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Dalla Cocaina Agli Angeli: speranza rinascita amore
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Ebook66 pages51 minutes

Dalla Cocaina Agli Angeli: speranza rinascita amore

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"Dalla Cocaina Agli Angeli" (dolore, speranza, rinascita, amore) Tutti possiamo rinascere a nuova vita. Abbiamo solo bisogno di individuare una forte motivazione che ci stimoli a riconoscerci, attraverso il nostro agire, come individui utili a un qualche fine per poi riconciliarci con noi stessi. Ciò è possibile attraverso un credo in qualcosa, non necessariamente in una religione. Bisogna aiutare se stessi prodigandosi ad aiutare gli altri. Supportare il prossimo dà pienezza alla propria esistenza, dà un senso, uno scopo, al nostro vivere, ci fa sentire utili. Il protagonista del libro aveva una predisposizione spirituale, da bambino verso la fede cristiana, da adulto in quella buddista. Il suo credo era ben radicato in lui e gli ha consentito prima di adoperarsi all'interno di una comunità, poi di perfezionare la sua propensione fondando l'associazione Love More, con lo scopo di sostenere giovani musicisti con storie familiari particolari alle spalle. Ancora oggi, dall'amore attinge tutta l'energia per rivoluzionare la sua vita, trovando la felicità che ha sempre cercato.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 4, 2021
ISBN9791220368865
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    Dalla Cocaina Agli Angeli - Giampiero Turco

    Capitolo I

    INFANZIA E PRIMI SEGNALI

    Sono nato settant’anni fa a Taranto vecchia, da una classica famiglia borghese, terzogenito di cinque figli: Alfonso, Giovanni, io – Giampiero –, Miriam e Massimo.

    Mio padre si chiamava Giuseppe, siciliano d’origine migrato a Taranto perché arruolato in Marina Militare. Mia madre Emma, pugliese di Statte, all’epoca frazione del comune di Taranto e ora divenuta comune a sé, si occupava della casa e dei figli come la maggior parte delle donne di quegli anni.

    Sono nato in casa, in un palazzetto antico: Palazzo Ducale D’Ayala, in via Paisiello, costruito nel XVIII da don Ignazio Marrese, di origine francese, che ne fece non solo la sua dimora, ma anche una residenza raffinata dove ospitare i ministri del re, gli ufficiali e i subalterni. Nel 1800 fu acquistato dalla famiglia d’Ayala Valva, di origine spagnola, che lo modificò in maniera sostanziale, facendogli acquisire connotazioni rinascimentali al posto di quelle tipiche settecentesche. Dopo varie vicissitudini, è finito in uno stato di totale degrado e abbandono, ma oggi, per fortuna, è in restauro. Ricordo ancora le mie sensazioni da bambino di fronte alla maestosità di quell’edificio, con grandi scalinate, tetti di vetro, finestre altissime affacciate sul mare e lunghi corridoi bui che, lo confesso, mi incutevano timore.

    Io e mio fratello Alfonso dormivamo in uno stanzone enorme. Quasi ogni notte eravamo invasi da presenze. Mio fratello veniva, con inquietante puntualità, buttato giù dal letto e le sue coperte e materasso rovesciati, mentre io non venivo mai toccato. Sentivo camminare qualcuno sopra di me, sulle lenzuola, ma avevo anche la netta sensazione di essere protetto. Quando lo raccontammo a nostra madre, lei si mise a ridere e disse: «Ah, sì… è il fraticello», mostrandoci il suo braccio pieno di lividi, frutto dei dispetti di quest’anima burlona che pare si divertisse a pizzicarle le brac - cia e i polpacci. Di certo non era opera di mio padre, il quale adorava mamma e mai avrebbe mosso un dito contro di lei. Molte testimonianze dell’epoca da parte di coloro che abitavano il palazzo ducale confermavano i continui fastidi notturni perpetrati da questo spiritello che, per dirla in breve e con un francesismo, era un vero rompicoglioni.

    Già da bambino, quindi, avevo delle percezioni.

    All’età di sei anni ero in casa e mi sentii chiamare. La voce veniva dalla strada. Presi una sedia e vi salii sopra per affacciarmi alla finestra. Guardai in basso e vidi un bambino un po’ più piccolo di me, biondo e con i boccoli, che piangeva. Era evidente che si fosse perso. Mi precipitai giù. Non era semplice scendere quei giganteschi scaloni di marmo presidenziale, tanto che, sebbene vivessimo appena al secondo piano, quel tragitto equivaleva a un piccolo viaggio. Giunto in strada non vi era più traccia del bambino. Chiesi allora alla signora camiciaia, la quale era solita lavorare nel vicolo, che fine avesse fatto il bambino che piangeva. Lei mi rispose che l’unico bambino presente in strada ero io e che non aveva visto nessun altro. In effetti, conoscendo le famiglie che vi abitavano, non esisteva alcun bambino corrispondente alla mia descrizione.

    Nessuno mi credette, nemmeno mia madre.

    Capitolo II

    VITA DI PARROCCHIA

    Trascorsero pochi mesi da quando avevo visto il bambino piangere in strada.

    Frequentavo la scuola elementare in un istituto di suore, organizzata con turni pomeridiani. La sera, al termine delle lezioni, mia madre mi veniva a prendere e percorrevamo insieme, mano nella mano, la strada del ritorno a casa attraversando sempre vicolo Paisiello.

    Una di quelle sere rimasi incantato da una fonte luminosa che fuoriusciva dalla porta di una chiesa ancora aperta e illuminava gran parte della via. A guardia dell’ingresso, sopra la scalinata, notai un ragazzo molto giovane, vestito da paggio. Indossava una tenuta azzurra di velluto, in testa calzava un basco di piume bianche e portava uno spadino alla cintola. Quella figura mi affascinava parecchio e mi sarebbe piaciuto molto far parte della sua corporazione. Fu istintivo, per me, tirare la mano di mia madre così da fermarla e poter indugiare a osservare quella figura tanto carismatica.

    Mia madre si girò verso di me.

    «Non mi tirare. Che cosa guardi?»

    «Quel bambino, mammina», risposi.

    Ma lei non vide nessuno.

    Continuammo a camminare. Incontrammo un

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