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In questa serie di conversazioni tenute a Radiotre alla fine degli anni Settanta, Rossana Rossanda dialoga con le sue interlocutrici e i suoi interlocutori sulle parole-chiave della sinistra: politica, libertà, fraternità, uguaglianza, democrazia, fascismo, resistenza, stato, partito, rivoluzione. Filo conduttore è il rapporto tra le donne e la politica, ma anche quello di Rossanda con “le altre” e con il movimento femminista. In questo, che è uno dei suoi libri più importanti per il femminismo, l’intellettuale più acuta della sinistra “eretica” si interroga anche sugli incontri mancati tra una militante comunista quale lei è sempre stata e il mondo delle altre donne; e traccia il bilancio di una esperienza singolare, sempre fuori tempo rispetto a quella delle sue sorelle di sesso. In appendice al volume una conversazione con Pietro Ingrao su “Movimento delle donne, istituzioni e antiistituzionalismo”.
LanguageItaliano
Release dateAug 20, 2021
ISBN9791280124623
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Author

Rossana Rossanda

Rossana Rossanda (1924-2020) è stata una delle maggiori intellettuali della sinistra italiana. Dopo gli studi con Antonio Banfi, militò nel Partito Comunista Italiano, nelle cui fila fu eletta deputata nel 1963. Nel 1969 fu radiata dal partito insieme al gruppo del manifesto che nel 1971 diede vita all’omonimo quotidiano. Tra i suoi molti libri: Un viaggio inutile o della politica come educazione sentimentale (1981), Note a margine (1996), Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento (2013), Questo corpo che mi abita, a cura di Lea Melandri (2018) e l’autobiografia La ragazza del secolo scorso (2005). Per i nostri tipi ha pubblicato Appuntamenti di fine secolo, con Pietro Ingrao (1995), e L’anno degli studenti (nuova ed., 2018).

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    Le altre - Rossana Rossanda

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    Parola di donna

    Rossana Rossanda

    Le altre

    Conversazioni a Radiotre

    sui rapporti tra donne e politica

    Presentazione di

    Lidia Campagnano

    manifestolibri | parola di donna

    © 2021 manifestolibri La talpa srl

    via della Torricella 46 00030

    Castel S. Pietro RM

    ISBN 979-12-8012-462-3

    www.manifestolibri.it

    info: book@manifestolibri.it

    A

    www.manifestolibri.it

    https://www.facebook.com/manifestolibri.it

    https://www.instagram.com/manifestolibri/

    @manifestolibri

    https://www.youtube.com/user/ManifestoLibri

    Indice

    Presentazione di Lidia Campagnano

    Introduzione di Rossana Rossanda

    Le parole della politica

    01. Politica I

    02. Politica II

    03. Libertà

    04. Fraternità

    05. Uguaglianza

    06. Democrazia

    07. Fascismo

    08. Resistenza

    09. Stato

    10. Partito

    11. Rivoluzione

    12. Femminismo

    Appendice

    Movimento delle donne, istituzioni e antistituzionalismo.

    Conversazione con Pietro Ingrao

    La bobina che non si lasciava trasmettere

    Nota bibliografica a cura di Doriana Ricci

    Presentazione

    di Lidia Campagnano

    Correva l’anno 1979 quando Rossana Rossanda, nell’introduzione a questo libro, scriveva: Era venuto il momento in cui ero io a parlare a vuoto, inascoltata, incapace di farmi capire. Iniziavano gli anni Ottanta, giungevano (malamente) a fine le esperienze politiche organizzate della nuova sinistra, si piegavano le lotte operaie a una nuova rivoluzione industriale, la cultura politica diffusa arretrava su posizioni sempre meno egualitarie, sempre meno impegnate, come per una sorta di pentimento. Riflusso e lotta armata zittivano tante voci. E quella breve frase, all’apparenza un sentimento, un cenno autobiografico, in realtà forse a tutto questo si riferiva: a questo tempo del finire di qualcosa senza che si intravvedesse altro, un futuro (o una speranza).

    Ma una militante – come lei era – non si ferma alla malinconia di una constatazione, cerca di scomporla e ricomporla, di lavorarla, di ragionarla, di farla parlare. E naturalmente non pensa di fare da sola: apre un cantiere e invita a lavorare con lei.

    Questa volta nel cantiere invita soprattutto le donne, soprattutto le femministe. Le donne che in realtà avvertivano, proprio allora, l’incomprensione e di più: la sordità, il rifiuto, l’attacco esplicito di certi compagni di un’avventura di militanza e di vita, fino a indurle ad abbandonare in massa le formazioni politiche che avevano sperato di rivoluzionare a fondo con le scoperte femministe. E lei le invita, le interroga su quasi tutto ciò che le preme sospettando che le loro intuizioni possano illuminare in qualche modo il faticoso passaggio. Si dichiara altra da loro e inizia, passo dopo passo, a render conto della propria storia differente: della propria storia di emancipata, di partigiana e di comunista del secolo scorso come dice il titolo della sua autobiografia. Offrendola a un’analisi critica e insieme difendendola mentre difende i colori della politica.

    Per comprendere questo cantiere – aperto approfittando della possibilità di condurre una trasmissione radiofonica, come racconta – forse è bene prestare attenzione anche alla prosa, o al tono della voce che risuona in queste pagine – che sono spesso miracolosamente belle, di vivace lettura, benché si tratti di sbobinature. C’è anche qualcosa di gioioso, in questo riportare dialoghi con persone vecchie o giovanissime, donne e qualche uomo (un leader comunista e un operaio diventato pescatore). Si avverte il piacere di chi va a caccia di scoperte, e anche la tenerezza che le donne a volte si regalano reciprocamente per meglio avviare un dialogo. Ogni voce, o quasi, ne esce straordinariamente accolta e valorizzata, che si tratti della ragazza con la motocicletta, che non dice il suo nome, o di Adele Faccio, della più sommessa e meditativa delle femministe o di una sindacalista abituata al megafono o di un’antropologa abituata a una cattedra. C’è anche un cameo indimenticabile, l’incontro con Camilla Ravera che restituisce a una fondatrice e dirigente del partito comunista, tuttora sottovalutata nella memoria di questo paese, la sua grandezza mai esibita di interlocutrice privilegiata di Gramsci, di responsabile unica del Centro interno quando tutti gli altri erano in carcere o al confino o in esilio, ascoltata da Lenin quando gli riferisce le sue (corrette) previsioni sulla durata del fascismo. Ma indimenticabile è anche il fantasma evocato di Rosa Luxemburg, ispiratrice e incarnazione, per sempre, di quel desiderio che tante donne, non viste e soprattutto respinte e cancellate (fino alla morte) hanno conosciuto e fedelmente seguito: quello di capire a fondo ciò che muove il mondo e ogni essere umano e di farne consapevolezza e azione, cioè politica. Sono le donne che hanno dato l’assalto al Mondo terreno e alla Storia.

    Camilla Ravera, una militante. Come Rosa Luxemburg, come Louise Michel. Che cos’hanno in comune? Un ideale, certo (ecco una parola uscita dal lessico), un qualcosa che – tra l’altro? – crea uno specialissimo rapporto, una socialità che non è amicizia e non è amore eppure è qualcosa di caldo, di prezioso e di produttivo: il rapporto tra compagni, per così dire. Ma hanno in comune, le militanti, anche un certo silenzio su di sé, un’attenzione rivolta ad altri e ad altro, un vedersi forse più acutamente degli uomini come un frammento di storia invece che come una preziosa e insostituibile identità. In un altra sede Rossanda ne scriverà così: abbiamo guardato alla nostra vita come al minuscolo terminale di un arazzo immenso i cui confini si perdono nel tempo e del quale, ogni tanto, perdiamo il disegno.

    Hanno dunque in comune, le militanti, un senso della storia e del mondo, o del tempo e dello spazio, come di ciò che ti afferra e ti plasma dall’inizio alla fine, che ti rotola addosso. Puoi decidere di lasciarvi un’impronta, di resistere, di capire le cose e di lottare per cambiarle, ma non si sceglie di stare nel mondo e di stare nella storia. E l’intreccio di mondo e storia è il luogo di maturazione della politica.

    Rossanda non cambierà questa sua posizione, questo senso delle dimensioni che è la sua scelta di vita. Eppure si mette all’ascolto delle femministe proprio là dove dichiarano che i tempi delle donne non sono i tempi della politica, in tutti i sensi. Non solo perché le scadenze della politica (il modo di ritmare e impiegare il tempo) escludono le donne impegnate nel lavoro di cura (cioè quasi tutte), ma perché esiste qualcosa che si può chiamare tempo della vita. Che è anche uno spazio, quello della vita personale e interpersonale, quello della vita intima e affettiva. E del pensarla: perché il pensiero femminista, la rivoluzione delle donne nasce da questo pensare (e potenzialmente trasformare e risignificarela vita interpersonale e intima). Qui sta, il tempo delle donne. E lo spazio, il mondo? Sempre qui, tra persone, tra uomo e donna. Tempo e spazio altri rispetto alla tradizione, ma non meno politici, al contrario: radicalmente politici.

    L’interesse di Rossanda per quel tempo della vita non nasce all’improvviso nell’incontro col femminismo, e per capirlo basta la lettura di tante sue splendide pagine di commento alla letteratura, da quella mitteleuropea del primo Novecento fino all’Antigone di Sofocle. Sono pagine tutt’altro che secondarie per comprendere il suo pensiero, e in verità già raccontano di una crisi nel vivo di una relazione che il marxismo aveva indicato come la prima relazione tra uomo e uomo, cioè la relazione tra uomo e donna. Ma ora è lei ad avvertire che il concetto stesso di persona, tradizionale chiave interpretativa di un intero orizzonte intellettuale, può cancellare precisamente quell’essere la persona due persone. Una delle quali spesso o è silente o è inascoltata. Ed è lei a pretendere che questo punto di vista che è anche la nascita di un soggetto politico dallo sguardo nuovo si proietti sulle radici come sulle conseguenze dell’umana convivenza, sul senso dei passaggi storici come sugli accadimenti del presente.

    L’impazienza di Rossanda è evidente e più volte ribadita in queste pagine e altrove. E si accompagna a un crescente senso di solitudine, a una grande tristezza, specie quando la storia torna a grandinare (e lei, solo con il suo compagno Karol può disperarsi quando le truppe cinesi muovono guerra al Vietnam appena liberatosi dall’invasione statunitense). Ma a essere ribadita è anche la sensazione che il femminismo stia portando alla luce questioni davvero radicali. Per prima cosa si stupisce della risonanza emotiva che le vecchie parole della rivoluzione francese, libertà, uguaglianza, fratellanza suscitano tra le sue interlocutrici. Soprattutto la libertà. Libertà è una parola bellissima, dice Paola Redaelli, una femminista milanese, quella che forse scava di più nella lacerazione tra politica e femminismo. Perché si tratta di libertà di essere. E se Rossanda dice di provare di fronte a queste espressioni un istintivo moto di lontananza, sarà proprio questo modo di trattare quell’antica parola a suscitarle un giudizio stupefacente: devo capire scrive a commento che nei luoghi dove si formano i grandi cambiamenti di coscienza – che non sono mai molto visibili, e le donne sono uno di questi luoghi – sta formandosi un’idea di libertà, anche individuale, che la borghesia non catturerà più.

    E ancora: Le femministe sono il segno d’una crisi generale di rapporti nella nostra società. E forse l’inizio di una uscita da essa. Perciò Rossanda pensa che il femminismo non finirà perché è il segnale del punto di frontiera cui è arrivato il rapporto fra persona e politica. Ed è perciò anche uno strumento di rilettura del passato. Del fascismo per esempio: questione inesauribile, ideologia meno di altre transitoria perché nasce in uomini e donne da istinti di aggressività e bisogni di rassicurazione inchiodati da secoli nel profondo ed esaltati in questo nostro secolo da grandi blocchi di interessi.

    Il rapporto di Rossanda col femminismo, esplicitato per la prima volta in queste pagine, rimarrà come una filigrana in tutti i suoi testi successivi e gli incontri, i dibattiti, gli scambi con tante fra noi si moltiplicheranno fino alla fine dei suoi giorni. Nei quali amava intrattenersi su questioni grandi come montagne: anche per lei l’orizzonte del mondo si ampliava come questione del pianeta (senza perdere con ciò il carattere di questione sociale, questione del capitalismo) e come questione della possibilità o meno di un futuro. Riteneva con ragione che le sue donne non avessero ricucito quella tela lacerata che siamo diventati, né avessero trovato rimedio alla tormentosa incapacità di lavorare insieme, e allude al lavoro politico. Tuttavia erano perennemente in movimento in tutto il mondo, perennemente in prima linea ovunque si volesse più libertà e più uguaglianza. E altro ancora. Il pane e le rose, insomma: come nella canzone che chiuse l’ultima puntata del suo programma radiofonico. Canzone di donne e canzone operaia.

    Introduzione

    di Rossana Rossanda

    Quando, nell’ottobre del 1978, Enzo Forcella mi propose di tenere a Radiotre una dozzina di conversazioni per il ciclo Noi, voi, loro-donna sul rapporto fra donne e politica, avevo almeno tre ragioni per dire di no. La prima era la mia scarsa legittimazione a parlare di donne: non sono femminista oggi e non mi sono occupata di questioni femminili nel mio lavoro politico, che pur mi ha visto cacciare il naso un po’ dappertutto. La seconda è che, se il mio rapporto con il femminismo era dubbio e quindi la mia voce illecita, il mio rapporto con la politica, che non era dubbio affatto, stava venendo a una nuova stretta: nel 1969 ero stata cacciata dal Partito comunista, nel 1977 avevo contribuito alla fine di una formazione impropria, quel Partito di unità proletaria per il comunismo che aveva tentato l’unificazione fra il primo manifesto e il primo Pdup, e nel 1978 era venuto il momento in cui ero io a parlare a vuoto, inascoltata, incapace di farmi capire. Tutto comprensibile, anzi da attendersi in anni così precipitosi; ma le mie ossa cominciavano a dolere. Terza ragione, non sapevo nulla di radio; il mio mezzo – come dicono in via Asiago – è la parola scritta, e benché non mi sia mai illusa che questa sia meno manipolatrice del microfono, conoscevo e partecipavo dell’idea che parlare dalle onde della Rai, infausta azienda di stato, fosse partecipare della manipolazione dei media, passare in qualche misura un contratto con il potere.

    Tutte e tre queste ragioni per dire no erano altrettante tentazioni di dire sì. Prima o poi avrei pur dovuto affrontare questo rapporto con le mie sorelle di sesso, andare a vedere, espormi; smetterla di scappare. Prima ragione. Seconda e più complicata: se tentavo di vedere la mia vicenda politica con occhio sereno, senza coprire di eccessive colpe né me stessa né i compagni da cui mi è avvenuto di dividermi, non potevo non domandarmi il perché di questa tormentosa incapacità di lavorare assieme, tanto più paradossale quanto più è giovane l’istituzione, meno ha potere, e dichiara sinceramente l’intenzione di essere diversa. Facemmo il manifesto rimproverando al Pci di non sapere reggere una contraddizione interna, ma non sapevamo reggerla neppure noi. Sicuramente, mi rispondevo, perché ci attraversano come coltelli i nuovi fronti del conflitto, chi di qua, chi di là – questo è un terreno che mi è familiare, ne conosco il fondo. Ma non anche una rigidità e fragilità, più acute d’un tempo, del modo di essere dei partiti, di quelle tecniche che sono loro proprie e sembrano inevitabili, pena l’impossibilità di decidere e muoversi? Questo è un terreno incerto, sabbie mobili, continuamente evocate dal 1968 e che avevano inghiottito più d’uno, tornatosene a casa. Su questo erano le intrattabili donne del femminismo a portare la testimonianza più ostinata, il dito aggressivamente puntato su tutti i partiti, assenti o silenziose – tutte cose che mettono il politico fuori di sé, avevano messo anche me in furore, ma forse mi segnalavano, a gesti, una strada. Volevo andar a vedere.

    E infine la terza ragione, l’uso della radio, era semplicemente la voglia di provare una cosa nuova; cambiare, misurarmi con un diverso destinatario, rischiare la più unilaterale delle comunicazioni unilaterali. Così è successo che dal novembre del 1978 al febbraio del 1979 ho parlato da Radiotre tutti i martedì alle dieci, non senza affanno e con molte incertezze. Un solo messaggio intendevo mandare, ma provocatorio, mentre da tutte le parti, dietro ai profili di chi celebra i funerali del marxismo, vedo spuntare vecchie e nuove empirie, questo vale quello, destra eguale sinistra, torniamo ai fatti nostri e patteggiamo con tutti, noi stessi per primi: che a me il vecchio Marx serve ancora, che la storia corre, non precipita in indecifrabili schegge; e questo mi va bene, grazie, anche se confesso di avere il fiato un po’ grosso. Affermazione inopportuna, risibile, fuori quadro. Appunto quel che volevo fare e ora racconto.

    Lo racconto perché altre più esperte donne sorridano della avventurosa partita che ho giocato con alcune di loro difendendo i colori della politica. Altre meno esperte e forse alcuni uomini interdetti davanti alle loro belligeranti compagne si riconosceranno in domande che prima non avevo mai fatto e saranno sorpresi dalle risposte, che non mi attendevo. È stata una partita tardiva, un giro attorno ai miei pensieri. Elusiva, rinviata, forse chiusa.

    Come è andata? Il tema che mi era stato proposto, la donna e la politica, potevo metterlo come volevo. E si poteva mettere in molti modi: chi sono e che fanno le donne politiche, in Italia o altrove, ieri o oggi; oppure come la politica ha visto le donne; oppure non le ha viste. Nella stessa ora, gli altri giorni della settimana, Paola Piva doveva sbrogliare e servire negli stessi quarantacinque minuti donna e lavoro, Dacia Maraini donna e corpo, Letizia Paolozzi donna e sentimenti. Sempre donna e... campi immensi e vaghi. Ci incontrammo un paio di volte, trafelate, senza riuscire a lavorare realmente assieme – e poi difficilmente ci saremmo sentite, perché parlavamo a donne che, diversamente da noi, alle dieci del mattino potevano accendere la radio.

    Per me, ad ogni modo, il punto da affrontare era obbligato: perché la politica non ha voluto le donne, perché oggi le donne non vogliono la politica, e se in questo doppio rifiuto non ci sia l’embrione sia d’una crisi sia d’una critica della politica, che diventi politica diversa. Quel che mi angustiava, insomma. E forse lo stesso accadeva a Paola; avrebbe tradotto gli scogli su cui urtano le donne nel sindacato in una ricerca sulla subalternità del lavoro femminile, ma anche sulla figura d’un altro lavoro, a misura delle donne ma forse differente per tutti. Quanto a Dacia, avrebbe tentato di liberare il corpo della donna dall’immagine che l’uso altrui gli ha sovrapposto; Letizia si sarebbe inoltrata nel giardino dei sentimenti, il più infestato dai fantasmi imposti, introiettati, vissuti, riproposti, per scoprire che spiriti fossero e in fondo rivalutarli.

    Letizia era la più allegra, sapiente in femminismo. Io ero quella più in difficoltà. Fin dall’adolescenza avevo rifiutato, anzi ero scappata da quella costruzione di secondo grado che è il femminile, visto da lui o visto da lei che fosse. Non che abbia mai dubitato che anche il resto del mondo, che le femministe chiamano maschile perché sono gli uomini a dominarlo e a dargli nome, non sia una costruzione largamente astratta, codificata, fatta di false coscienze, usi ed abusi della persona. Ma il codice di quella convenzione mi era noto, la sua chiave è la stessa della cultura; al limite sono la stessa cosa, prodotto di storia di interessi, poteri, lotte, modi di vedere che sono modi di comandare o di liberarsi. Ma il codice immaginato dal codice, la donna come proiezione dell’uomo, quale l’aveva voluta e come lei si accettava? Una zona ambigua, un gioco di specchi, un sentore di collegio femminile o di gineceo, fra schiavitù e mollezza.

    Neppure sapevo parlare, con le donne. Un uomo è in gran parte quel che fa, dice, pensa di essere, anche se per nessun uomo d’un certo spessore l’identità fila così liscia. Ma una donna? Parli sempre con qualcosa che le è stato fatto fare, pensare, dire, da pressioni dolci o acerbe; oppure la trovi ammutolita nella zona opaca di distanza che ne prende. Quel che la mia generazione sfuggì fu appunto lo stare al gioco o ricoverarsi nella distanza: fummo emancipate per questo. Saltammo risolutamente nel mondo com’era, decise a far arretrare qualsiasi uomo ci avesse chiesto E tu qui che ci fai? La strada, come dice in una delle conversazioni che abbiamo trasmesso Clara Gallini, fu per noi borghesi soprattutto la cultura. Per alcune più fortunate fu anche la politica.

    Eravamo baldanzose perché sapevamo bene, noi che avevamo veduto vivere le nostre madri e zie, quel che non volevamo. Il massimo di informazione e il massimo di partecipazione ci avrebbe esentato dal muoverci secondo le regole del codice di secondo grado; quanto al primo, sapevamo che avremmo corso qualche rischio in più. Ma non era una sfida obbligata? Si può capire che una istriana veneta milanese, nata sullo scorcio degli anni venti, passata da un certo limbo intellettuale al comunismo come da ragazzi si diventa grandi e negli stessi anni, dovesse traversare la sua parte di secolo scegliendo come rotta il difficile cammino della persona¹.

    Persona, non donna; e tuttavia, siccome il suo Freud ognuna l’aveva letto, non asessuata. Solo che il sesso, oltre ad essere quella storia di esclusione con la quale eravamo pronte a venire alle mani, era anche in ciascuno la frontiera dichiarata dell’incertezza e dell’oscurità, Freud insegna, e per la donna molto vicina a dove nasce la sofferenza. Come il corpo, materia segreta, parente stretto dell’inconscio, alle frontiere di quel campo della ragione per il quale eravamo attrezzate a giocare, o ci pareva di esserlo. Ripensandoci, la nostra fu un’età bizzarra. Cessammo di pensare, come ancora le nostre madri, al sesso in modo inibito e puritano, ma non per questo ritrovammo la felicità del mondo classico, l’unità con noi stesse; ci vestimmo liberamente e ci precipitammo in bikini al sole solo per nascondere quanto stavamo a disagio nella nostra pelle, che frettolosamente appendevamo in armadio come l’abito meno amato. Imparammo che sapere non significa patire di meno. Abili a scomporci in fattori primi, a ricomporci in una qualche unità non valevamo nulla.

    Penso che le donne ne fossero più coscienti degli uomini; anzi lo dessero per scontato. Scettiche e risolute dovevamo essere, invece che assolute e tremanti; come ricamava sui suoi fiocchi Leonora d’Este, Nec spe nec metu. Lo annoto di passaggio solo per seminare qualche dubbio nell’opinione corrente fra molte mie giovani amiche che l’emancipata sguazzasse, stolida e felice, nella identità maschile. L’emancipata si sapeva anfibia, ranocchia; solo che la non emancipata pareva saperne ancora meno. E soprattutto appariva insopportabilmente gravitante nell’orbita consentita o subita: garrula e faraonica signora o cupamente prigioniera nella quotidianità sposa e madre. Ma sempre rinviante ad altro, il mondo, il costume, i doveri, la morale, la religione o il loro reciproco; che poi sempre si coagulava un bel momento in un lui, stella polare nella vita di ciascuna, raramente brillante, spesso annuvolata ma implacabilmente fissa nel suo cielo.

    Le ragioni di essere ranocchia non si riducevano solo alla ferma volontà di avere un altro destino. Furono, al mio tempo, le stesse per cui parte dei ragazzi con cui ero cresciuta divennero un certo tipo di uomo impegnato. Avevo esattamente quindici anni quando scoppiò la seconda guerra mondiale a una fine di vacanza. Era stata una vacanza come tutte noiosa: quel nostro spazio che ci ritagliavamo l’inverno fuori delle nostre amate e rispettate famiglie spariva nelle lunghe villeggiature, condotte sul ritmo esasperante degli adulti. L’adolescenza finiva, io del resto non la ricordo, diventammo giovani in fretta e vale per noi quel che scriveva Nizan, ditemi che ventanni è bello e vi piglio a schiaffi. A vent’anni, in una Milano ghiacciata, vidi i corpi dei miei compagni sulle piazze, i treni delle ferrovie nord fermati per cercare i partigiani, e a fianco di un biondo compagno che, bello come un dio, doveva fungere da mio amore in attesa e invece faceva come me la staffetta, lessi alla stazione di Como il proclama di Kesselring e pensai che non volevo essere impiccata. Da quando con le luci di settembre del 1939 venne la guerra, il tempo si mise a rotolare e non si è più fermato. Dicono che in altre epoche si vivessero rapide storie personali su sfondi pubblici lentissimi, che erano la storia: ma oggi, ha ragione Milan Kùndera, la nostra lenta vita ha appena il tempo di iscriversi sulle figure violentemente tracciate e cancellate dal precipitare del mondo. L’obiettivo numero uno, per quelli come noi, fu di ritrovare un piano dove ricomporre corpi ed anime permanentemente scomposti e in ritardo e in inganno; una qualche ripresa del dominio di sé sulla base d’una qualche comprensione di quel che avveniva fuori. E quando il fascismo esplose nella guerra dentro la guerra, violenza e persecuzione e morte (non più la morte con la quale da adolescente avevo flirtato, fra Leopardi e Thomas Mann, nelle sale della biblioteca Querini o fra i cipressi delle isole discoste della laguna, ma i morti, compagni, amici, mai visti, appesi agli alberi o ammucchiati in fondo a una strada), non bastò capire, occorreva intervenire. Per chi si fece adulto in quegli anni l’identità non sarà mai un percorso privato e nel privato, come non è un fatto privato portar salva la vita da un veliero nella tempesta. Tutto il mondo passò sopra di noi, e da allora non cessò di passare.

    Guardo alle mie date: a quindici anni è la guerra, a venticinque la guerra fredda, a trentacinque è il comitato centrale del più grosso partito comunista d’occidente, a quarantacinque questo partito si libera di me... a cinquantacinque eccomi qui, nel riflusso dell’onda d’una mareggiata di cui conosco le andate e i ritorni, e che mi trascinerà sempre. La mia persona è scandita dai fatti altrui, Stalin non l’ho scelto, le masse non sono una frequentazione facoltativa, sono entrate e uscite decidendo i tempi di me-donna. Donna? E le altre donne? Il rombo di questo tempo è stato così forte che la voce delle donne non la ricordo; quella che decifro oggi nelle amiche femministe non l’ho avvertita mai prima. La donna era un dolore aggiunto, un particolare modo di patire o di fuggire.

    Né capivo le solidarietà fra emancipate. Quella emancipazione fu un cammino percorso da ciascuna, da sola, come persona appunto; e quindi collegata con altre persone, uomini o donne, attorno a passioni, interessi, cause ritagliate su altri profili che non fossero il sesso. A ognuna poi, e a ognuno, la vita doleva, ma doveva vedersela da sé; restava – resta – in me la convinzione che ciascuno il suo segno o colpa che sia se lo decifrerà sul dorso soltanto al momento della fine, come nel racconto di Kafka che più amavo. Ma frattanto quel che mani e ragione possono fare ti aiuta a non cadere. Per questo sbagliano coloro che nella nostra scelta vedono un sacrificio e non pensano al nostro come a un lavoro privilegiato. Così un certo piagnucolare delle emancipate – specie quelle che come me facevano quel che avevano voluto, diversamente da coloro che vedevo scendere al mattino dai treni del sud nella stazione di Milano e avrei trovato qualche sera a Limbiate, a vivere in otto dove la contessa aveva tenuto un cavallo – mi pareva non altro che la debole eco d’una antica subalternità.

    Perché si dolevano le mie compagne? Perché il farfallone

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