Maida Vale
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Ambientata in una città immaginaria del Nordest, magistralmente descritta dall’autore come il tipico centro abitato circondato dal cemento, dove le persone passano il tempo a sfoggiare ricchezze comprate a rate e benessere venduto ai saldi, la storia comincia nel settembre del 2006 e si dipana lungo mesi autunnali intrisi di nebbia che sfociano in un inverno improvviso e scorbutico. Assisteremo al tentativo della coppia di riallacciare una relazione complicata sulla quale incombe l’ombra di una lettera da lei scritta dopo la fuga e mai letta da lui per vigliaccheria. Quale sarà il segreto che contiene e che conseguenze avrà sulle loro vite? E cosa andrà a mutare negli equilibri instabili così faticosamente costruiti negli anni da quello sparuto gruppo di amici?
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Maida Vale - Michele Benetello
This Charming Man
di Eddy Cilìa
Il male che l’uomo fa gli sopravvive, il bene qualche volta lo rincorre. Se vent’anni fa Michele Benetello non mi fosse rimasto attaccato con la pervicacia dello stalker e i modi cortesi del gentleman che è, questo libro esisterebbe lo stesso (ne sono convinto) ma io non sarei qui alle dieci di mattina dell’ultimo giorno utile per provare a dargli una prefazione che ne sia all’altezza. Con l’ansia da prestazione che ho da un po’ quando mi trovo davanti alla pagina bianca e dire che vivo, o per essere più esatti e onesti sopravvivo, di scrittura da quasi il doppio del tempo trascorso dacché io e il Benetello ci si conobbe. Accadde epistolarmente. Già via email. Il che toglie poesia al racconto per uno che come me arriva da un tempo in cui gli articoli venivano buttati giù a penna in prima stesura e poi battuti a macchina con sotto la carta carbone per non rischiare che le poste facessero andare smarrita l’unica copia, ma ha il grande vantaggio che, se hai l’accortezza di fare un paio di volte al mese una copia degli archivi, non rischierai mai di vederteli fottere, come quelli cartacei, da una cantina che no, non sembrava assolutamente umida. E invece. Invece così ho sotto il naso tutto ciò che ci dicemmo prima ancora di sapere l’uno che faccia o almeno che voce avesse l’altro. Non devo ricorrere a una memoria spesso traditrice. Invece così scopro come fosse successo a un’altra persona che nel 2008 Sir Billy con la scusa di un dj set attraversò la pianura padana quasi da un estremo all’altro e prima che mettesse dischi lietamente ci sedemmo attorno a un desco imbandito, lui, io e con noi gli altri numerosi collaboratori torinesi di due testate che non esistono più. Giuro che non ne conservo memoria alcuna e un tantinello me ne preoccupo. Provo a farmene una ragione dicendomi che probabilmente eccedemmo con le libagioni, ma come scusa è inconsistente: una delle cose che abbiamo in comune, io e il Benetello, è che reggiamo benissimo l’alcool. Lui più di me, ma non ho intenzione di sottopormi al duro allenamento che ci vorrebbe per stargli davvero al passo. Non ho più l’età.
Dicevo: sono vent’anni che ci conosciamo. Oddio: conoscersi parrebbe una parola grossa se si tiene conto che in due decenni ci siamo sì scambiati un discreto quantitativo di email, per poi passare a Messenger e Whatsapp, ma credo che i colloqui telefonici si contino sulle dita delle mani con avanzo di qualcuna e ci siamo poi incontrati (dalle sue parti) giusto un altro paio di volte, abbastanza recenti da far sì che di queste serbi dei ricordi e naturalmente bellissimi. E, se siamo a malapena conoscenti, possiamo definirci addirittura amici? Io dico di sì. Anzi, lo faccio dire al narratore di Maida Vale: Gli amici non serve che parlino per farsi riconoscere, basta osservarli
. Io osservo Michele Benetello da quando mi sottopose un articolo. Lui suppongo dal 1988, quando fondai una rivista che si chiamava Velvet
e durò meno di quattro anni, e solo i primi tre buoni (il quarto fu un equivalente per la stampa musicale italiana di quando Paul Weller si diede alla deep house; per sua fortuna nessuno se ne accorse), ma che per gli appassionati è rimasta un piccolo mito. Come quei gruppi che fanno pochi dischi e che vengono comprati da pochi, però a quei pochi cambiano l’esistenza. Adesso vi dico un’altra cosa che condividiamo, io e il mio amico Michele Benetello: scriviamo di musica mettendoci dentro la nostra vita, così che se uno ci legge attentamente e continuativamente non solo può decidere se questo o quell’album valgano il suo tempo ed eventualmente i suoi soldi, ma capisce che tipo di persone siamo, che visione abbiamo del mondo. Non che sveliamo chissà quali grandi segreti, giacché siamo uomini foschi noi del Nord Italia… nascosti ai più, elusivi, diafani, sfuggenti
(mi si concederà la licenza, ché non c’è torinese più torinese di un figlio di meridionali), e nondimeno leggerci è conoscerci. Poi a qualcuno si piace e a qualcuno no, normale, non è diverso che al bar o sui dannati social. A me di lui piacque innanzitutto il modo con cui si porse. Il garbo. La pazienza con cui si sottopose a un’anticamera durata mesi. Musicofilo e grafomane impenitente, aveva nel cassetto il sogno di collaborare a un giornale, nello specifico all’allora settimanale Il Mucchio
o magari e meglio ancora (medesima la casa editrice) al trimestrale fresco di nascita Extra
, e la consapevolezza temperata da qualche dubbio (sarebbe stata, se no, arroganza) di esserne all’altezza. Come altri prima e dopo di lui, ritenendo di avere qualche possibilità in più di ottenere udienza da un redattore invece che dal caporedattore o da un direttore che (resti fra noi) dirigeva in realtà assai poco, prese il mio indirizzo di posta elettronica dal tamburino del settimanale e mi contattò. All’undicesimo (!) scambio di mail gli diedi infine un mezzo via libera con l’invito a spedire un pezzo. Contestualmente, informavo il caporedattore.
È ancora sul disco rigido del mio pc (e sulla chiavetta sulla quale bimensilmente ricopio tutto, ché non si sa mai) il primo articolo mai pubblicato dal Benetello. Redazionai, girai, a lui scrissi enumerandogli puntigliosamente tutto ciò che non andava in quel pezzo, che poi erano robette da poco, errori che vede un professionista ma uno alle prime armi non considera. Insomma: gli feci un mezzo cazziatone a fronte a un articolo che era molto più che non male
. Non poteva saperlo, ma stavo sottoponendolo a un esame: o mi mandava a quel paese, o recepiva i consigli. Quattro giorni dopo mi arrivò un’altra, più succinta monografia. Era perfetta. Non toccai una virgola. Eccettuate parti di articoli a più mani da me coordinati per Extra
, non ho altri materiali suoi sul computer. Non aveva già più bisogno di maestri (aggiunga il lettore virgolette a piacere), il nostro uomo. Sarà che aveva fatto la sua brava gavetta, ma era come fosse nato imparato, l’eleganza della scrittura uno specchio dell’eleganza della persona.
Dopo quel primo articolo (che era sugli Sparks) e il secondo (che era sui Danse Society), Michele Benetello l’ho insomma letto solo più per mio personale piacere. Perché dopo l’ascoltare musica ciò che intellettualmente ed emotivamente più mi appaga è il leggerne da parte di quei pochi, pochissimi che sanno scriverne comme il faut. E meno sono d’accordo con qualcuno, o più si diffonde su argomenti che sulla carta mi interesserebbero poco o punto, maggiore è il diletto. Ecco perché non ho mai smesso di seguire Michele. Nemmeno quando, dopo che io lasciai sia Il Mucchio
che Extra
, come tanti altri lui pure si dimise. Mi pare un delitto che non abbia mai trovato spazio su ciò che resta della stampa musicale italiana. Mi aiuta a farmene una ragione che la sua… uh… incontinenza autoriale sia paradossalmente aumentata a dismisura da quando nessuno lo pubblica più e allora si pubblica lui da solo. L’ho letto avidamente su NudeSpoonsEuphoria, stupendo blog a tema e a tempo in cui fra il 2011 e il 2014 mise in fila le sue cento cover preferite, e oggi frequento con l’assiduità consentitami da un tempo sempre più tiranno altri blog invece collettivi (Sniffin’ Glucose, La linea Mason & Dixon) cui offre contributi immancabilmente intriganti, preziosi.
Che prima o poi scrivesse un romanzo me lo aspettavo. Che ci fosse dentro tanta musica pure, per quanto ce ne sia meno di quanto mi attendessi. Che si tratti, per un esordiente tardivo e un uomo in ogni senso maturo, di un’opera non di formazione
bensì di dissoluzione (altro non aggiungo per non spoilerare, come orrendamente si dice oggi e come nel 2001 gli avrei cassato in quanto anglicismo), mi pare, dopo averla attaccata a passo di carica solo per poi centellinarla per rimandare il dispiacere di finirla, nel naturale ordine delle cose. Non mi aspettavo che mi chiedesse di scriverne la prefazione e me ne sono sentito lusingato. Anche un po’ dispiaciuto, però, perché se firmi la prefazione di un libro poi non puoi recensirlo ma pazienza, se mi state leggendo lo avrete ben comprato.
Naturalmente un’altra cosa che abbiamo in comune, io e Michele Benetello, è una collezione abnorme di vinili e CD. Ignoro in che ordine lui tenga i suoi giacché l’unica volta che gli ho fatto visita si era con le rispettive metà, sarebbe stato scortese lasciarle per mettersi a curiosare e inoltre ero troppo impegnato a coccolare la cagnona più dolce nella quale mi sia mai imbattuto (quanto mi addolora sapere che, se tornerò a trovarlo, non potrò più allungarle una carezza; ciao, Fionnula). Quello che do per certo è che tutti i dischi che occupano la sezione Regno Unito post-’76 delle mie librerie sono presenti pure a casa sua e che non vale il contrario. Dei suoi ne avrò la metà, o forse un terzo. Mi mancano tutti quei (per me) minori che ho volutamente tralasciato dopo un ascolto o due (ma anche qualche nome oggettivamente maggiore per cui nutro epidermiche idiosincrasie: gli Associates, ad esempio) e sui quali Michele ha costruito affascinanti mitologie. Pietre d’angolo esistenziali per lui, addirittura. Uno di questi giorni provo a riascoltare i Menswear.
Li ho sempre considerati, dell’intera scena del Britpop, i più insignificanti. Però se sono stati una fonte di ispirazione essenziale per l’autore del romanzo che vi apprestate ad affrontare o avete appena finito (siete perdonati: anch’io spesso le prefazioni le leggo come ultima cosa), be’, qualcosa di buono dovevano averlo. Per forza.
Torino, 8 giugno 2021
Maida Vale
Brennero ’66
Simone alla guida è pericoloso, ha sempre auto di grossa – grossissima, enorme – cilindrata, ama fare lo sborone di lusso, soprattutto in autostrada. Fila che è un piacere con il suo hovercraft a mille cilindri dai sedili riscaldati. Ha fretta, ha sempre fretta e quindi strombazza, lampeggia, sorpassa, maledice, bestemmia. Soprattutto bestemmia. Roba esotica, pure, non le solite imprecazioni. Uno spettacolo, in un certo senso, sebbene con gli anni si sia un po’ calmato. Delle multe non si cura, le mette in conto all’azienda, come non si cura di eventuali passeggeri. Che siano moglie, figli, squinziette o amici d’infanzia come noi. Per i punti sulla patente, beh… «pagando si risolve tutto», dice. Io non saprei nemmeno dove telefonare per sapere quanti punti mi rimangono, figuriamoci conoscere qualcuno da oliare.
È un italiano doc in questi casi. Ma lo fa solo quando è in patrio suolo, sto vile. Almeno così afferma, ma non ho difficoltà a credergli visto che è così sicuro di sé che non mi stupirebbe se in presenza del Papa si sentisse in dovere di dare qualche consiglio al biancovestito. Spero comunque in una sua morigeratezza al volante, la strada che ci separa da Monaco è ancora lunga.
All’estero gioca la figurina del nordico tutto regole e paletti, il glaciale vichingo nato oltralpe, all’inizio del sud del mondo. Invece è un pirla qualsiasi, ma gli voglio bene ugualmente. È un mio amico, del resto.
Un paio d’ore e non dico che siamo al confine ma quasi.
Non ha sputato una parola, concentrato sulle spie luminose della sua auto di ultima generazione. Ha lasciato che fossimo noi a sfogarci in chiacchiere inutili.
«Devo guidare, io». Come no, l’auto è tua. Manco ci penso a mettere mani e piedi su questo Boeing. Sei nervoso amico, molto nervoso. Ti conosco da sempre, e anche se sei un coglione all’ennesima potenza, quando fai così sei nervoso.
Qualcosa ti rode. Probabilmente il motivo per il quale ci hai chiamato tutti a raccolta. Sono certo che dopo il confine il tachimetro prenderà fiato. Forse è per quello che sterza con decisione a destra e imbocca lo svincolo dell’autogrill. Zona Bressanone, sei gradi centigradi sul termometro blu elettrico di un’auto quotata come il mio appartamento.
Neanche una parola, eccetto un laconico «ci fermiamo per un caffè e una pisciata».
Chissà che gli prende a sto pirla. Credo che rimarrò in auto ad aspettarli, al massimo una sigaretta appoggiato al cofano che così tengo il culo al caldo.
Tutte le tonalità di grigio si addossano alle montagne, il cemento è lucido, il chiaro del giorno è scemato nei pressi di Bolzano. Arriva la sera del nord, immagino l’algida Europa dei secoli passati e non posso che provare un brivido. Queste montagne, queste nubi che le accarezzano nervose, questi alberi incastonati in geometrie e inclinazioni impossibili lungo costoni di roccia. Questo popolo freddo e distante dalla nostra stupidità di eterni camerieri.
Ho freddo, sonno e poca voglia di cazzeggiare.
Come io mi accorgo di Simone, lui si accorge di me. E comincia a parlare, all’improvviso, come se gli fosse scattato un interruttore appena estratte le chiavi dal quadro, mentre Alfonso controlla ancora una volta il contenuto del suo marsupio.
«Che fai, non scendi?»
«Starai mica scherzando vero? Siamo appena partiti e già volete far tappa?»
«Dai, scendi, smettila. Sei tu quello che ha sempre le paturnie: ho sete, devo pisciare, ho bisogno di un caffè, che freddo, che caldo. Sembri uno sketch della Mondaini. Scendi».
«Che palle».
Va bene. Scendo sì, certo che scendo. Sarebbe maleducazione rimanere in auto come il nonno svantaggiato. Glielo devo, scendo. Con calma, chiudendo la portiera di questa macchina futuristica.
Simone mette benzina e autostrada in conto all’azienda. Una delle sue aziende, quindi paga lui in pratica. Scendo perché avverto dell’astio da parte sua, poi ti punta per l’intero viaggio e sei martire. A nessuno piace fare il martire – a parte quei poveri cristi del medioevo – giusto?
Ci avviamo verso l’entrata dell’autogrill, i ragazzi hanno sete. Partiti da due ore e questi hanno sete, cominciamo bene. Obbedisco. Obbedisco e ne approfitto per fare due gocce che non si sa mai. Alla mia età è pericoloso trattenerla troppo, dicono i medici. La prostata, la tiroide, la pressione, l’infarto, le pastigliette e tutte quelle cose lì. Anche i jeans troppo stretti hanno un peso, alla mia età.
Centoventi stupidi minuti e già vogliono togliersi di dosso le rispettabili patine di dirigenti o padri di famiglia, vogliono deporre le loro vite piegate nel primo attaccapanni disponibile. Io ne ho una sola e me la tengo stretta, me la rubassero sarei fottuto. Ci siamo trovati tutti nell’attico di Simone, in centro, «appuntamento prepartita» ha detto, un goccetto e si va.
L’annuale gita dei residuati quest’anno porta all’Oktoberfest, un sì
che mi sono pentito immediatamente d’aver proferito ma che non ho più potuto rimangiarmi, causa infinite rotture di cosiddetti. Ogni anno un week end solo per noi, tutti assieme, tutti in qualche parte del globo a stappare bottiglie, lacrime e mutande. Più le prime che le ultime, ovvio.
Abbiamo cominciato dieci anni fa, quando l’anagrafe si è fatta sentire, quando alcuni coetanei hanno cominciato a cadere come mosche e la terra ha iniziato a vacillarci sotto i piedi. Quando la visione del tramonto ha soppiantato l’alba. Il sol dell’avvenire si stava raffreddando e noi ne eravamo consci. È cominciato così – perché tutto comincia ma è la fine che ti frega – quasi per scaramanzia, con un «dai, chissà se il prossimo anno ci saremo ancora».
C’eravamo, e ci siamo stati anche l’anno dopo, e quello appresso, e quello dopo ancora. Ci siamo anche questa volta e ormai è diventata consuetudine. Attaccati l’uno all’altro come le tessere del domino.
Così, eccoci qui, ultimo fine settimana di settembre del 2006, verso Monaco, in cinque. Bisognava che ci fossimo tutti, il Verga – che paga, dettaglio non trascurabile – dovrà farci un’importante comunicazione domani notte, dice. E quest’anno non poteva tollerare assenze. Già, il Verga è Simone, che c’ha tutte le fortune, lui. Ok, ci vengo, ma vi prego di fare in modo che non debba raccogliere i cocci delle vostre misere vite a notte inoltrata, tra sbocchi di vomito e imbarazzanti patte aperte, tra venticinquenni dal prominente seno abbarbicate ai vostri portafogli e scazzottate con portuali, che due anni fa a Marsiglia a momenti ci prendevamo una coltellata. Anzi: se la stava prendendo Gio, per la precisione. Cosa dici, Verga? Monaco non ha il porto? ’Fanculo, coglione. Io comunque non ho più la forza di farlo.
Ho oltrepassato i cinquanta da mille anni e se mi beccano mi ritirano la patente della vita. Qui il limite è trentacinque ormai, l’ho capito da tempo. Io sono da buttare nella differenziata.
Dovresti farlo anche tu, Verga. Buttare la differenziata, dico. Sarà stato anche tutto elettronico ma c’era una gran puzza di umido nel tuo appartamento. Capisco che tua moglie non metta mai piede nello scannatoio, ma spendi due lire per una domestica, santiddio. Tutto elettronico, già. Anzi, come ha detto? Domotico, già domotico. Pare una malattia degli elettrodomestici, una cosa tipo il mio frigorifero ha una grave carenza di domotica
. Tutto elettronico a casa sua, robotico, da paura. Schiaccia un pulsante del cellulare o su qualche punto del muro e la casa pare animarsi, sbadigliare, accartocciarsi su se stessa, distendersi. Un elastico che si ripiega ai suoi comandi. Simone mi parla di ambienti antropizzati
, informatica
, "touch screen,
telediagnostica e
automazione" come se parlasse di gnocca.
Eppure il vino era caldo, fossi in lui licenzierei il genio che ha progettato questo robot di cemento fottendogli un patrimonio.
In ogni caso accontentiamoli. Beviamo questo caffè, fumiamo questa sigaretta e poi ripartiamo, ok? Cerchiamo anche di andare tutti in bagno così da non dover fermarci ancora tra trenta minuti.
Entra prima tu, Simo. Osserva se è di tuo gradimento, altrimenti cambiamo piazzola di sosta, badrone.
Il freddo dentro l’autogrill è di quelli che ti fanno correre in bagno per cambiare la canottiera, abbandonando tutto il contenuto del tuo intestino all’interno di quei fetidi water con le porte che non si chiudono mai e con poesie incise su muri sbiaditi, le uniche poesie piene di numeri di telefono. Porte di compensato sottile e mattonelle scribacchiate, da passarci dentro un fine settimana a osservare la varia umanità armata di pennarello e priva di mira. I bagni degli autogrill sono il ricettacolo delle cose più turpi.
Occhio che questi scemi si comprano la noce di prosciutto al pepe e poi fanno il disastro dentro il Boeing. Occhio. Non prendo niente, anzi sì, un caffè. Caffè lungo, che quei croissant devono aver visto giorni migliori. E un bicchiere d’acqua. Va bene anche del rubinetto, cambia poco. No, niente birra. No, le cicche le ho già prese prima di partire. No niente birra, quante volte vuoi chiedermelo Simo?
Conosco tutto di loro, codici, abiezioni, debolezze, punti di forza e dolori. E viceversa. Ci lecchiamo le ferite l’uno con l’altro, un circolo chiuso, massoneria di frustrazioni che ha delle tessere vecchie di cinquant’anni. Guardali, è tutto quello che hai, ormai. Una sorta di famiglia. La gloriosa 5a B del 1965: Gio, Giulio, Simone, il silenzioso Alfonso e io. Il resto – Mirko e Mauro compresi, due pantagruelici figli di puttana che spero schiattino male e al più presto – sono corollari di poca importanza. La famiglia, magari pure un po’ di stampo mafioso, siamo noi cinque. Non c’è altro che ci sorregga. Qualcuno ha una famiglia vera certo, come Giulio e le sue due meravigliose creature. Da quasi mezzo secolo io e questo poker d’uomini facciamo quadrato. Quasi mezzo secolo, già. Cinquanta lunghi anni passati assieme. Penso ai Giochi Olimpici di Montreal visti sulla televisione a colori di Simone – la primissima della regione – con l’educata e silenziosa madre pronta a portarci panini e birra. Penso alle scorribande sui campetti di periferia, alle ginocchia sbucciate, agli spintoni e alle scazzottate, alle ragazzine che perdevano la testa per Simone, sempre; penso anche agli occhi tristi di Giulio, alla sua vita abbracciata all’eroina, penso a quanto stavamo bene con il nulla che avevamo prima che ci arrivasse addosso tutto e ci sentissimo soli e abbandonati, ma pronti a far quadrato, appunto. Penso. È già qualcosa con questo caffè bollente tra le labbra.
Penso che andrò in bagno, perché di ascoltare questo vociare già alticcio dei quattro – tre, Alfonso non parla quasi mai – mi sono già stancato. Il nostro è un matrimonio multiplo, ogni tanto abbiamo bisogno di stare in silenzio. Io ne ho bisogno, Simone mai, a dire il vero. È sempre al cellulare a parlare di acquisizioni
con termini a me ignoti. Compra
, vendi
, buttalo a mare
, che si fotta
. Oppure con qualche ragazzina che lui passa per le Forche Caudine prima di lasciarla tramortita e innamorata. A parte durante il viaggio odierno, nel quale ha lasciato squillare a vuoto le sette chiamate. Le ho contate. Sette chiamate in un’ora. Credo di riceverne sette in un anno, per lo più dal mio operatore telefonico che mi chiede se voglio cambiare piano tariffario.
Siamo noi, sempre gli stessi, animati da un’inutile buona volontà di divertirci quando l’unico che riesce a farlo, accontentandosi, è Gio, pezzo d’uomo che mangia la terra, accarezza i cuccioli di capriolo, piscia tra le verdure del suo orto e abbraccia gli alberi del bosco prima di tagliarli per scaldarsi. L’unico vero uomo che conosco, maschio, non le versioni edulcorate come noi. La sua barba ti fa venir voglia di piangerci sopra, il nostro Babbo Natale che profuma come un arpeggio di qualche musicista sfigato, quelli che seguo con immotivata passione perché ricordano me.
La musica, già. Ci sapevo fare, qualunque cosa voglia dire. Sapevo, conoscevo, mi informavo. Spendevo, soprattutto. Spendevo più di metà del mio stipendio di mescicarte che prenota esami allo sportello e smista referti di laboratorio nei reparti, passando immancabilmente per la macchinetta del caffè.
Ho visto più caffè che cartelle cliniche in questi trent’anni abbondanti. Con i soldi spesi per quel liquido scuro e quelli investiti in dischi avrei potuto comperarmela, l’ULSS della mia regione. Quantomeno prima che arrivasse quella che chiamano liquida
. Musica liquida, una contraddizione in termini che mi ha fatto capire di essere vecchio e che quei jingle pubblicitari per minus habens non erano successi pop ma, appunto, motivetti di nullo conto. Così ho abbandonato anche quella da un po’ di tempo. Qualche anno, a dire la verità. Arriva un momento