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L'avvoltoio
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L'avvoltoio

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Chi ha ucciso John Lee? Quattro storie che si intrecciano. Quattro giovani voci che le raccontano. Quattro punti di vista differenti sull'America nera di fine anni '60, con i suoi ideali, le sue ipocrisie, le sue contraddizioni. Tradotto per la prima volta in italiano, il romanzo d'esordio di Gil Scott-Heron, scritto nel 1970, quando era ancora uno studente alla Lincoln University, ha la struttura avvincente di un thriller e una forte connotazione politica, dove fatti e fiction si mescolano sapientemente. Nella metafora dei voli concentrici dell'avvoltoio riecheggiano problemi oggi non ancora risolti e tornati prepotentemente alla ribalta con il movimento Black Lives Matter.
LanguageItaliano
PublisherRogas
Release dateNov 24, 2021
ISBN9791220859288
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    L'avvoltoio - Gil Scott-Heron

    Introduzione all’edizione italiana - Paola Attolino

    L’Avvoltoio è il primo romanzo di Gil Scott-Heron, scritto quando era ancora uno studente universitario di vent’anni. È una storia ambientata nella inner city , nel cuore pulsante della New York di fine anni Sessanta. La struttura è quella di un thriller, ma con una spiccata connotazione sociopolitica: la storia, infatti, gira intorno al misterioso omicidio del giovanissimo spacciatore John Lee e viene raccontata alternativamente in prima persona da quattro giovani che lo conoscevano, quattro personalità molto diverse tra di loro ma che hanno in comune il fatto di essere dei giovani neri che affrontano la dura vita del ghetto. Gil Scott-Heron dà voce alternativamente a Spade, Junior Jones, Afro e I.Q., accompagnando il lettore nel loro intimo più profondo e rendendolo partecipe delle loro difficoltà a sfuggire alle minacce del predatore, metafora dell’inevitabile destino dei neri, quel destino che in gran parte è dettato dall’assioma di Eraclito, ripreso da Ralph Ellison in Invisible Man: «la geografia è il destino».

    Gil Scott-Heron era particolarmente legato al suo primo romanzo, tanto da affermare che tutta la sua vita è dipesa dalla sua pubblicazione. L’Avvoltoio viene accolto favorevolmente e inserito nel vibrante contesto del Black Arts Movement, definito «il movimento più audace, prolifico e socialmente impegnato nella storia dell’America» perché costituiva un tentativo di cambiare il modo in cui gli afroamericani vedevano sé stessi, la propria cultura e il loro rapporto con la società e con le istituzioni americane.

    Tradurre L’Avvoltoio per la prima volta in italiano dopo più di cinquant’anni dalla sua uscita è stato un viaggio dalle molteplici sfumature. A dieci anni esatti dalla sua morte è commovente ritrovare in embrione tanti dei temi dell’eredità artistica e umana di Gil Scott-Heron nell’articolata narrazione di uno straordinario ragazzo di vent’anni. E la profondità delle tracce che ha lasciato trova conferma nella contingenza storica contemporanea.

    Il caso vuole che proprio mentre scrivo queste righe siano in pieno svolgimento i Campionati Europei di calcio, che saranno ricordati non soltanto per le imprese sportive di questa o quella squadra, ma anche perché il pubblico si è ritrovato attaccato al televisore per vedere se all’inizio di ogni partita i giocatori si sarebbero o meno inginocchiati, in un gesto, noto come «take a knee», che dovrebbe rappresentare una manifestazione di solidarietà al movimento Black Lives Matter e contro le discriminazioni razziste, soprattutto in seguito al brutale omicidio di George Floyd. In ambito sportivo il gesto risale al 2016, quando il campione di football americano Colin Kaepernick, durante l’esecuzione dell’inno nazionale, invece di posizionarsi sull’at­tenti si inginocchiò, proprio come avevano fatto nel 1965 a Selma Martin Luther King e Ralph Abernathy, e lo fece per lo stesso motivo: una presa di posizione contro gli abusi della polizia americana nei confronti degli afroamericani. Qualche mese dopo il rapper Nick Cannon diede voce alla protesta silenziosa di Colin Kaepernick offrendo un vigoroso esempio di spoken word nel brano Stand 4 What. In tutto questo si osservano nitidamente le tracce lasciate da Gil Scott-Heron e la sua voce riecheggia potentemente per più di un motivo. Non a caso l’appellativo di «Godfather of Rap» – di cui, però, Gil non si diceva entusiasta – gli è stato attribuito soprattutto per il suo ruolo di pioniere della spoken word, una pratica di oralità moderna dove viene messa in primo piano la natura sonica del linguaggio, ma che è soprattutto una pratica di libertà che mescola coming out e coming together, modalità discorsive che esprimono l’abilità di dichiararsi nella propria soggettività e allo stesso tempo farsi portavoce della collettività e che si ritrovano, infatti, nei concetti di keep it real e representing dell’hip hop. E se il gesto di Kaepernick è rimbalzato sugli schermi di tutto il mondo come rivoluzionario, il pensiero non può non andare a quel monito che è diventato il mantra delle rivoluzioni contemporanee, da Ferguson a piazza Tahrir, e che dà titolo a un brano che Gil Scott-Heron ha scritto nello stesso anno de L’Avvoltoio, il celeberrimo The Revolution Will Not Be Televised. L’eco mediatica e la spettacolarizzazione del «take a knee» sembrerebbero essere in contrasto con questa dichiarazione e invece è proprio per contrasto che ne emerge e si consolida il suo significato più profondo, quello spiegato dallo stesso Gil Scott-Heron in un’intervista rilasciata a Skip Blumberg negli anni Novanta: «Quello che intendevo con la frase la rivoluzione non sarà teletrasmessa è che la prima rivoluzione che avviene è nella tua mente. Devi essere capace di cambiare idea prima di cambiare il mondo.»

    La rivoluzione è uno dei temi de L’Avvoltoio, che è denso di riferimenti al movimento per i diritti civili degli afroamericani e alle diverse associazioni che ne hanno fatto parte. Non mancano, infatti, i richiami alla cosiddetta faction, tecnica sperimentale in auge nella letteratura di quegli anni e caratterizzata dalla mescolanza di fact e fiction, fatti e finzione. In alcuni casi, le allusioni a fatti contemporanei sono state oggetto di note esplicative al solo scopo di aiutare il lettore a orientarsi nel contesto storico.

    Gil Scott-Heron scrive L’Avvoltoio nel suo alloggio della Lincoln University in Pennsylvania. Qui ha avuto accesso a una fonte fondamentale per la sua formazione, quella collezione della biblioteca universitaria che gli studenti di colore chiamano familiarmente «Black Stacks», le cataste di libri dei neri. Tutti questi volumi costituiscono per il giovane Gil una fonte inesauribile di coinvolgimento, di impegno intellettuale, insieme a orgoglio razziale, tanto che si sentirà di dare un appassionato consiglio ai futuri studenti della Lincoln: «Tutto quello che posso dirvi è di immergervi nella Negro Collection della biblioteca e cominciare a scavare in voi stessi».

    Gil apprende che la poesia e la letteratura dei neri in America è poesia e letteratura «di necessità» (come scrive nel saggio To Make a Poet Black Jay Sonders Redding, uno dei suoi professori alla Lincoln), motivata come è dal desiderio pratico di adattarsi all’ambiente americano e anche dal concetto di «doppia coscienza» o «dualità» che lacerava Du Bois, quell’essere «un Americano e un Nero: due anime, due pensieri, due lotte non conciliate, due ideali in conflitto in un unico corpo scuro». E a questo proposito è particolarmente significativa la riflessione che Scott-Heron proporrà qualche anno dopo, quando affermerà che i neri americani sono gli unici veri Americani «duri a morire» rimasti negli Stati Uniti: «Siamo gli unici che hanno portato avanti il processo attraverso il processo. Tutti gli altri hanno saltato le tappe. Siamo quelli che hanno marciato, siamo quelli che hanno portato la Bibbia, siamo quelli che hanno portato la bandiera, siamo quelli che hanno provato a fare ricorso ai tribunali. Ed essere nato americano non sembrava avere importanza. Perché siamo nati americani e dovevamo ancora lottare per quello che cercavamo».

    La Lincoln è anche l’università in cui si è formato Langston Hughes, che Gil aveva ammirato sin da bambino grazie alla nonna materna, Lily Scott, assidua lettrice del «Chicago Defender», il settimanale afroamericano rivolto a una readership afroamericana dove Hughes teneva una rubrica che aveva come protagonista un personaggio comico, Jesse B. Semple, chiamato affettuosamente dai lettori «Simple», il tipico nero di Harlem, la voce autentica della comunità afroamericana, di cui si sentono echi in alcuni passi de L’Avvoltoio.

    Quando gli si chiede che cosa di Hughes abbia particolarmente influenzato la sua scrittura, Gil risponde: «il fatto che è più semplice ridere che piangere, anche se noi abbiamo tanto per cui piangere». Il senso dell’umorismo è il suo «sesto senso», quello di cui Scott-Heron non saprebbe fare a meno, non solo perché nella tradizione orale afroamericana l’umorismo è sempre stato un meccanismo compensativo che permette di sopportare le ingiustizie e l’oppressione, ma anche perché diventa lo strumento ideale per veicolare e far comprendere le proprie idee.

    Ne L’Avvoltoio il senso dell’umorismo è presente anche nei momenti più drammatici ed è corroborato dalla lingua in cui il romanzo è scritto, una lingua che attinge dall’oralità, che risuona del parlato della strada, una lingua che Scott-Heron vuole «fedele al ghetto», alla cultura del sottobosco criminale. Di qui il lessico, che si muove nella direzione di quello che Halliday chiama «antilinguaggio», alternativa consapevole al linguaggio ufficiale adottata per prendere distanza dall’ e stablishment e che infatti riguarda gli specifici campi semantici che rispecchiano gli interessi di quel sottobosco criminale: droga, alcol, denaro, sesso, crimine. E poi i dialoghi in Black English, in cui la potenza espressiva è nel ritmo e nella musicalità delle fantasiose parlate idiosincratiche e traslitterate in eye dialect di alcuni personaggi, la cui resa in italiano ha posto una considerevole sfida traduttiva.

    L’Avvoltoio è il primo degli unici due romanzi scritti da Gil Scott-Heron, che preferirà esprimersi attraverso la poesia e le canzoni, o meglio mescolandole grazie alla spoken word, perché a suo dire «il romanzo non si presta a una scrittura immediatamente politica, che è invece possibile nella poesia e nella canzone. Il mio lavoro è serio, ma è anche intrattenimento. Perché voglio raggiungere la gente». Gil, infatti, amava definire le sue incisioni «survival kits on wax», kit di sopravvivenza su vinile, e scriveva sotto la spinta di una sorta di «solidarietà creativa», dove il personale diventa politico e il politico diventa poetico. E come lui stesso spiega in Black Wax, il film documentario girato nel 1982 da Robert Mugge, «la politica di cui discutiamo non è politica di parte in termini di Partito Democratico o Repubblicano. Sono un membro del Partito del Senso Comune». L’obiettivo di questo partito che non ha colore è portare la comunità afroamericana verso quella dignità, quel rispetto di sé stessi di cui non si può fare a meno per vivere. Gil ha paragonato il suo operato artistico a quello del griot, il poeta e cantastorie che nella cultura di alcuni popoli dell’Africa occidentale ha il compito di preservare la tradizione orale degli avi: «Sembra che nella nostra comunità ci sia ancora bisogno di quello che il griot forniva in termini di cronologia storica; un modo di identificare e di classificare gli eventi nella cultura nera che sono stati importanti dal punto di vista storico, ma che sono ancora rilevanti». Un ruolo che Chuck D dei Public Enemy rivendicherà anche per il rapper, affermando che il rap è la CNN della comunità afroamericana.

    La produzione artistica e culturale di Gil Scott-Heron va a costituire dei veri e propri documenti storici, fornendo a chi ne fruisce quello che Amiri Baraka ha definito «il libretto (non di un’opera), ma delle vite realmente vissute»: nelle mani di Gil l’arte diventa storia e la storia diventa arte. Basti pensare alla narrazione ironica e sferzante dell’America di Nixon e del Watergate nella poesia-canzone H ² O gate Blues e dell’America di Reagan in B-Movie, ma anche di un’America di Trump ante litteram in brani come Winter in America e Alien (Hold on to your dreams), quest’ultimo dedicato al tema attualissimo dell’immigrazione clandestina e, nelle parole di Gil, «a quelle persone che arrivano in America solo con due cose: il sogno di una vita migliore e i vestiti che hanno addosso, ed è questo che abbiamo in comune con loro, il motivo per cui ci alziamo ogni mattina e decidiamo di riprovarci: perché abbiamo il sogno di una vita migliore».

    Il motivo ricorrente del sogno, quello di Martin Luther King, il sogno che accomuna i deboli, quelli che non possono permettersi di smettere di sognare, conferisce alla poetica di Gil Scott-Heron una valenza universale. Ed è significativo che le parole della sua ultima poesia-canzone pubblicata nel 2010, Your Soul and Mine, siano proprio quelle della prima, The Vulture, che è anche l’incipit di questo romanzo. Come un cerchio che si chiude per custodire il messaggio più importante di Gil Scott-Heron: «Soltanto, promettimi di combattere; di combattere per la tua anima. E per la mia.»

    Paola Attolino

    Luglio 2021

    Se ne stava in piedi tra le rovine della vita di un altro nero.

    Oppure svolazzava attraverso la valle

    separando il giorno dalla notte.

    «Sono la morte!» urlò l’Avvoltoio, «Sì, per il popolo della luce.»

    Caronte traghettava la sua zattera

    lungo il mare che naviga sulle anime,

    Vide il predatore che si allontanava,

    portando i cuori caldi al freddo.

    Sapeva che il ghetto era un rifugio

    per la creatura più crudele che si fosse mai vista.

    In una landa di crepacuore e un deserto di disperazione,

    La tromba della giustizia del male

    lanciò un grido di nudo terrore.

    Strappava i bambini alle madri,

    lasciando un dolore senza paragoni.

    Così, se vedi arrivare l’avvoltoio,

    se lo senti volteggiare nella tua mente.

    Ricorda che non avrai scampo, perché lui non ti darà tregua.

    Soltanto, promettimi di combattere;

    di combattere per la tua anima. E per la mia.

    Il volatile è tornato

    Non sarebbe un’esagerazione dire che la mia vita sia dipesa dall’essere riuscito a finire L’Avvoltoio e a farlo pubblicare. Non solo perché ha messo nelle mie mani ferventi più denaro di quanto avrei mai immaginato di vedere in una volta sola, ma anche perché ci avevo scommesso più di quanto ne avessi il diritto e significava veramente osare troppo.

    Nel 1968 ero uno studente di secondo anno alla Lincoln University di Oxford in Pennsylvania. Avevo messo insieme tutti i soldi che avevo guadagnato più una piccola borsa di studio per dare seguito a quello che era stato un primo anno non esattamente brillante.

    Sei settimane dopo l’inizio dell’anno accademico ho mollato. Mi sono ritirato. Il motivo fu lo stesso che aveva mandato in fumo il mio primo anno. Avevo un’idea per un romanzo e volevo scriverlo. Pensavo di riuscire a trovare il ritmo giusto per barcamenarmi tra studio e scrittura, ma era impossibile. Non facevo né l’uno né l’altro. Una volta ho sentito la storia di un asino che se ne stava immobile in mezzo a due balle di fieno fino a morire di fame. Io ero proprio come quel somaro. Quando aprivo un manuale, vedevo i miei personaggi; quando mi sedevo alla macchina da scrivere, vedevo il mio culo che veniva sbattuto fuori dall’università perché ero stato bocciato in tutti gli esami.

    Allora chiesi al college una specie di permesso. Visto che avevo già vitto e alloggio pagati, sarei rimasto nel campus per il resto del semestre, ma avrei lavorato al romanzo e ricevuto in tutte le materie una I (Incompleto) come voto finale. Il vantaggio era che, una volta finito il libro, se avessi voluto ripresentare la domanda di ammissione alla Lincoln o da qualche altra parte, non avrei avuto una sfilza di bocciature da superare.

    Il preside reagì come se avessi perso il senno e mi chiese di ottenere l’approvazione dello psicologo del college. Sembrava una sorta di sfida o forse il preside aveva bisogno di un pizzico di «P.I.C.». (Negli istituti tradizionali, quando qualcuno fa una richiesta fuori dall’ordinario, alla persona responsabile per la sua approvazione piace «Pararsi Il Culo».) Il preside deve aver pensato che fossi matto. E certamente era da matti che qualcuno povero come me scommettesse i suoi ultimi soldi su un primo romanzo.

    Il mio piano era di finire il libro entro febbraio, prima dell’inizio del secondo semestre. Era la dimostrazione di quanto fossi inconsapevole di quello che mi aspettava. A gennaio avevo giusto qualcosa in più (di cui mi sentissi soddisfatto) di quanto già non avessi a ottobre, quando avevo incontrato lo psicologo del col­lege e ottenuto la sua approvazione. E ancora non avevo trovato un finale per quella dannata cosa.

    Gennaio mi portò l’idea per il finale che mi serviva e il modo di connettere le quattro narrazioni separate all’incipit del romanzo. Ora tutto quello di cui avevo bisogno era una sedia e una macchina da scrivere.

    Ed era più o meno tutto quello che avevo. Nei due mesi successivi lavorai in una lavanderia a circa mezzo chilometro dal col­lege. Sia il proprietario che sua moglie dovevano lavorare anche altrove e volevano qualcuno che badasse alla loro proprietà. Dormivo nel retrobottega e prendevo i soldi per mangiare dagli spiccioli degli studenti che usufruivano della lavanderia.

    Furono una serie di congiunture cosmiche e l’intervento degli «spiriti» in mio favore a far sì che accadesse il miracolo che L’Avvoltoio venisse accettato da un editore, insieme a Small Talk at 125 th and Lenox (un volume di poesie che venne pubblicato contemporaneamente). Prima di tutto, non dimenticherò mai quanto sono stati partecipi al romanzo tre fratelli alla Lincoln; Eddie «Adenola» Knowles (uno dei percussionisti in quattro dei nostri primi sei album e membro fondatore della Midnight Band), Lincoln «Mfuasi» Trower (compagno di stanza di Eddie, che perse anche lui un bel po’ di ore di sonno a leggere il manoscritto invece di studiare), e Lynden «Toogaloo» Plummer (il mio miglior cliente della lavanderia, sempre pronto a sedersi a leggere qualche pagina quando arrivava con la sua roba da lavare). Questi tre amici probabilmente non sanno che sono stati il parapetto che mi ha salvato dal baratro della pagina bianca in cui rischiavo di precipitare ogni volta che mi sembrava che qualcosa non funzionasse: una scena, un’idea sulla trama, i personaggi, le connessioni, qualsiasi cosa.

    Devo anche dire che vengo da una famiglia che ha finito l’università proprio come si fa col liceo e l’asilo. Mia madre, le sue due sorelle e suo fratello si sono tutti laureati con il massimo dei voti, letteralmente una spanna sopra tutti i compagni di corso. Ho creato un altro precedente diventando il primo della stirpe a («ehm…») «prendermi un anno sabbatico».

    Non fu esattamente una decisione benvista, per usare un eufemismo, ma mia madre si fidava. Durante una telefonata, dopo che i patti non erano stati «onorati», mi disse che « non pensava che fosse l’idea migliore che mi fosse mai venuta», ma « di andare avanti e finire il libro, e mi fece promettere che, pubblicato o meno, dopo sarei tornato in qualsiasi altro college e mi sarei laureato.» E aveva concluso dicendomi che « casa sua sarebbe sempre stata casa mia e che mi voleva bene

    Non ho dedicato L’Avvoltoio a mia madre. Le ho dedicato, invece, Small Talk at 125 th and Lenox, perché ha sempre amato moltissimo la poesia e mi ha aiutato con alcuni versi e idee (compresa la battuta finale per Whitey on the Moon). L’ho dedicato a un uomo speciale, un uomo molto gentile, il padre di un mio compagno di classe del liceo; credo sia lui la persona con cui «gli spiriti» mi hanno aiutato a entrare in sintonia.

    Ci tornai, eccome, all’università. Ho preso la laurea alla Johns Hopkins University di Baltimora e l’ho mandata a mia madre a scatola chiusa, terminati gli studi, e da allora ho dedicato molti traguardi della mia carriera alla persona che non mi ha mai fatto pesare nulla quando ero stressato e avevo solo bisogno di una parola gentile, la signora Bobbie Scott Heron. È proprio una tipa tosta e anche una buona amica.

    Spero che L’Avvoltoio vi piaccia quanto a me è piaciuto scriverlo. Metterlo insieme è stato il mio modo di camminare bendato sulla fune, sapendo che se non avesse funzionato, se non fosse stato pubblicato, non ci sarebbe stata nessuna rete di protezione in cui cadere e nessun buco in cui nascondermi, nessun modo di affrontare quelli della Lincoln e niente soldi per andare da qualsiasi altra parte. Col senno di poi, penso che se la sia cavata proprio bene.

    Devo ammettere che, essendo un ragazzo di diciannove anni, non avevo mai messo su uno spettacolo di burattini prima di allora. Sapevo che ero io ad avere il controllo dei personaggi e di come erano connessi tra di loro. Sapevo che man mano che la storia andava avanti, dovevo fare andare avanti il lettore verso l’identità dell’assassino/degli assassini, ma non che ogni rivelazione avrebbe gettato nuova luce su tutti i sospettati.

    Sono stato anche preda di una trappola linguistica e culturale. Volevo scrivere una storia che ognuno, che chiunque potesse trovare godibile, su cui tutti riuscissero a formulare delle ipotesi a mano a mano che leggevano; ma i miei personaggi, il loro modo di parlare e la loro lingua dovevano essere fedeli al ghetto e l’omicidio fedele alla cultura del sottobosco criminale e ai suoi simboli.

    L’Avvoltoio potrebbe andare bene anche (o persino meglio!) per il cinema. Il mio più grande problema nel metterlo insieme è stato in che modo mostrare l’omicidio di John Lee senza mostrare l’assassino. Ecco perché all’inizio c’è il referto dell’autopsia.

    Qualcuno mi ha accusato di usare questo e un’altra mezza dozzina di espedienti simili come «depistaggi». Il perché ne siano così convinti è «un mistero per me».

    Spero davvero che il «bird watching» vi piaccia.

    Gil Scott-Heron

    New York, Settembre 1996

    FASE UNO

    John Lee è morto

    12 luglio 1969 / ore 23:40

    Dietro al condominio di venticinque piani, quello tra la Nona e la Decima Avenue, di fronte alla 17ª Strada, la ressa di spettatori fissava con gli occhi spalancati il fotografo occhialuto che bombardava di flash il corpo faccia a terra. Il vociare soffuso e le ombre delle luci rosse rotanti gettavano un bagliore inquietante che teneva i bambini più piccoli attaccati alla gonna della mamma.

    Dall’alto delle finestre degli appartamenti, facce senza corpi scrutavano l’oscurità e prestavano ascolto alla confusione rimpicciolita là in basso.

    Un giovane poliziotto bianco se ne stava vicino al ciglio del marciapiede, chino nell’auto di servizio, orecchio al ricevitore, ad ascoltare il ronzio della centrale operativa. All’improvviso mise giù il ricevitore e urlò qualcosa al fotografo, che bestemmiò e sbraitò che si stava già sbrigando.

    L’autista dell’ambulanza della polizia stava in piedi accanto al veicolo e parlava con un altro ufficiale, un nero coi capelli crespi, facendo cenno ogni tanto al corpo inerme. I due assistenti di ambulanza, entrambi sui vent’anni, fumavano una sigaretta seduti sul cofano della volante.

    «Fatto, Dan?» chiese l’ufficiale bianco al fotografo.

    «Mettiti il camice,» fu la risposta stizzosa.

    La folla di passanti si spostava lentamente verso il cadavere, nella speranza di vedere meglio. Qua e là le donne giravano la testa dall’altra parte e coprivano gli occhi ai bambini appena facevano caso alla melma rossa che colava dalla base del cranio.

    Il fotografo zoppicò via borbottando e gli assistenti si fecero avanti con una barella.

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