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2001. Un Archivio: L’11 settembre, la war on terror,  la caccia ai virus
2001. Un Archivio: L’11 settembre, la war on terror,  la caccia ai virus
2001. Un Archivio: L’11 settembre, la war on terror,  la caccia ai virus
Ebook395 pages5 hours

2001. Un Archivio: L’11 settembre, la war on terror, la caccia ai virus

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About this ebook

La coincidenza fra il ventennale dell’11 settembre e il ritorno dell’Emirato islamico in Afghanistan chiude il cerchio di una storia che sembra tornare al punto di partenza. E dimostra, con il fallimento della «global war on terrorism», l’inconsistenza dei suoi presupposti culturali, dalla teoria dello scontro di civiltà al progetto di esportazione armata della democrazia. Mentre il mondo si interroga sulle conseguenze geopolitiche della disfatta occidentale a Kabul, il ventennio alle nostre spalle si contrae in un tempo di transizione largamente contrassegnato, sulle due sponde dell’Atlantico, dagli effetti dell’attacco alle Torri gemelle e della risposta bellica americana: politiche securitarie e xenofobiche, crisi del multiculturalismo, erosione dei diritti e delle garanzie costituzionali, backlash e fine del patriarcato. Ma l’11 settembre non fu solo l’inizio di tutto questo: fu anche l’epifania in diretta televisiva del mondo globale nato sulle ceneri del bipolarismo novecentesco. E la ferita di Manhattan fu anche un trauma del pensiero che domandava un salto di fronte all’impensato. Dalla critica della sovranità nazionale ai paradigmi biopolitici del governo del vivente all’ontologia femminista della vulnerabilità e dell’interdipendenza, si forma allora quell’agenda filosofico-politica tuttora necessaria, e tuttavia non sufficiente, per affrontare un nuovo evento globale come quello pandemico, scatenato non più dal virus terrorista ma da un virus biologico.
LanguageItaliano
Release dateJul 30, 2021
ISBN9791280124609
2001. Un Archivio: L’11 settembre, la war on terror,  la caccia ai virus
Author

Ida Dominijanni

Ida Dominijanni ha lavorato dal 1982 al 2012 nella redazione de «il manifesto» come responsabile delle pagine culturali, notista politica, editorialista e scrive attualmente per «Internazionale» e altre testate. Ha insegnato filosofia politica e teoria femminista all’Università di Roma «Roma Tre» e, come fellow della Society of the Humanities, alla Cornell University di Ithaca (NY, Usa). Fa parte del Centro studi per la riforma dello Stato di Roma e collabora con la comunità filosofica femminile «Diotima» dell’Università di Verona. Suoi contributi appaiono regolarmente su riviste italiane e straniere (ultimo, La trappola sovranista, «Parole chiave» 2020/3). Tra i suoi libri Il trucco. Sessualità e politica nella fine di Berlusconi (Ediesse, 2014) e, come coautrice, Another Mother, a cura di Cesare Casarino e Andrea Righi, Minnesota Univ. Press, 2018) e La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, a cura di Chiara Zamboni (Moretti&Vitali, 2019).

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    2001. Un Archivio - Ida Dominijanni

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    contemporanea

    Ida Dominijanni

    2001. un archivio

    L’11 settembre, la war on terror,

    la caccia ai virus

    manifestolibri | contemporanea

    © 2021 manifestolibri La talpa srl

    Via della Torricella 46 00030

    Castel S. Pietro RM

    ISBN 979–12–8012–460–9

    www.manifestolibri.it

    info: book@manifestolibri.it

    Immagine di copertina: Pat Carra

    A

    www.manifestolibri.it

    https://www.facebook.com/manifestolibri.it

    https://www.instagram.com/manifestolibri/

    @manifestolibri

    https://www.youtube.com/user/ManifestoLibri

    Indice

    Introduzione/Noi vulnerabili

    Genova

    In transito verso Occidente

    Intervista con Giacomo Marramao/1 12 luglio 2001

    Diario/1. Genova per noi

    New York

    Come se Dio ci fosse

    Intervista con Carlo Galli 27 settembre 2001

    Dal melting pot al melting plot

    Intervista con Jeffrey Schnapp/1 29 settembre 2001

    Terrasanta, quelle stragi in famiglia

    Intervista con Tamar Pitch 21 aprile 2002

    La sagoma di Fortuyn

    Intervista con Rosi Braidotti 17 maggio 2002

    La briscola della libertà

    Intervista con Eric Foner 10 settembre 2002

    Il fantasma del bipolarismo perduto

    Intervista con Étienne Balibar 11 settembre 2002

    La fine del secolo americano

    Intervista con Giacomo Marramao/2 12 settembre 2002

    Siamo tutti corpi cyborg

    Intervista con Rosi Braidotti/2 13 settembre 2002

    Il backlash imperialista sull’Impero

    Intervista con Toni Negri 14 settembre 2002

    Dopo il sogno tecnologico

    Intervista con Jeffrey Schnapp/2 15 settembre 2002

    Ma l’America non è Bush

    Intervista con Colleen Kelly 9 novembre 2002

    La messa in scena della realtà

    Intervista con Slavoj Žižek 16 novembre 2002

    Senza Stato né Legge

    Intervista con Richard Falk 14 dicembre 2002

    L’imperativo della slealtà

    Intervista con Paul Gilroy 25 marzo 2003

    Il Vietnam perduto e ritrovato

    Intervista con Victoria De Grazia 5 aprile 2003

    Che fare dell’Occidente?

    Intervista con Mario Tronti/1 11 aprile 2003

    Il volto sanguinante della vendetta

    Intervista con Massimo Cacciari 19 dicembre 2003

    Ground Zero, la parola al testimone

    Intervista con Mary Marshall Clark 2 novembre 2004

    Quel circolo di sacro e secolare

    Intervista con Mario Tronti/2 29 aprile 2005

    La trincea dei diritti

    Intervista con Elena Paciotti 7 agosto 2005

    Il piacere contro la guerra

    Intervista con Carol Gilligan 25 settembre 2005

    Il passato che non passa, il futuro che non aspetta

    Intervista con Homi Bhabha 12 dicembre 2006

    Passare il confine. Dello Stato e dell’io

    Il politico e l’umano di fronte alla vulnerabilità 25 marzo 2008

    La vita psichica del soggetto nazionale

    Intervista con Judith Butler 25 marzo 2008

    Chi tiene la democrazia sotto sequesro?

    Intervista con Wendy Brown 25 marzo 2008

    Diario/2. Dentro la ferita

    Diario/3. L’insegna delle donne

    Diario/4. Kamikaze

    Diario/5. Apparenze

    Diario/6. Virus e batteri

    Diario/7. Civili, ostaggi, mercenari

    Diario/8. Fronte europeo

    Diario/9. Dei e regnanti

    Diario/10. Danni collaterali

    Diario/11. Cambio di stagione

    Fra Genova e New York La parola femminile nella piega del presente

    dicembre 2001

    Fonti e ringraziamenti

    Le interviste riproposte in questo libro sono state tutte pubblicate nelle date indicate su il manifesto fra il 2001 e il 2008, e così pure gli articoli che ho raccolto nei Diari e che sono una selezione ristretta della mia rubrica settimanale «Politica o quasi» degli stessi anni, eccezion fatta per In paradiso sui tacchi a spillo che uscì sulla rivista Global. Il saggio finale, Da Genova a New York. La parola femminile nella piega del presente è stato pubblicato in una versione leggermente più ampia nel volume di Diotima Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli 2002.

    Grazie a Simona Bonsignori per la cura editoriale, a Nicola Vincenzoni per la lettura dei testi, a Maria Laura Lanzillo che già svariati anni fa mi aveva incoraggiata a raccoglierli, a Pat Carra che mi ha fatto dono dell’illustrazione di copertina.

    Questo libro è dedicato a chi vent’anni fa non c’era ancora.

    Introduzione/Noi vulnerabili

    Un giorno si dirà: l’11 settembre accadde ancora

    ai cari vecchi tempi dell’ultima guerra,

    quando le cose erano dell’ordine del gigantesco

    e del visibile. Da allora c’è stato di peggio,

    le nanotecnologie, potenti invisibili e imprendibili,

    rivaleggiano con i microbi e i batteri.

    Ma il nostro inconscio lo sa già,

    ed è questo che fa paura.

    Jacques Derrida, 2002

    L’estate era durata poco. Il G8 aveva fatto saltare tutti i piani, solo una breve pausa prima dell’inferno genovese, una fine di luglio afosa a tentare di far capire quello che era successo a chi non l’aveva visto di persona e non lo voleva realizzare, due settimane d’agosto in vacanza per modo di dire, perché anche la mia spiaggia era spaccata in due come una mela, da un lato i benpensanti che se la prendevano di default con «i violenti», dall’altro chi aveva capito benissimo che anche stavolta, come nella migliore tradizione della storia della Repubblica, la violenza era stata prima di tutto violenza di Stato. Io, per giunta, non riuscivo a dormire. L’insonnia era un sintomo diffuso fra molte di noi che eravamo tornate da Genova, il segno che qualcosa, di quelle tre giornate, aveva toccato l’inconscio. La paura di morire intrappolata nelle gallerie sotto carica, l’effetto sugli occhi e sulla pelle dei lacrimogeni urticanti, il ronzio assordante degli elicotteri sopra la testa. La carica brutale e gratuita delle forze dell’ordine sul corteo delle Tute bianche in via Tolemaide, il corpo senza vita di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, la telefonata che mi aveva svegliata in piena notte per avvertirmi del blitz alla scuola Diaz, le testimonianze agghiaccianti degli abusi nella caserma di Bolzaneto, le cicatrici fisiche e sentimentali di quanti, e soprattutto quante, arrivati a Genova per partecipare a un rito collettivo d’iniziazione alla politica se ne andarono iniziati alla brutalità della forza e piegati alla rinuncia per impotenza. La scoperta che uno Stato di diritto può rovesciarsi in pochi minuti in uno Stato di polizia mandando in frantumi mezzo secolo di costituzionalismo come un fragile oggetto di vetro sabbiato. Ancora, l’impatto con una generazione nuova che finalmente prendeva nelle sue mani il testimone della ribellione, una generazione diversa da quella degli anni Settanta proprio in ciò che la faceva sembrare più simile, dall’amore ritrovato per la politica al protagonismo femminile alla contestazione della legge del capitale. Ma più di tutto, forse, a colpire la ragione e l’inconscio era stata l’improvvisa epifania della sagoma del potere globale, nascosta agli occhi dei più ma esposta alle telecamere in una cittadella tirata a lucido da Berlusconi come il salotto buono per l’arrivo dello zio d’America. Ridicolo nei numeri, otto sedicenti «grandi» in tutto, esagerato nelle scorte, sontuoso nei banchetti, segregato dietro le grate come in una prigione autoinflitta, armato fino ai denti cavalleria bardata compresa: così si presentò a Genova il Sovrano del terzo millennio che ambiva a prendere il posto del Leviatano moderno. Cieco per giunta, una sorta di panottico condannato al contrappasso di controllare tutto dentro la zona rossa ma senza vedere nulla di quello che accadeva al di fuori, in una città evacuata e trasformata in un set di guerra dove non si poteva girare altro che il film di guerra che infatti vi fu girato. Ma un sovrano che si mette in posa su un set di guerra, protetto da qualunque contatto pur di restare immune da qualunque contagio, è un sovrano debole: tanto debole da dover fare mostra di onnipotenza, e tanto impotente da armarsi di una violenza sproporzionata e sconsiderata.

    Insonne e inquieta, come inconsciamente avvertita che quel set e quel film di guerra preludessero a un set più grande e a un film più lungo, dal 3 settembre seguivo per il manifesto il comitato parlamentare d’indagine che entro il 20 doveva mettere insieme la verità ufficiale su quello che a Genova era accaduto nei giorni e nelle notti fra il 19 e il 21 di luglio. La mattina dell’11 settembre eravamo agli sgoccioli. Pochi giorni prima, convocati a fornire la loro versione dei fatti, Luca Casarini e Vittorio Agnoletto, portavoce rispettivamente delle Tute bianche e del Genoa Social Forum, avevano smontato pezzo per pezzo il teorema del governo e dei vertici delle forze armate che recitava quanto segue: Black bloc criminale, connivenza del Movimento con il Black bloc, connivenza della sinistra con il Movimento, comportamento ineccepibile delle forze dell’ordine. A smontare il teorema si sarebbero aggiunti, nei giorni successivi, i filmati di Indymedia e il film ancora in fase di montaggio di Davide Ferrario¹: il Blocco nero che scorrazzava per tutta Genova indisturbato, con i carabinieri che lo guardavano inerti devastare cassonetti, filiali di banche e supermercati e si mobilitavano solo per attaccare pacifisti, femministe, Cobas e Tute bianche. Quanto bastava per togliere di mezzo qualunque tentazione di «dialogo» fra governo e opposizione. Se ne sarebbe potuta trarre forse qualche conclusione politica, forse la classe dirigente italiana non avrebbe potuto assolversi da quel marchio d’infamia tanto facilmente, forse i vertici delle forze dell’ordine non sarebbero rimasti impuniti, forse chi dall’opposizione ne aveva denunciate le «rappresaglie di tipo cileno» non sarebbe rimasto isolato². Forse Genova non sarebbe caduta nella rimozione in cui invece cadde, forse il Movimento dei movimenti avrebbe avuto un’altra occasione e l’avrebbe affrontata con un’astuzia maggiore senza cadere nella trappola dello scontro frontale, forse la generazione che a Genova era venuta alla luce avrebbe avuto una vita politica adulta diversa da quella che ha avuto. Forse: la celebrazione del ventennale è stata piena di questi e altri forse³. La verità è che non ce ne fu il tempo.

    L’icona totale

    Poco prima delle tre del pomeriggio il comitato era ancora riunito a porte chiuse e io stavo ingannando l’attesa scorrendo le agenzie di politica interna in una sala stampa ancora semivuota per ferie quando da una voce incerta alle mie spalle mi arrivò un laconico «Twin towers, non si capisce». Passai al menu esteri e trovai il flash: Torri gemelle, si teme un attentato. Non capivo cos’era successo, il primo lancio, sullo schianto del primo aereo sulla prima torre, mancava, più tardi vidi che era uscito in cronaca, come un qualsiasi incidente. Qualcuno, dagli altri tavoli, già mormorava fra il cinico e lo scaramantico di terza guerra mondiale. Ci incollammo davanti alle tv. La Cnn aveva appena fatto in tempo a piazzare le telecamere sulla nuvola di fumo nero che usciva dalla torre nord quando il secondo aereo si infilò nella torre sud ed esplose in una fiammata arancione sullo sfondo mai così azzurro e terso del cielo sopra Manhattan. Ore 9:03 a New York, 15:03 a Roma. Pochi attimi per fare il giro del mondo, e quel fermo-immagine del World Trade Center in fiamme si insediò come un’icona totale e totalizzante al centro dell’immaginario politico planetario, richiamando alla memoria di chi li aveva letti i versetti dell’Apocalisse⁴ e oscurando le riprese del Pentagono in fiamme colpito a sua volta da un terzo aereo alle 9:37, quasi che l’attacco alla sede della sovranità politica fosse ormai derubricabile rispetto allo sfregio del simbolo del potere economico americano⁵.

    Di fronte agli eventi più grandi o ai lutti più dolorosi dentro di me scatta sempre la stessa reazione: qualcosa frena perché tutto non frani, e una calma gelida mi rallenta i movimenti. Fu così anche quel pomeriggio. Dov’eri? avremmo cominciato a chiederci l’un l’altra mezz’ora dopo. È strano come i fatti che cambiano il corso della storia, le date che entrano nei libri di testo dove la vita quotidiana non entra mai, si riconoscano da questo semplice indice, dov’eravamo e con chi e a fare che cosa. Nel breve tratto di strada che separa Montecitorio dalla sede storica del manifesto in via Tomacelli di fatti così me ne vennero in mentre tre o quattro. Ero nella casa della mia infanzia con mia madre e mia sorella in attesa che mio padre rientrasse da un impegno politico quando la tv annunciò che avevano assassinato John Kennedy, ero a casa di mia nonna a fare una versione di greco quando saltò in aria Piazza Fontana a Milano, ero in cucina a farmi un caffè nella mia casa di Firenze, appena laureata, quando dalla radio irruppe la tragedia di via Fani; e fu dopo l’assassinio di Moro che decisi di partire per New York, la prima volta di una lunga serie in cui le Torri gemelle mi accoglievano all’arrivo, mi facevano da bussola nei miei giri per la città, mi salutavano alla partenza. Ero con la testa ancora a Genova quando esplosero le Twin towers, e questa cartolina personale segnala nel suo piccolo come i due eventi si siano sovrapposti, e come il secondo abbia fagocitato il primo stravolgendo in un attimo i termini del dibattito pubblico.

    Pure, a distanza di venti anni la sovrapposizione appare più complessa da decifrare che nell’immediato. Nell’immediato ci fu da contrastare l’associazione fra il terrorismo internazionale e i contestatori del G8 che alcuni servizi segreti e alcuni media italiani e stranieri avevano artatamente ipotizzato già prima di Genova, figurarsi dopo New York⁶: il che non aiutò certo il Movimento ad aprire una riflessione su se stesso e sulle sue pratiche, meriti e limiti, dopo la catastrofe genovese. Tanto meno lo aiutò, nelle settimane successive, la reazione bellica all’attentato newyorkese, che gli diede sì l’occasione di tornare in scena come «seconda superpotenza globale»⁷ nella manifestazione mondiale del 15 febbraio 2003 contro la guerra in Iraq, ma restringendone al solo pacifismo l’arco tematico economico-ecologico-politico che da Seattle in poi ne aveva nutrito l’agenda; il tutto mentre l’analisi retrospettiva sui misfatti di Genova si restringeva a sua volta al percorso a ostacoli, necessario ma non sufficiente, dei processi penali. Ma soprattutto fu spiazzante, per chi nella superpotenza americana individuava il vertice invincibile del dominio globale, l’improvvisa scoperta della sua vulnerabilità, scoperta che avrebbe richiesto un’analisi delle contraddizioni inedite dell’Impero cui gran parte dei No-global, ancora affezionata a un antiamericanismo frontale, non era preparata.

    Restano tuttavia i sorprendenti tratti anticipatori del set genovese rispetto allo scenario inaugurato dall’11 settembre, non solo sul piano dell’analisi della globalizzazione ma anche dal punto di vista del mutamento dei soggetti e delle forme della politica. Per la prima volta a Genova si confrontarono due soggetti globali e ormai palesemente diversi dalle loro rispettive configurazioni novecentesche: un potere transnazionale e deterritorializzato che rifletteva la fine della sovranità statuale e un movimento moltitudinario che rifletteva la nuova composizione, post-fordista e post-ideologica, del fronte antagonista. Entrambi giocarono la partita su un terreno spazialmente ridefinito: l’ossessivo contenzioso sulle zone in cui Genova fu divisa, e che avrebbero dovuto garantire l’ordine pubblico secondo il potere ed essere violate secondo il Movimento, anticipava quella sorta di marcatura biopolitica «a zona» del corpo sociale che dopo l’11 settembre avrebbe caratterizzato le tecniche di controllo e sorveglianza, e che vent’anni dopo avremmo ritrovato nelle strategie di contenimento della pandemia da Sars-Cov-2. Entrambi, il potere e il Movimento, andarono per le spicce adottando pratiche del tutto svincolate dalla mediazione giuridica e rappresentativa: il potere si qualificò come stato d’eccezione, stracciando vincoli e garanzie costituzionali come avrebbe continuato a fare dopo l’11 settembre; le torture di Bolzaneto anticiparono quelle di Guantanamo e Abu Ghraib. Il Movimento dispiegò un ventaglio di pratiche performative – dalla non-violenza dell’ala più pacifica alla violenza simulata delle Tute bianche alla violenza agita del Blocco nero – che nulla avevano più a che fare con la grammatica rappresentativa e che infatti non prevedevano (né ricevettero, salvo una decina di parlamentari Verdi e del Prc che a Genova e su Genova si esposero in prima persona) alcuna sponda nel teatro della rappresentanza. Sia il potere che il Movimento, infine ma non ultimo, fecero dell’uso sapiente dei media e del visuale il proprio asso nella manica, anche in questo anticipando le trasformazioni successive della sfera pubblica, e sia l’uno che l’altro giocarono sul triplo registro dell’immaginario, del reale e del simbolico: lo stesso triplo registro che l’icona del crollo delle Torri avrebbe condensato plasticamente due mesi dopo.

    Al di là del linguaggio

    L’impatto estetico dell’icona – «la sublime opera d’arte che inaugura il terzo millennio», come la definì Karlheinz Stockhausen per poi scusarsene – fu tutt’uno con l’effetto cognitivo, e la portata mediatica dell’evento fu tutt’uno con la sua portata politica. L’11 settembre non fu solo trasmesso dalla tv in tutto il mondo, come già era accaduto con altri eventi minori di fine secolo; avvenne – tutto: lo schianto del secondo aereo, l’esplosione e il collasso delle torri, il volo disperato dei corpi nudi che dai piani alti del World Trade Center si lanciavano sul selciato in cerca di salvezza – in diretta tv, davanti agli occhi di un pubblico mondiale che guardava l’apocalisse dal tinello di casa. Da quel momento in poi, le immagini e l’immaginario si installarono nella cabina di regia dell’evento, decidendone la percezione e il significato. C’è immagine e immagine, ovviamente: il cinema, in seguito, fu capace di altre inquadrature e di altre curvature del senso; fece vedere l’impatto differenziato dell’attentato in luoghi e contesti differenziati, come in 11´09´´01 – September 11⁸; seppe collocare la telecamera obliquamente su Ground Zero mostrando che in quella voragine erano finiti l’innocenza e il sogno americano, come ne La venticinquesima ora di Spike Lee. La fotografia decise, a sua volta e a suo modo, le inquadrature e la percezione delle torture di Abu Ghraib, così come i video on line sollecitarono il voyeurismo dell’orrore con le decapitazioni in differita degli ostaggi occidentali sequestrati dai gruppi fondamentalisti islamici nella guerra irachena. Ma in principio fu la televisione – e più precisamente, come subito notò Jacques Derrida, la reiterabilità e la reiterazione dell’immagine televisiva – a decidere l’impressione dell’attacco dell’11 settembre sui sensi dell’audience mondiale. Ripetuta all’infinito insieme con il deittico «11 settembre» – «un nome, una cifra», senza ulteriori specificazioni⁹ – l’icona mediatica dell’esplosione delle Torri gemelle costruì l’evento dandogli il crisma dell’unicità, dell’imprevedibilità e dell’ineffabilità: «come un’intuizione senza concetto, quasi fosse al di là della portata di un linguaggio che confessa così la propria impotenza», accontentandosi di ripetere uno scongiuro che neutralizzasse il trauma senza comprenderlo e ne minacciasse il ritorno senza elaborarlo¹⁰. E tuttavia proprio questa implicita confessione d’impotenza suggeriva «di cercare di comprendere ciò che succede al di là del linguaggio», in due direzioni: nella reazione inconscia che non trovava traduzione in parola; e al di là del linguaggio accreditato, cioè di quei paradigmi consolidati del pensiero politico che l’attacco terrorista fece vacillare, e che in un certo senso ne erano il vero e centrato obiettivo¹¹.

    Lo si può dire anche in un altro modo. Diversamente da quanto si affrettò a sostenere chi, da destra e da sinistra, non vedeva l’ora di farla finita con un postmodernismo reo di aver sostituito mondi di fantasia all’evidenza dei fatti, l’attacco dell’11 settembre non fu l’irruzione della realtà nella bolla patinata dell’immaginario cinematografico di Hollywood o di quello neo-tecnologico della Silicon Valley: fu viceversa la realizzazione letterale dell’immaginario della catastrofe che è l’antico risvolto incubotico del mito della frontiera americano, nonché una precondizione del funzionamento spettrale del capitalismo contemporaneo. L’immaginario e i suoi fantasmi si materializzarono, per usare il lessico lacaniano, in un Reale privo di traduzione simbolica. Nella sua immediatezza, la prima reazione emotiva che circolò nei titoli dei giornali e nelle conversazioni quotidiane di mezzo mondo, «non ci sono parole», esprimeva certamente l’esterrefazione per il fatto – lo sfregio subìto in casa propria, per la prima volta dopo Pearl Harbor, dalla più grande e per definizione inviolabile potenza del pianeta – e per il modo – la logica suicidaria dell’attentato, una sfida ultimativa al principio basilare della deterrenza per cui l’attacco alla vita altrui non può mai spingersi oltre il limite della conservazione della propria. Ma quel mancamento delle parole segnalava al tempo stesso che lo sfondamento delle Torri era anche uno sfondamento delle nostre categorie interpretative della realtà; e che il senso più profondo e più sorgivo dell’accaduto non stava in quello che ne sapevamo – le spiegazioni geopolitiche del terrorismo internazionale, ad esempio – ma precisamente in quello che non ne sapevamo, a conferma che «l’evento è ciò che accade e che, accadendo, giunge a sorprendere e a sospendere la comprensione»¹². In questo senso si può continuare e si continuerà a discutere se l’11 settembre sia stato o meno un evento storico, cioè se abbia effettivamente modificato il corso precedente delle cose, secondo il refrain allora martellante «da oggi più niente sarà come prima»; ma è indubitabile che sia stato un evento filosofico, un trauma del pensiero che domandava un salto di paradigma di fronte all’impensato.

    L’epifania del globale

    Infantile è del resto, letteralmente, la condizione di chi non ha parole, e riviverla da adulti può portare a due esiti opposti: ad un salto creativo, lo stesso che si fa da bambini per imparare a parlare, o al precipizio nella regressione¹³. L’11 settembre li provocò entrambi, la regressione e il salto. La divaricazione si vide subito, nell’analitica dell’attentato e nel vissuto della ferita, e subito disegnò il campo del conflitto teorico-politico.

    Doppie e gemelle, speculari e falliche, nell’attimo del crollo le Torri di Manhattan ci mandavano a dire che il mondo bipolare e gemello, speculare e fallico, geometricamente spartito nei suoi spazi politici, militarmente e ideologicamente ordinato dalla logica amico-nemico, era definitivamente crollato con loro: all’alba del XXI secolo non era più pensabile con le coordinate del XX, né tantomeno con la favola bella di una globalizzazione senza attriti e di una democrazia senza rivali che era stata raccontata in coro da tutto l’Occidente dopo un altro crollo, quello del Muro di Berlino. Nei dodici anni intercorsi fra la fine della Guerra fredda e l’attacco di Al Qaeda la globalizzazione aveva scavato più della vecchia talpa, non solo sul piano economico ma sul piano politico, sociale e antropologico, comprimendo lo spazio e il tempo, forando i confini, erodendo la sovranità nazionale, ibridando le culture, stracciando i certificati d’identità, cambiando i soggetti e le forme dello scontro geopolitico e ideologico e stabilendo fra i nuovi contendenti ostilità irriducibili e somiglianze inconfessabili. Bastava leggere attentamente l’icona per capirlo.

    Corpo-cyborg, uomo-macchina, uccello-Ufo, l’aereo-kamikaze venuto da Oriente per distruggere autodistruggendosi i simboli del potere imperiale incorporava l’immaginario tecnologico occidentale d’inizio millennio e ne aveva appreso il know-how in America e dall’America: più che da fuori veniva da dentro, come un doppio partorito in casa, e più che a un alieno somigliava al perturbante freudiano, qualcosa di familiare e segreto che riaffiora imprevisto in nuove sembianze, nella realtà e nell’inconscio¹⁴. L’attacco proveniva da un nemico invisibile e virale, organizzato in una rete senza territorio e senza confini come reticolare, deterritorializzato e sconfinato era l’Impero che voleva colpire, ed entrambi, l’Impero e il suo nemico, si alimentavano degli stessi flussi globali di capitali, tecnologie e informazioni. Perfino la logica suicidaria degli aerei-kamikaze era tutt’altro che estranea, fu sempre Derrida a rimarcarlo, alla logica autoimmunitaria, inconsciamente suicidaria anch’essa, che aveva ispirato la politica di potenza americana durante e dopo la Guerra fredda, ivi compreso il finanziamento dell’islamismo radicale contro l’Unione sovietica in Afghanistan¹⁵. Ancora. Le 2.977 vittime dell’attentato appartenevano a sessantacinque nazionalità diverse, a dimostrazione che se il bersaglio era il vertice americano del potere globale a essere colpita era in realtà la globalizzazione dal basso incarnata da quella ibridazione di lingue, colori e culture rimasta incenerita sotto le Torri. E la ferita nello skyliner di Manhattan era il segnale di una nuova distribuzione della vulnerabilità, che da prerogativa dei deboli e degli oppressi ossequiosa delle gerarchie del dominio diventava altresì rischio imminente per i forti e gli oppressori, condizione umana e politica generalizzata, marcatura di una interdipendenza globale da cui nessuno può credersi esente.

    A far mancare le parole era dunque una sorta di epifania incendiaria dello spazio globale, che rimandava le contraddizioni inedite di un mondo interconnesso e drammaticamente fratturato, secolarizzato nell’uso della tecnica e teologico nelle derive apocalittiche, ibridato nei suoi flussi e identitario nei suoi proclami di guerra. Bisognava reinterpretarlo, superando gli schemi mentali del passato. Il seguito della vicenda è, in buona sostanza, storia del conflitto fra chi ha tentato di aprirli e chi ha fatto di tutto per richiuderli, riportando il disordine globale al rassicurante ordine duale del bipolarismo perduto: l’Occidente contro l’Islam, la democrazia contro il nemico totalitario, l’identità americana contro la minaccia dell’alterità.

    Ossessioni identitarie

    Era pronta per l’occorrenza la «grande narrazione» dello scontro di civiltà. Concepita da Samuel Huntington nel 1993 per leggere lo scenario aperto dal crollo del Muro di Berlino, essa venne usata, ben oltre le intenzioni dell’autore, per gestire militarmente lo scenario aperto dal crollo delle Torri. Dopo il crollo del Muro, finita la Guerra fredda e saltati i confini artificiali disegnati dal colonialismo europeo, dall’imperialismo americano e dal comunismo sovietico, si trattava per Huntington di realizzare che dappertutto le identità collettive si andavano ridefinendo sulla base di più antiche coordinate etniche e culturali, che l’identità occidentale si sarebbe presto rivelata la più fragile e che bisognava rinnovarla, non per attizzare uno scontro fra civiltà diverse ma per evitarlo, nella prospettiva di un pianeta multicivilational. Dopo il crollo delle Torri questa diagnosi – filtrata dai falchi neo-conservatori americani che prima di occupare l’amministrazione Bush avevano covato il loro Project for a New American Century¹⁶ venne tradotta in prognosi politica e militare. E servì per certificare su base culturale l’identità del nuovo nemico terrorista che appariva ben più sfuggente di quella del vecchio nemico comunista, per ridare smalto all’identità occidentale che con la perdita del nemico comunista si era paradossalmente appannata, e per legittimare in nome dell’identità occidentale la risposta agli attentati dell’11 settembre. Tutto il resto ne conseguì: la culturalizzazione del conflitto sul Medio Oriente che aveva in realtà radici politicissime nella Guerra fredda¹⁷; l’uso del supplemento morale e di quello religioso – la crociata del Bene contro il Male, speculare alla jihad contro l’Occidente proclamata da Bin Laden – a fini politici e militari; l’identificazione arbitraria dell’Occidente con la sponda americana dell’Atlantico, figlia guerriera di Hobbes e di Marte, contro la sponda europea, figlia imbelle di Kant e di Venere; l’esportazione armata della democrazia come garanzia di civilizzazione degli incivili, e la sua glorificazione come cassaforte di un patrimonio senza macchia e senza peccato di diritti e di libertà, oggetto dell’invidia e dell’odio degli «altri». Una sequenza di equazioni e sillogismi il cui «punto di capitone», per così dire, fu l’uso delle donne come supposto emblema della libertà occidentale e dell’oppressione islamica nella propaganda della «guerra per la liberazione dal burqa», mentre la virilità veniva a sua volta ridefinita come emblema dell’invulnerabilità e dell’impermeabilità del soggetto nazionalista americano.

    Fu questo il sostrato culturale di legittimazione della global war on terror che George W. Bush dichiarò solennemente davanti al Congresso nove giorni dopo il crollo delle Torri, contro «una rete radicale di terroristi e ogni governo che li sostiene», rei di «odiare le libertà e lo stile di vita» occidentali e di collocarsi «nella scia del nazismo e del totalitarismo» novecenteschi¹⁸. Preludio dell’invasione dell’Afghanistan iniziata il 7 ottobre per rovesciare il regime dei Talebani protettore di Bin Laden e di Al Qaeda, questa formulazione mista di ybris geopolitica e di vaghezza morale venne precisata un anno dopo nella National Security Strategy, il testo in cui l’amministrazione Bush delineava la nuova weltanschauung americana per il XXI secolo e che fu a sua volta preludio dell’invasione dell’Iraq, contro il regime di Saddam Hussein accusato, senza prova alcuna, di coprire il terrorismo internazionale e di nascondere armi di distruzione di massa¹⁹. In quel testo diventava ancora più evidente la contraddizione fra la profilazione del nuovo nemico – non più Stati ma «un incrocio di radicalismo e tecnologia», non più eserciti regolari ma «reti di individui che agiscono nell’ombra», non più la competizione fra due blocchi simmetrici ma «pirati organizzati per penetrare nelle nostre società aperte» – e il ricorso al vecchio strumento della guerra. Che infatti, per adattarsi al nuovo nemico asimmetrico, venne riconfigurata, abbandonando la strategia della deterrenza e contro ogni regola del diritto internazionale, come guerra «preventiva», volta a colpire «l’imminente pericolo» non dove è ma dove potrebbe annidarsi, «su molti fronti, contro un nemico sfuggente, per un periodo di tempo dalla durata indefinibile»²⁰.

    Prendeva così forma il triplice paradosso di una superpotenza imperiale che alla minaccia del terrorismo internazionale reagiva con un crampo nazionalista ammantato di onnipotenza unilateralista, all’attacco di un agente virale rispondeva con due guerre territoriali concepite come tappe di una guerra globale e infinita, e a un nemico dal profilo incerto sostituiva due nemici supposti – i Talebani e Saddam Hussein – presentati come incarnazione del nuovo Nemico assoluto. Tre contraddizioni logiche e strategiche nelle quali la «guerra al terrore» non poteva che restare impigliata e alle quali si aggiunsero la demolizione dello Stato di diritto, con il Patriot Act e la «detenzione infinita» di Guantanamo giustificati dalla caccia al terrorista, e lo strappo del diritto internazionale, con la dichiarazione di guerra all’Iraq senza l’autorizzazione delle Nazioni unite. Il soft power che aveva alimentato i fasti del secolo

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