Bussano alla porta di Macbeth ed altre storie
By Thomas de Quincey and Carlo Linati
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Book preview
Bussano alla porta di Macbeth ed altre storie - Thomas de Quincey
Bussano alla porta di Macbeth ed altre storie
Translated by Carlo Linati
Original title: On the Knocking at the Gate in Macbeth
Original language: English
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1921, 2021 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728000434
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
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DE QUINCEY
Il lettore italiano, di Thomas De Quincey non conosce probabilmente che le Confessioni di un Mangiatore d’Oppio e L’Assassinio come una delle Belle Arti; quest’ultima in un’assai infelice versione di Giovanni Vannicola, da una traduzione francese. Ed anche la Francia, oltre questa, non ha di lui altre versioni, se non qualche brano tradotto e rimaneggiato dal Baudelaire dai Suspiria De Profundis, e aggiunto alla raccolta dei «Poèmes Paradisiaques»: poemi, diciamolo pure, derivati quasi radicalmente dall’ispirazione di De Quincey e, in certo senso, pittoresco rifacimento delle sue «Confessioni». Perchè poi, con tutta la smania del tradurre e la compiacenza nel riesumare autori dimenticati e scritture rare, oggi a nessuno è venuto in mente di andar un po’ a frugare nei quattordici volumi di prose fantastiche, autobiografiche, storiche e filosofiche del De Quincey, non si sa. Eppure in quel grande cafarnao, tra tanti fratas c’è anche di molta roba che si può rimetter fuori con onore e con gusto di un pubblico colto: dallo studio critico storico alla prosa di pura fantasia, dagli sketches autobiografici e memoriali ed umoristici al romanzo picaresco e alla discettazione filosofica o morale o retorica o letteraria, l’imbarazzo non è che nella scelta.
De Quincey era uno scrittore di quelli che in Inghilterra si chiamano Miscellaneous Writers, e, da noi, Poligrafi: una spece del nostro Algarotti, così per intenderci, con tanto più d’arte, fantasia, passione umana e spirito critico quanto l’altro è misero e diluito scrivano. A questo scrivere vagabondo e disparato un po’ lo portavano i tempi in cui era vissuto (1785-1859) ch’erano di ricostruzione ed agitatissimi, un po’ la sua povera strapazzata vita piena di privazioni che lo obbligavano al gagne pain delle riviste e de’ giornali. Come si sa, egli fu fin dalla giovinezza, uno de’ più portentosi oppiomani, essendo arrivato a prender persino 8000 gocce di laudanum al giorno; abitudine che l’avrebbe ridotto sulla soglia della demenza e della miseria se non fosse intervenuta la famiglia a salvarlo, e che lasciò poi sempre in lui depositi di strane fermentosità spirituali e di sogni e di ricordi e di malinconie e anche, diciamolo ad onor dell’oppio, determinò la feconda potenza visionaria da cui sgorgarono le pagine sue più gagliardamente radiose. Di quegli immensi palazzi dell’allucinazione e del sogno, il vagabondo e sensibilissimo De Quincey s’era formata una seconda dimora terrestre, una delirante favolosa reggia per la quale egli s’aggirava ad esaminare, analizzare, descrivere con lucidità le cose più folli e mostruose che ne tappezzavano le pareti e che spesso erano imagini di lontananze disperate o spasimi per irraggiungibili cieli. A questa facoltà di visione e di reviviscenza si mescolava poi, nello scrittore, una calda e penetrante cultura classica, una curiosità de’ più svariati argomenti, un umorismo railleur ed à rebours, e quell’aristocratico senso del ritmo e dello stile che fanno della sua prosa forse la più bella, luminosa e classica prosa inglese. Vi si sente la nobile armonia del Milton, più stretto e oltraggioso, il sarcasmo dell’Heine, e, quant’al fervore dialettico nell’approfondire problemi d’arte e di critica, il Coleridge. Ma restò sempre lui: e poche prose inglesi hanno un carattere più originale della sua, una distinzione più singolare. Come il Blake, come il Carlyle, nella sensibilità delicatissima e capricciosa di questo scrittore l’atmosfera drammatica dell’epoca in cui visse si dovette rispecchiare lugubremente e conferire quegli ondeggiamenti alla sua fantasia e quel tono biblico e profetico che hanno talvolta le sue imagini. Nei suoi periodi certi lividi corruscamenti come di pietra funeraria o di mosaico antico, certe voci d’abisso, e ghirlande d’imagini nuvolose, tonanti come attraverso un’apocalisse e certe risate di diabolica ironia che sembrano squillare da un sabba sanculottesco di foco e di sangue si placano poi in oasi improvvise di sentimentali tenerezze o in pitture linde e miniate di paesi nordici e di orizzonti silvani o in disegni di belle figure muliebri gravate da catene di ricordi, o d’impetuosa giovinezza, o abbozzi d’ilari caricature swiftiane come balzate dai table-talks d’una cena d’umoristi londinesi.
Convien accennare ad una singolarità dell’arte letteraria del De Quincey. Egli riconosceva soltanto tre generi di prosa degni veramente del nome di arte letteraria: la prosa-eloquente, la prosa-fantasia e poesia, e la prosa-retorica. E per quest’ultima intendeva «l’arte dello stile ricco ed ornato, l’arte di giocar d’intelligenza e d’invenzione col proprio soggetto, di non abbandonarlo sinchè non fosse sovracarico il più possibile di pensieri sussidiari, di facezie, di fantasie, d’ornamentazioni e d’aneddoti». Ora giudicato alla stregua di questo criterio, il De Quincey appare veramente il più retorico degli scrittori. Non v’è saggio di lui, a qualunque genere appartenga, che non sia più o meno tormentato da questa passione della fioritura e della divagazione. Le sue pagine han l’aria di fughe in cui la parte detta divertimento sia così sviluppata da pigliarsi il posto del soggetto e del controsoggetto. Inforcato il suo tema, il poeta sente ad ogni tratto la necessità di battere intorno a quello tutti i viottoli anche più insignificanti, di addentrarsi in un ginepraio di questioncelle, pensieri, imagini secondarie: ricreazioni della memoria o sfoghi della sua enorme erudizione. Ed è strano che scrittore tutto gittato nella imaginazione lirica e patetica trovasse opportuno e piacevole questo fare delle sue imagini altrettanti problemi di dialettica o di metafisica spirituale, e di analizzare, sezionare fino ad inaridirlo il fiore della fantasia. Per modo che i suoi scritti acquistano talora aspetti di vaniloqui o sembrano degenerare nella chiacchierata intellettuale.
Ma questo contrasto lo si deve, a mio parere, all’indole dello spirito inglese in cui la finezza mistica e sognatrice dell’ispirazione celtica che, massime negli scrittori romantici, forma il fondo della sua natura, viene a contrastare col bisogno dell’evidenza logica, del fatto, della documentazione che vi ha sovrapposto il protestantesimo anglosassone. Nel De Quincey, poi, l’incongruenza assunse aspetti anche più grandiosi poichè egli era un appassionato studioso dei metafisici tedeschi e della scolastica, e il vezzo dialettico e la compiacenza alla speculazione trascendentale doveva mescolarsi stridendo con la passionalità poetica vagabonda e laghista del suo spirito.
Ho insistito su questo carattere anche per dimostrare che con tutte quelle divagazioni non era poi facile cavare dall’opera del De Quincey intere pagine costruite in unità e pienezza d’armonia. Ed era ancor più difficile farlo