a qualcosa di mondano e vendicativo, chiuso in una logica di scambio. È sempre e ancora una politica del dominio.

    – Ma che ne dici della pretesa della relatrice?

    Scrolla le spalle:

    – Solita competizione tra europei nazionalisti che si contendono il primato di aver dato le origini a don

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