La fine della cosa: Poi-Pds Seminario delle Mozioni del No Arco di Trento 28-30 settembre 1990
By AA. VV., Famiano Crucianelli, Aldo Garzia and
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La fine della cosa - AA. VV.
EBOOK
a cura di Luciana Castellina
con F. Crucianelli, A. Garzia, F. Maone,
M. Serafini
La fine della Cosa
Pci-Pds
Seminario delle Mozioni del NO
Arco di Trento 28-30 settembre 1990
manifestolibri
© 2021 manifestolibri
La Talpa srl
Via della Torricella 46
Castel San Pietro Romano (RM)
Digitalizzazione: febbraio 2021
E-Book
ISBN 979-12-8012-437-1
www.manifestolibri.it
book@manifestolibri.it
Conferenza stampa dei presentatori della Mozione 2:
Natta, Ingrao, Angius, Castellina,
Chiarante, Magri, Tortorella, Zuffa.
La fine della Cosa
i curatori
Se a cento anni dalla nascita del PCI e a trenta dalla sua morte, un gruppo di compagni dell’ex Pdup per il comunismo¹ e dell’ex PCI, come noi siamo (Luciana Castellina, Famiano Crucianelli, Aldo Garzia, Nicola Manca, Filippo Maone, Massimo Serafini), ha deciso di promuovere, con la casa editrice manifestolibri, una nuova edizione dell’opuscolo con gli atti principali del Seminario tenuto ad Arco di Trento dai sostenitori del «No» al cambiamento di nome del PCI proprio alla vigilia della sua estinzione – settembre 1990 – non è solo per lasciarsi andare a un amarcord. Questa scelta ha innanzitutto un valore pratico: quell’opuscolo, infatti, non ebbe praticamente diffusione e perciò di cosa accadde sul lago di Garda sanno solo quelli che fisicamente erano presenti. Ancor meno si conoscono gli interventi di alcuni dei principali protagonisti del dibattito, Armando Cossutta, Maria Luisa Boccia, Pietro Ingrao e Sergio Garavini, quest’ultimo fu poi il primo segretario di Rifondazione comunista. Siamo molto contenti di averli rintracciati e di poterli aggiungere a questa pubblicazione.
Se, dunque, riproponiamo quel libretto che fu intitolato In nome delle cose – parafrasando Il nome della Cosa, il famoso documentario di Nanni Moretti usato come definizione corrente nei media – cioè la sostanza della questione, che non era solo problema di parole, è soprattutto perché, rileggendo dopo oltre trent’anni la relazione che tenne Lucio Magri a nome di tutta la Mozione 2, le conclusioni di Giuseppe Chiarante e l’illustrazione della collegata Mozione femminista letta da Liliana Rampello, ci è parso che contengano molti elementi utili anche per una riflessione attuale. Quella, che – se allora si fosse sviluppata, – avrebbe forse potuto far vivere, non certo il PCI come era, essendo a noi evidente che non poteva più esserci continuità e occorreva aggiornare analisi e proposta, ma un moderno partito comunista. Non andò così, come tutti sanno, e fu una occasione perduta.
Quella Mozione numero 2, che aveva unificato le ali cosiddette «ingraiana» e «cossuttiana», rappresentava il 33% del partito, non poca cosa. Ma, soprattutto, avrebbe potuto contare – ne siamo certe/i – su molti dei 400 mila compagni che fra un Congresso e l’altro, il XIX – quando nel marzo 1989 venne formalizzata la proposta di Occhetto – e il XX – quando venne approvata a Rimini l’1 febbraio 1991 – avevano abbandonato.
Taluni, certo, perché nel tempo la nuova, più agiata collocazione sociale che il «miracolo economico» aveva loro consentito, li aveva spinti su posizioni meno alternative. Ma i più perché sconfortati da una decisione che aveva calpestato il loro giusto orgoglio di militanti comunisti. Soprattutto li avevamo perduti noi: avevano capito che la macchina organizzativa e il senso di disciplina ci aveva già reso perdenti. Quei compagni non sono mai più stati recuperati, né da Rifondazione comunista, né da altre formazioni.
La relazione di Magri – come si è detto – non introduceva solo la discussione sul che fare una volta che – era ormai scontato – di lì a due mesi sarebbe nato il nuovo partito proposto da Occhetto, ma assunse il carattere di vere e proprie tesi fondative di un nuovo possibile partito che avrebbero permesso un radicale rinnovamento, pur senza liquidare il patrimonio umano, culturale e politico del comunismo italiano. Una sua rifondazione.
La sostanza del progetto politico presentato da Magri ad Arco era in realtà molto simile a quella che lui stesso aveva scritto in occasione dell’ultimo congresso del PCI, il XVIII, quando l’area ingraiana aveva deciso di presentare una mozione alternativa a quella del segretario del partito, Occhetto – il testo è nell’appendice del libro Il sarto di Ulm, scritto da Magri molti anni dopo (Il Saggiatore, 2000).
In ultimo, però, Ingrao aveva giudicato rischiosa per l’unità del partito la sua presentazione e ancora una volta il dissenso politico, che da tempo lo attraversava, non fu portato allo scoperto e condiviso con tutti.
La riproposizione di quelle tesi ad Arco avveniva tuttavia in un contesto assai diverso, nel pieno della drammatica crisi scoppiata con la proposta del mutamento del nome e quando ci si trovava ad affrontare una spaccatura ormai quasi inevitabile del partito. Erano la sintesi di analisi, riflessioni e convinzioni maturate da tempo. Richiamavano scenari, responsabilità e iniziative che non potevano essere rappresentate né da un partitino ossificato e minoritario, né da una corrente interna, fatalmente condannata, per via della sua collocazione subalterna, a lottare per ritagliarsi spazi di manovra, piuttosto che a proporre una sfida così complessa.
Quando si arriva ad Arco è passato già un anno dallo scioccante annuncio anticipato da Occhetto in una riunione della sezione della Bolognina, quartiere operaio della capitale della rossa Emilia, poi comunicato a una Direzione del partito convocata in tutta fretta. Tre soli voti contrari in quella sede – Castellina, Cazzaniga, Magri (i più vecchi autorevoli dirigenti non più presenti perché l’organismo era stato «ringiovanito» dal precedente congresso). Poi, al successivo Comitato Centrale iniziato il 20 novembre 1989 e durato cinque giorni, i «No» furono 73, 34 gli astenuti e 219 i «Sì» per la conferma della scelta di Occhetto di avviare la nascita di una nuova formazione politica. Ma nel paese, e non solo nel grande corpo del PCI, un grande stupore, accompagnato dallo smarrimento e anche dalla rabbia. Rabbia e, appena si capisce che la scelta è irreversibile, disincanto. Ricordiamo tutti quelle prime settimane, le accese discussioni nelle sezioni, in una – in provincia di Ferrara – la frase significativa di una vecchia compagna che giustifica così il suo voto a favore del Sì: «Se il partito ci chiede anche questo sacrificio, lo faremo». Ancora tanta fiducia, in nome della quale il cambiamento di nome si sopporta come obbligo e disciplina.
Già immediatamente dopo il Comitato Centrale si arriva alle mozioni in vista del XIX congresso che dovrà formalizzare la proposta della Mozione n.1 firmata in testa da Achille Occhetto, e a seguire dalla stragrande maggioranza della Direzione. Poi la Mozione n. 2, quella che si oppone, ben più larga della vecchia area ingraiana. E infatti portava, nientemeno, che la firma di Alessandro Natta, segretario del partito alla morte di Berlinguer. Per il gruppo del Manifesto, un fatto più che significativo colto da Aldo Garzia, che poi scrisse un libro intitolato Da Natta a Natta (edizioni Dedalo, 1984). Lo stesso Natta che, come relatore della V Commissione permanente (alla quale erano demandati i problemi del partito), propose la nostra radiazione nella riunione congiunta del Comitato centrale e della Commissione centrale di controllo nel 1969. Ed è proprio insieme a lui che vent’anni dopo ci battemmo per impedire che quello stesso partito venisse sciolto.
Ricordiamo tutti bene l’emozione della conferenza stampa alla quale i presentatori della Mozione 2 – Natta, Ingrao, Angius, Castellina, Chiarante, Magri, Tortorella, Zuffa – furono immortalati da una foto.
Al congresso di Bologna, nel marzo 1990, la Mozione 2 raccolse il 34% dei voti. Ci fu anche una Mozione n. 3, guidata da Cossutta, con circa il 3% dei consensi². (Un’altra, chiamata «due e mezzo», che esprimeva solo incertezza, venne promossa da Antonio Bassolino e da Gavino Angius (che nel frattempo si era staccato dalla nostra), firmata anche da Mario Tronti e Asor Rosa; al successivo congresso verrà ritirata e i suoi presentatori convertiti alla maggioranza).
È alla fine di quell’anno di interludio drammatico che ci confrontammo ad Arco di Trento, amena località sul Lago di Garda. È qui che, dal 28 al 30 settembre 1990, si tiene quello che è passato alla storia della sinistra italiana come il Seminario di Arco: la riunione della Mozione 2 in vista del XX Congresso del PCI, che poi si svolse il 30 gennaio 1991, in una lugubre piovosa Rimini.
A questo punto di mozioni che si oppongono alla proposta di Occhetto ce n’è solo una, perché alla vigilia del secondo congresso dedicato al mutamento del nome del partito, quello definitivo, tutta l’opposizione si è unificata. Nonostante le diversità politiche e culturali che ci hanno storicamente caratterizzato, di fronte alla scelta decisiva, facemmo uno sforzo per intenderci. Tanto è vero che il compito della relazione introduttiva fu affidato da tutti a Magri.
Ad Arco, nella grande sala molto affollata, si ritrovò dunque tutto il variegato fronte del «No». Presente anche una delegazione del quotidiano il manifesto con Luigi Pintor, Valentino Parlato, Rina Gagliardi, Carla Casalini; e un’altra di Democrazia proletaria.
Occorreva riflettere ma anche compiere la scelta pratica immediata e, per questo, verificare se esisteva in merito una strategia comune. La proposta della relazione è un compromesso e, anche, un espediente per rinviare una scelta più netta, cui in realtà nessuno è veramente preparato. Consapevole della sterilità di una soluzione che avesse spaccato definitivamente il partito, però anche della prospettiva di sopravvivere come subalterna opposizione interna, la relazione proponeva che – se il nuovo partito che la maggioranza stava per partorire non si fosse allontanato troppo da una linea di sinistra – si desse vita a una Federazione, cui avrebbero potuto far capo, dotate di una relativa autonomia, le due aree. Ove fosse stata rifiutata dalla maggioranza del PCI tale ipotesi, come era probabile, restava da decidere se aderire al nuovo partito o imboccare la via della separazione per fondare una forza neo comunista consapevole della portata storica di un ripensamento che i fatti del 1989 imponevano a tutti.
Il dibattito di quei giorni del settembre 1990 è riascoltabile tuttora grazie agli archivi di Radio radicale. Nella discussione di allora si avverte una differenza di accenti tra chi pone al centro i temi dell’identità (contro il cambiamento di nome e simbolo del PCI) e chi concentra l’attenzione sulle novità della fase storica, sui contenuti programmatici di un progetto di rinnovamento della sinistra italiana, indispensabile anche per i comunisti italiani che pure avevano una storia così diversa da quella di quasi tutti gli altri partiti «fratelli».
Anche la prima guerra del Golfo seguita all’invasione del Kuwait da parte delle truppe dell’Iraq (2 agosto 1990-28 febbraio 1991), che aveva provocato nel frattempo un ampio movimento contro la partecipazione all’avventura militare nella Regione, contribuiva ad accendere lo scontro. Sul merito alla Camera, per la prima volta, ad agosto si era già spaccato il gruppo comunista: i parlamentari del «No» non avevano accettato l’ambiguo giudizio della maggioranza e presentato una propria mozione, accompagnata da una dichiarazione di voto in dissenso pronunciata da Ingrao.
Ad Arco non c’è bisogno di votare, alla fine. È un seminario, non un congresso, la scelta ciascuno la farà a Rimini. La scommessa è che tutti convergano sulla medesima mozione. Giacché sarebbe stato assai diverso se la Mozione 2, tutto il «No», avesse dichiarato di restare unita, sia optando per restare sia altrettanto per lasciare. Non fu così, e l’esito finale fu chiaro già al momento degli interventi dei due leader principali delle aree riunite nella Mozione 2, Ingrao e Cossutta. Ambedue anticiparono la conclusione pronunciando i fatidici due «comunque». Ingrao: «Comunque resto». Cossutta: «Comunque me ne vado». Ingrao in nome del «gorgo», il grosso del corpo che avrebbe seguito il nuovo partito, Cossutta convinto che non ci fossero più i margini per continuare insieme con i vecchi compagni.
Una pessima conclusione, poiché sia l’una che l’altra posizione avrebbe potuto avere un senso se quel 33% di comunisti fosse rimasto compatto, l’efficacia della scelta dipendendo dalla forza di chi l’avesse