Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Angels' wars purgatorio
Angels' wars purgatorio
Angels' wars purgatorio
Ebook537 pages8 hours

Angels' wars purgatorio

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Demetra non è una ragazza come tante. Ha diciannove anni, vive a Roma con i suoi genitori e sua sorella gemella, Dafne. La sua vita è scandita da attacchi di panico iniziati dopo essere rimasta intrappolata sotto le macerie durante un terremoto. All'ennesimo svenimento, ha una visione di uno sconosciuto dai magnetici occhi verdi. Sogno dopo sogno, Demetra scoprirà che lo sconosciuto non è solo un personaggio di fantasia, ma un uomo reale, in carne ed ossa, disposto a sacrificare tutto per proteggerla. Ma da chi? Da cosa? Tra angeli, demoni, licantropi e vampiri, Demetra intraprenderà un pericoloso percorso alla scoperta del mondo sovrannaturale, combattendo con nemici e segreti, paure e fragilità. E non sarà la sola. In un susseguirsi di punti di vista, l’autrice ci racconta le storie di personaggi molto diversi tra loro, uniti da amori, amicizie e legami fraterni, in un intreccio dark che vi farà immergere nel primo capitolo della saga di Angels' War.
LanguageItaliano
PublisherGPM EDIZIONI
Release dateOct 13, 2021
ISBN9791220856386
Angels' wars purgatorio

Related to Angels' wars purgatorio

Related ebooks

Fantasy For You

View More

Related articles

Reviews for Angels' wars purgatorio

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Angels' wars purgatorio - Rinaldi Alexa

    PROLOGO

    Saragozza, Spagna

    1522

    GABRIEL

    La pietra che chiudeva il passaggio si spaccò, permettendomi di aprire il pesante portone di legno marcio. Lo spostai con una spallata, spinsi forte e l’odore di sangue mi invase le narici. Chiusi gli occhi, che mi bruciarono per i vapori che uscivano da quel posto, fermai i conati di vomito provocati dalla puzza acida che percorreva le pareti e s’infilava sotto i vestiti. Un passo avanti, lo sguardo sul buio profondo. Lo stomaco si strinse. Il cuore tremò.

    Al centro del pavimento umido, ricoperto di erbaccia e muffa, c’era un ripiano stretto e lungo, costellato di attrezzi di ferro, aghi, ampolle piene di liquidi di diversi colori e maleodoranti. Accanto, una tavola di legno inclinata era fissata al terreno con dei ferri e cerchi arrugginiti sostenevano delle catene che si alzavano lungo la struttura fatta da pali di legno. Infine, le catene si richiudevano con quattro anelli stretti a coppie intorno a caviglie e polsi del corpo bloccato su quel letto delle torture. Era visibile solo la schiena, le parti intime scoperte tra le natiche, le gambe e i piedi feriti. La testa penzolava in avanti all’estremità superiore del tavolo. I capelli bagnati da sudore e sangue, la pelle striata dal liquido argenteo e dalla carne viva esposta all’umidità del sotterraneo. Moscerini volavano intorno a una torcia infuocata sulla parete dietro il tavolo degli attrezzi. Talvolta si avvicinavano al corpo e si posavano sulle ferite, per poi tornare a ronzare intorno all’unica fonte di luce. Rabbrividii e mi avvicinai per scacciarli.

    Così riuscii ad osservare le sue cicatrici, o meglio, i profondi tagli che erano diventate. Slabbrate, nere ai bordi, delimitate da sangue secco incrostato su tratti di pelle sana. In alcuni punti erano persino bruciate. Anche se la loro vista mi faceva stringere lo stomaco, non furono quelle a sconvolgermi. Furono le ossa, le piume, i brandelli che fuoriuscivano dalla carne. Frammenti dilaniati, filamenti di tendini e stralci di piume blu un tempo fluenti, ceneri al posto di ossa.

    Il mio cuore si consumò, come la struttura delle ali di quell’angelo, come gli spettri di ciò che un tempo erano state. Lo scudo di sicurezze che mi ero costruito in un’intera esistenza si crepò. Le linee di spaccatura provocarono un terremoto nelle mie vene, il sangue si alzò come un’onda anomala che mi portava alla deriva. Non era sofferenza, era molto di più. Un sentimento straziante mi frustava l’anima.

    «Isabella» un rantolo, un sussurro debole che echeggiò nel buio.

    Mi avvicinai a lui. Sapevo che avevo un tempo limitato; non volevo sprecarlo.

    «Chi è? Sei tu Bella?» fece una pausa. «Cam? Sei Cam?»

    Sospirai. Cam era nel corridoio per garantirci la fuga, fuori c’erano altri angeli, ma lì dentro ero solo. Non potevo lasciarlo fare a nessun altro: dovevo salvarlo io.

    «Gabe? Gabe, sei tu?»

    Un respiro lento, con il quale cercavo di rendere la mia voce rassicurante, ma mi resi conto che non c’era niente di sicuro. Né in quel posto, né in me. «Sì, sono io».

    «Sei… venuto… a prendermi?» Ogni parola era frutto di un profondo sforzo; ogni sillaba era dolore e un intervallo tra un rantolo e un respiro spezzato.

    «Te e Isabella. Dov’è? Lo sai? Hai visto dove la portavano quando vi hanno catturati?»

    Girai intorno al tavolo inclinato, cercando di avvicinarmi al suo volto. Allungai la mano verso il suo polso. «No!» mi fermò, intuendo le mie intenzioni. «So che… sei… pot-tente, ma qu-questa… r-roba… indebolirebbe persino… t-te» sussurrò, tra i gemiti di dolore.

    Alzai lo sguardo, cercando un’ascia, un martello, qualsiasi cosa potesse aiutarmi a spezzare le catene.

    «Non lo so» sussurrò di nuovo l’angelo. «Ero bendato, ma… so che è qui, nel sotterraneo. Ho sentito la sua presenza fino a qui… fino a… q-quan…» Un colpo di tosse lo costrinse a fermarsi. Si riverberò sulla schiena, che si contrasse provocandogli una tremenda sofferenza. Gemette, strinse gli occhi, le mani. Notai la tensione della mascella: stava provando a non urlare. La parte più dilaniata del suo corpo era proprio la schiena, in particolare le ali. Eppure, era vivo. Un angelo non poteva morire così, non finché il suo cuore fosse rimasto intatto. «Fino a quando… mi hanno portato… qui» continuò dopo qualche tempo e un profondo respiro. Mentre parlava, scrutavo il tavolo. L’occhio cadde su uno strumento appuntito, a forma di coltello, ma con l’elsa cilindrica che finiva a punta, come un ago. Sentivo un potere oscuro provenire da molti strumenti e da alcune armi sul pavimento. Notai una spada corta, la lama affilata. Mi piegai, allungai la mano, ignorando l’eco del suo potere malvagio. Era più debole di quello che impregnava le catene fissate ai polsi e alle caviglie del prigioniero, ma mi bruciò comunque il palmo della mano quando l’impugnai. Strinsi i denti e la presa, alzai la spada e mi avvicinai al tavolo. «Non muoverti».

    Accennò un sì con la testa.

    Spostai piano le sue mani, poi sollevai e abbattei la lama sulle catene. Il potere demoniaco si mischiò e riverberò intenso lungo le mie braccia; resistetti, mantenni la presa e spezzai tutti gli anelli.

    L’angelo crollò giù, scivolando all’indietro sul tavolo.

    Lasciai cadere la spada e lo sostenni, tenendolo per la spalla e il fianco. «Farà male. Ma devi metterti in piedi o non usciremo mai da qui».

    «Isabella» rantolò lui, mentre cercava di aggrapparsi a me. «Devi salvare Isabella». Si mise in piedi con uno sforzo enorme.

    «La salverò. Adesso usciamo».

    Provammo a muovere un passo, ma le sue gambe tremavano. La tensione nel mio petto annebbiava la mente, sbiadendo i confini tra ragione ed emozione. L’ansia graffiò insistente il mio stomaco, i muscoli ebbero spasmi nervosi. Sapevo che stavano arrivando e che eravamo troppo pochi per far fronte a un esercito di vampiri. Doveva essere una missione di salvataggio, non uno scontro diretto. Non potevo correre come avrei voluto perché lui non sarebbe stato in grado, non in quelle condizioni. Pensieri angoscianti vorticavano nella mia testa, come un uragano fatto di paranoie e paure. Avrei potuto prenderlo in braccio, ma non potevo portare sia lui sia Isabella e non potevo volare in corridoi così stretti.

    Sentii dei passi lenti due piani sopra le nostre teste. Non erano paranoie; era terrore, più reale e vivo che mai. E non per me, ma per lui.

    Se fosse rimasto lì, chissà cos’altro gli avrebbero fatto.

    Paura per gli angeli che mi avevano seguito nella missione. Per Isabella. Per Catrina, soprattutto. Rabbrividii, pensando a lei, e forse fu quel pensiero a distrarmi da ciò che accadeva intorno a noi. Che io li avessi avvertiti o no, ormai erano troppo vicini per pensare ad un piano di fuga. Se volevamo andarcene, avremmo dovuto combattere lungo il cammino, cercando di trovare la cella di Isabella e poi le scale, il più presto possibile. I passi si avvicinarono.

    Lo appoggiai al muro, strappai le maniche della camicia e gli dissi di girarsi. «Dobbiamo coprire le ferite, in qualche modo. Altrimenti non riuscirai a mettere il mantello».

    Non sembrava convinto, ma non si oppose quando improvvisai una fasciatura sui monconi delle ali. Strinse i denti, mi sfilai il mantello e glielo misi, con la cinta glielo strinsi in vita per tenerlo chiuso. Qualche secondo dopo uscimmo dalla stanza e avanzammo nel corridoio. Zoppicava, ma teneva la mano stretta intorno al pugnale angelico che gli avevo dato. Girammo l’angolo e venimmo raggiunti dai primi nemici. Alcuni di loro indossavano le armature e fu difficile trovare un punto in cui poter colpire. C’erano sia vampiri che umani, si spalleggiavano gli uni con gli altri. Cercai di difendere il mio compagno come potevo; dopo un paio di colpi, cominciò a perdere le poche forze che aveva. Combattemmo finché non crollò a terra, perdendo sangue dalla schiena. Il mio mantello bagnato dal liquido argenteo. Lo trascinai lontano dai nemici, uccisi un paio di vampiri, quattro umani. Gli altri indietreggiarono, ci scrutarono.

    «Gabriel» chiamò, la voce spezzata dalla debolezza e dal dolore.

    «Devo chiamare gli altri!» Dovevo sperare che riuscissero a entrare nei sotterranei, ma quel posto era ben protetto ed era diverso entrarci da solo dal farci entrare dieci angeli. Molto diverso.

    «No». La singola sillaba spezzò le mie riflessioni mentre osservavo i soldati, pronti ad attaccarci di nuovo.

    «Che vuol dire no

    «Non chiamarli. Non metterli in pericolo». Un colpo di tosse, un respiro. Il soldato in testa al gruppo fece un passo avanti. Alzai la spada. «Trova Isabella. Non pensare a me. Trova lei».

    Mi voltai un istante, i nostri occhi si incontrarono. I suoi occhi strani, eterocromi. Unici. E lui, per me, non era un angelo qualunque. Era un amico, un compagno col quale avevo combattuto fianco a fianco. Avevamo condiviso tanti momenti, che si riflessero tutti nel suo sguardo, come una parete piena di dipinti con le scene della nostra vita. Lui, che per me era un fratello.

    «Gabriel». Un sussurro che attirò la mia attenzione. Il soldato era a meno di un metro da me. «Gabe…» la voce si affievolì. Il soldato mi attaccò, qualcuno si lanciò sull’angelo. Prima che un gruppo di vampiri lo accerchiasse, potei scorgere il suo sguardo. Per un’ultima volta. Non sentii la supplica, mosse solo le labbra: «Salvala».

    Poi solo urla. Spade sguainate, sangue. Teste che crollavano sotto i miei colpi e il mio cuore rotolò a terra e sprofondò all’inferno insieme a loro. 

    "And all I can taste is this moment

    And all I can breathe is your life

    When sooner or later it's over

    I just don't wanna miss you tonight

    And I don't want the world to see me

    'Cause I don't think that they'd understand

    When everything's made to be broken

    I just want you to know who I am"

    -Iris, Goo Goo Dolls

    CAPITOLO 1

    Sogno

    DEMETRA

    Il mio campo visivo era ricoperto da piccoli puntini e tanti strani suoni mi entravano nelle orecchie. Una vibrazione crescente si faceva spazio in un punto indefinito del cervello e si espandeva, facendosi strada piano in ogni organo, muscolo, osso, articolazione.

    Non riconoscevo il mio corpo, non riuscivo a formulare un pensiero, non sapevo chi fossi, né dove mi trovassi.

    Poi, nel caos della mia mente, comparve un’immagine.

    Pensai di essermi addormentata, la sensazione degli occhi che cominciavano a contrarsi e la successiva percezione delle labbra chiuse mi diedero l’impressione che stessi per svegliarmi, mi fecero credere di poter riprendere possesso di me, ricordando il mio nome e il posto in cui mi trovavo prima di cadere in quel vuoto, senza luce e senza rumore. Cos’era successo?

    Davanti a me comparve una distesa verde senza confini, costellata di fiori colorati. Un tripudio di sfumature, come una tela impressionista appena dipinta. La luce che feriva gli occhi faceva sì che tutto brillasse: le foglie erano smeraldi e i fiori erano rubini, zaffiri, ametiste, quarzi punteggiati qua e là da rose bianche diamantine.

    Feci un respiro profondo, chiedendomi se quello che avevo davanti fosse reale o un sogno.

    Il tempo continuò a scorrere nella sua dilatazione infinita, impossibile da quantificare. Secondi, minuti, ore. Lo percepivo appena.

    All’improvviso… arrivarono i suoni. Qualcuno aveva girato la rotella del volume di uno stereo invisibile. Mi esplosero nelle orecchie tutti insieme, dandomi la sensazione di una gran confusione. Un turbine di rumori assordanti, che poco alla volta, si distaccarono l’uno dall’altro, fino a poterli distinguere tutti. Il canto di un uccello, il fruscio delle chiome degli alberi, quello dell’erba, il respiro del vento, il chioccolare dell’acqua corrente di un torrentello vicino. E poi il mio respiro, presente e vivo. 

    Mi resi conto che non ero davvero lì, dentro quel paesaggio, ma che lo stavo soltanto vedendo.

    Doveva essere un sogno, o qualcosa del genere; anche se dovevo essere quasi sveglia.

    Ad un certo punto, dopo aver chiuso e riaperto gli occhi ancora una volta, notai qualcosa di strano, del tutto differente da qualsiasi altra in quella dimensione onirica.

    Avvertii quel brivido che si ha quando si percepisce una presenza accanto a sé percorrermi il corpo. Sentii un soffio caldo sul collo, la pelle formicolava; il cuore cominciò a battere ancora più forte. Stavo sognando qualcuno?

    Provai a parlare, a dire qualcosa, a chiedere chi fosse, che si facesse vedere. Niente.

    Aspettai paziente, mentre nella mia realtà cominciavo a muovere le braccia e ad avere leggere contrazioni alle gambe. Mi stavo svegliando, ne ero certa. Però volevo sapere chi avessi sognato, chi fosse quella presenza alle mie spalle. La curiosità mi stava divorando.

    Frustrata, mi imposi di stare calma perché notai che più mi agitavo, più acceleravo il processo di risveglio.

    In un attimo, avvertii di nuovo quel respiro… così vicino da poterlo toccare con una mano.

    Però non avevo mani da muovere e non potevo fare nulla per attirarlo davanti a me, cosicché potessi guardarlo. Ecco, le mani erano perfettamente sveglie, le gambe si muovevano bene anche se qualcuno me le teneva alzate e la sua stretta sulle caviglie era forte.

    Arrivò il mal di testa e il calore sulle guance.

    No, no, no, pensai. Non volevo aprire gli occhi, non ancora.

    "Ti prego, fatti vedere. Fammi vedere chi sei", ripetei più volte nella  mente. Non sapevo perché fosse così importante, ma non potevo svegliarmi senza aver visto chi fosse.

    Il respiro si fece di nuovo vicino, il calore di un altro corpo mi invase, provai l'improvviso desiderio di toccarlo. Perché non potevo vederlo?

    Il soffio del suo respiro si confuse col vento e divenne più forte, più profondo e si infilò sotto i miei vestiti, facendomi correre brividi per tutta la pelle. "Fatti vedere, ti prego", pensai di nuovo.

    I miei occhi cominciarono a contrarsi con forza, e fui certa di stare per aprirli.

    «Demetra, apri gli occhi», disse una voce esterna al sogno, una voce reale. Samuele.

    Le palpebre cominciarono ad alzarsi. Poi si chiusero di nuovo.

    Aspetta, aspetta!, urlai dentro di me.

    Qualcosa si mosse nel mio campo visivo, l’erba si abbassò nel prato. Eccolo, finalmente.

    Alzai lo sguardo veloce prima di svegliarmi e riuscii a scorgere un paio di gambe fasciate da blue jeans, un ventre piatto e il busto di un ragazzo che indossava una T-shirt bianca con spalle larghe, muscoli allenati e molto, molto gonfi. Chi diavolo era?

    Infine, più su, il collo, un mento a punta, i tratti spigolosi. Gli zigomi alti, la fronte aperta, il naso e la bocca così perfette da sembrare disegnate. I capelli neri e spettinati incorniciavano quel viso dalla pelle chiarissima, con un riccio ribelle dietro le orecchie e due ciocche che gli ricadevano davanti agli occhi.

    La mano di quel ragazzo li spostò distrattamente all’indietro, scoprendo lo sguardo.

    Brividi mi percorsero come se il vento si fosse infilato all’improvviso sotto la mia maglietta rendendo la pelle sensibile e in reazione lo stomaco cominciò a fare le capriole.

    E il mio cuore perse un colpo. Anche due, a dir la verità.

    Perché quegli occhi… erano la cosa più bella che avessi mai visto.

    Non stavo esagerando, era proprio così.

    Grandi, appena allungati verso l’esterno e incoronati da ciglia scure e così lunghe da toccare gli zigomi se avesse chiuso le palpebre.

    E il colore… era l’insieme di tutti i verdi che avevo conosciuto nella mia vita; tante sfumature concentrate, dalla più chiara, all’esterno, al tono intenso del cuore di uno smeraldo, verso l’interno. Mentre mi ci perdevo, una strana luce si accese in quelle iridi.

    Li guardai, li rimirai.

    Il suo sguardo mi incantò e poi, mentre quelle due luci mi fissavano, gli angoli della sua bocca si sollevarono e…

    «Demetra!», urlò mia madre.

    La scena scomparve mentre mi svegliavo di soprassalto, prendendo fiato come se fossi appena riemersa dall’acqua; spalancai gli occhi e la prima cosa che mi trovai davanti fu il viso spaventato di mia madre.

    «Signorina! Ci siamo svegliate, eh!», esclamò sorridente Samuele, il mio migliore amico.

    «Come ti senti?», mi chiese subito mia madre.

    «Sento che se mi dai un altro schiaffo, diventerò una belva. Davvero», risposi stizzita.

    «Stavo cercando di svegliarti, antipatica», disse lei, sorridendo e accarezzandomi il viso.

    Lo sapevo, come sapevo che non avrei dovuto risponderle a quel modo, ma l'immagine del ragazzo del sogno faceva ancora capolino in mente e la sensazione di essere stata svegliata al momento sbagliato premeva forte dentro di me.

    Mia madre e Samuele mi aiutarono ad alzarmi in piedi e mi fecero sedere sulla sedia più vicina, poi Samuele mi porse una bevanda zuccherata, che mi avrebbe aiutato a riprendermi e infine ci accompagnò alla macchina.

    «Grazie, Sam. Scusa per lo spavento che ti ho fatto prendere», gli dissi, salutandolo.

    Fece un gesto di non curanza con la mano. «Tranquilla, ormai ci sono abituato». Chiuse lo sportello e mia madre partì.

    Tornando a casa, osservai tutti gli alberi lungo la strada, illuminati nel buio da lampioni e fari delle auto.

    Eppure, nonostante le chiome apparissero più nere che verdi, il pensiero di quel colore mi diede una strana stretta allo stomaco.

    Arrivate a casa, trovai mia sorella in piedi, all’ingresso, appoggiata con una spalla al muro e con le braccia incrociate. «Che hai fatto stavolta?», mi chiese inquisitoria.

    La guardai a occhi sbarrati. «Che dovrei aver fatto?».

    «Mi ha chiamata Sam, poco fa», disse mostrando il cellulare stretto in mano.

    Alzai gli occhi al cielo. «Certo che le notizie qui arrivano più veloci della luce, eh!».

    Sì, avevo anche una sorella. Gemella, per la precisione.

    Dafne, l’essere più antipatico, scontroso e sarcastico dell’intero pianeta, che mi capiva come nessun altro e che amavo come nessun altro.

    Non lo avrei mai confessato, ovvio.

    Lei e Samuele stavano insieme da tre anni; il nostro amico d’infanzia, quello che in pratica viveva a casa nostra, quello che mi aiutava a fare i compiti, con il quale giocavo ai videogiochi e imparavo a dare qualche pugno. Quello che, a un certo punto, era diventato davvero carino e che si era innamorato di mia sorella, mentre stavo decidendo se potesse piacermi oppure no.

    Andai in cucina mentre mamma chiudeva la porta. La tavola era apparecchiata e mio padre già seduto al suo posto. «Tesoro», mi salutò alzandosi in piedi. «Come stai?».

    Il suo sguardo accorato mi fece saltare i nervi. «Sto bene», risposi. «State tutti calmi, ok? Sto bene!».

    Mia madre alzò le mani in segno di resa, Dafne fece spallucce noncurante e mio padre rimase a esaminarmi per qualche istante, poi lasciò perdere e si rimise a tavola.

    Negli ultimi due anni scene del genere erano diventate una prassi. Sebbene io e mia sorella fossimo molto diverse, nell’ultimo periodo il divario tra noi era aumentato. Dafne aveva una vita frenetica; si divideva tra le lezioni alla facoltà di Architettura la mattina, la palestra e gli incontri con le amiche nel pomeriggio, le uscite alla sera e in più, nel fine settimana, lavorava in un bar.

    Io invece non lavoravo, non facevo sport e, anche se seguivo sempre tutte le lezioni a Lettere, avevo dato soltanto un esame ed era quasi passato un semestre. Non stavo studiando nulla.

    Dicevo di stare benissimo e che non avevo voglia di dare gli esami, di lavorare o di uscire, ma la verità era che la mia depressione post traumatica aveva costretto i miei a mandarmi da uno psicologo. Mangiavo poco, dormivo male, avevo gli incubi e svenivo al minimo cenno che potesse ricordarmi ciò che era successo a Campotosto.

    La terra aveva tremato, l’albergo Il Lago era venuto giù come un castello di carte al soffio di un bambino dispettoso e io ero rimasta sotto le macerie per non so quanto tempo. Mia madre e mia sorella si erano salvate per miracolo, avendo voluto provare l’ebbrezza di una notte in tenda nel bosco lì vicino, papà era rimasto a Roma per lavoro.

    Fui tra i pochissimi superstiti di quella notte di agosto.

    Il recupero fisico era stato lungo, ma quello psicologico non era ancora finito.

    Quello di oggi era il quarto svenimento dell’anno. Capivo perché mia madre fosse terrorizzata all’idea di lasciarmi andare in giro da sola.

    Papà spezzò il pesante silenzio che si era venuto a creare, ridestandomi dalle mie riflessioni. «Com’è andata la giornata?», chiese, rivolgendo lo sguardo ad ognuno di noi.

    Mia madre sorrise. «Abbastanza bene. Al giornale c’erano i soliti fatti di cronaca e noiosa politica, ma per fortuna Federica ha portato una torta per il suo compleanno. Nel pomeriggio abbiamo lavorato poco, troppo impegnati a scherzare e mangiare», rispose con una risatina.

    Lavorava per un giornale nazionale in cui si occupava di impaginazione e stampa; anche se non faceva la giornalista, per cui aveva studiato, era un lavoro che le piaceva molto. E, comunque, mia madre non si lamentava mai.

    «Invece io ho dovuto portare un collega al pronto soccorso perché si è quasi tranciato un dito», disse lui.

    «Ah, giornata impegnativa».

    «Già, per fortuna era meno grave di quello che sembrava». Mio padre lavorava in una falegnameria, si occupava di carichi e scarichi, ma anche di lavori di precisione. Aveva spalle e braccia da far paura. Quando da piccola avevo paura del lupo cattivo, correvo sempre da lui; Dafne invece faceva sempre finta di non avere paura di niente.

    «Io stamattina mi sono svegliata presto per andare a correre con Patrizia, poi ho studiato. Nel pomeriggio sono uscita a fare un po’ di shopping», spiegò Dafne. Sbuffò e mi indicò. «Lei invece ha dormito tutta la mattina».

    Sgranai gli occhi. «Ma che ne sai tu, che neanche c’eri? Io ho studiato!», ribattei. E stavolta era vero.

    «Sì sì, certo...», fece lei ironica.

    Mio padre ignorò entrambe e si rivolse alla mamma: «Cos’è stato oggi a farla svenire?».

    Lei mi guardò di sfuggita per chiedermi muta se ricordassi qualcosa. Non feci una mossa e aspettai che rispondesse lei, come al solito.

    «La strada fuori dalla palestra tremava quando passavano i camion».

    A quanto pareva era stato quello a farmi sentire male. Non che la cosa mi stupisse, bastava un niente perché il mio cervello andasse in tilt per evitare qualsiasi ricordo del trauma subito.

    Mio padre allungò il braccio verso di me e mi strinse forte la mano.

    Cenammo parlando degli avvenimenti della giornata e dei pettegolezzi che la zia Betti aveva raccontato alla mamma durante la pausa pranzo. Sentii la testa leggera e vuota, come se la debolezza mi avesse tolto ogni pensiero dalla mente. Andai a letto presto, concedendomi un paio di capitoli di lettura prima di chiudere gli occhi.

    Li riaprii in un enorme prato verde, costellato di fiori, cespugli e alberi che facevano ombra intorno a me. Il sole era alto nel cielo limpido di primavera.

    Tirava vento, ma non sentivo freddo.

    Riconobbi subito il posto sconosciuto. Era lo stesso prato del pomeriggio.

    Questa volta, però, avevo completa percezione del mio corpo e potevo girarmi e spostarmi come volevo.

    Feci un respiro profondo e cominciai a passeggiare verso le rose bianche che brillavano come diamanti a un centinaio di metri da me.

    Raggiunsi uno di quei cespugli spinosi, lo osservai colpita dalla sua bellezza e mi chinai ad annusare una delle rose.

    Quando mi tirai su pervasa del suo profumo, quasi mi venne un colpo. Davanti a me c’era lo stesso ragazzo bellissimo del pomeriggio. Il mio cuore cadde dalla sua abituale posizione, lo sentii affondare tra lo stomaco e le costole e arrivare in un punto remoto molto più in basso.

    Nessun dubbio che fosse lui, quegli occhi era impossibile dimenticarli.

    «Ma… tu sei…», balbettai.

    La sua bocca carnosa si aprì in un sorriso luminoso. Se avesse anche parlato sarei stata capace di svenire anche in sogno. A meno che non avesse avuto una di quelle vocine stridule da cartone animato. Scoppiai a ridere all’improvviso, immaginandolo parlare come gli scoiattoli di Alvin Superstar.

    Mi guardò stupito, poi si guardò addosso e sfoderò un altro disarmante sorriso. «Si può sapere cos’hai da ridere?».

    Smisi all’istante, sentendo la sua voce. No, non era affatto come Alvin.

    «Scusami», dissi subito, diventando bordeaux. «Ma quindi tu… parli?».

    Stavolta fu lui a ridere. «Mi hanno dato anche questa facoltà, a quanto pare».

    Mi morsi la lingua. «Volevo dire…», m’interruppi guardandomi intorno, pensierosa. «Insomma… chi sei tu? Cos'è questo posto?».

    Allungò la mano destra verso di me. «Nathaniel Winchester, piacere», si presentò, restando poi ad aspettare che gliela stringessi.

    Le mie dita sfiorarono il suo polso, il mio palmo il suo palmo. Mi si strinse lo stomaco fino a contorcersi e mille scariche elettriche partirono dalla sua pelle, risalendo sulla mia dalla mano fino a tutto il corpo. Ero imbarazzata dalla sua bellezza, ed emozionata… senza un particolare motivo.

    «Io sono Demetra. Demetra Gregori».

    Fece sì con la testa. «Sì, so benissimo chi sei», disse.

    Sgranai gli occhi. «Ci conosciamo già?».

    Era impossibile che mi fossi dimenticata di un ragazzo così. Soprattutto se lo sognavo.

    Scosse la testa. «Tu non mi conosci, ma io so chi sei tu».

    «Come fai a saperlo? E dove ci troviamo ora?», domandai inquieta.

    «Siamo nel tuo sogno».

    Non aveva alcun senso. Non capivo come fosse possibile che stessi sognando lo stesso ambiente e la stessa persona di quando ero svenuta quel pomeriggio. E non capivo come facessi a sognare lui; uno sconosciuto.

    «Non hai risposto all'altra domanda», puntualizzai.

    Scosse la testa. «Non posso risponderti ora», disse indicando il prato intorno a noi.

    «Perché no?».

    «Perché ti stai svegliando», rispose guardandosi intorno.

    I contorni degli alberi e del cielo si erano fatti meno nitidi, tutto diventava sfocato e labile. La mia testa divenne di colpo più pesante e la sensazione di essere lì e quella di essere nel mio letto si confusero. Lasciai vagare ancora lo sguardo. Forse aveva ragione, ma… «E tu com…».

    Aprii gli occhi.

    ***

    «Mi costringerai a camminare fino al centro commerciale con tutto questo freddo?», chiesi alla mia migliore amica, Arianna, mentre la seguivo verso la metro.

    «Certo che no!», esclamò. «Anche se, di certo, non ti farebbe male fare una passeggiata».

    Alzai il cappuccio della felpa, coprendomi la testa.

    Abitava a pochi passi da casa mia e avevamo frequentato la stessa classe sia alle scuole medie che al liceo. Studiava storia dell'arte e aveva una passione per tutto ciò che era bello; musica, pittura, cinema, scultura, moda. Qualsiasi cosa.

    Avevamo molti interessi in comune e lei aveva un carattere sensibile e gentile, motivo per cui andavo più d’accordo con lei che con mia sorella.

    Quando arrivammo al centro commerciale, Arianna si trasformò in un gattino impazzito che correva da una parte all'altra, con occhi brillanti. Dovetti seguirla in ogni negozio, consigliarle cosa comprare, cosa le calzasse meglio addosso. Non che mi dispiacesse fare shopping con lei, ma io mi stancavo piuttosto in fretta a girovagare tra abiti e scarpe. Preferivo libri, film e fumetti.

    Pranzammo con un panino concedendoci una pausa al bar per poi riprendere. Alle cinque del pomeriggio non avevamo ancora finito; Arianna stava provando l’ennesimo vestito. La osservai da capo a piedi.

    Il vestito le stava benissimo e il suo viso dolce e solare splendeva sopra la stoffa nera. I capelli castani, sciolti lungo il viso, le ricadevano leggeri sulle spalle incorniciando il naso a patata che le dava un'aria simpatica e gli occhi grandi e nocciola da cerbiatta.

    «Ti sta molto bene. Prendilo, così mi lasci uscire di qui», le dissi sorridendo. Mi rispose con una linguaccia andando verso il camerino. All’uscita dal centro commerciale la pioggia ci costrinse a correre fino alla metro sotto al mio provvidenziale ombrellino, sempre presente in borsa.

    Giunte nel corridoio che portava ai tornelli le luci si spensero all'improvviso mentre chiudevo l’ombrello, fradicia come lui, facendoci piombare nel buio più assoluto.

    «Che succede?», chiesi allarmata.

    La torcia dello smartphone di Arianna illuminò lo spazio di fronte a noi. Il corridoio era vuoto e uno strano silenzio ovattato lo riempiva, sembrava fossimo isolate dal resto del mondo.

    «Cosa vuoi che succeda? Sarà un guasto», rispose Arianna, prendendomi per mano. «Dai, non preoccuparti, prendo il telefono. Resisti».

    Facemmo appena tre passi in direzione dei tornelli che due figure scure ci bloccarono la strada. Un brivido di panico mi percorse la schiena. Arianna mi strinse forte il polso e mi tirò indietro: «Prendiamo un taxi».

    Ci girammo in fretta, per trovare altri due loschi figuri a volto coperto, immobili e spaventosi.

    Arianna sollevò il telefono per chiamare aiuto, ma uno dei due che ci tagliavano la strada verso le scale si tolse il cappuccio e fece un passo avanti sfoderando un sorriso di canini lunghi e appuntiti fino al labbro inferiore. Ci congelò sul posto. Vampiro, pensai. Che stupidaggine, Halloween era ancora parecchio lontano.

    «Mettilo giù», ordinò.

    «Che cosa volete?», chiese Arianna, con voce tremante. Ci stringemmo l'una all'altra, pregando in silenzio che qualcun altro percorresse quel corridoio. Invece eravamo sole in mezzo a quattro sconosciuti in maschera horror.

    «Lei», ringhiò quello, avanzando di un paio di passi.

    Lei. Me.

    Le cose si facevano sempre più confuse e la mia testa era un uragano di paure, domande, ansie che mi attanagliavano la gola. Cosa potevamo fare? Cosa potevamo fare noi due contro quattro uomini dall’aria ben piazzata? D’istinto cercai il telefono sulla tasca esterna, ma il tizio mascherato da vampiro se ne accorse; digrignò i denti finti dandomi i brividi. Il tipo alla sua destra lo raggiunse, riducendo la distanza con noi.

    «Lasciateci andare», sussurrai. «Lasciateci andare a casa».

    Cercai di esibirmi nel tono più fermo possibile, ma dentro di me pregavo in tutte le lingue che qualcosa, qualunque cosa, cadesse dal cielo per salvarci.

    Tutti e quattro si lanciarono verso di noi ridendo e sghignazzando crudeli, scatenando le nostre urla. Dentro di me scoppiò una battaglia tra la paura e la voglia di combattere. Assurdo.

    All’improvviso una figura altrettanto scura, ma più imponente degli altri, si stagliò tra noi e loro. Non avevo idea di come avesse fatto a mettersi in mezzo, non lo avevo visto arrivare, men che meno saltare. Però era lì. Afferrava i corpi degli assalitori e li sbatteva contro il muro a uno a uno con violenza. Abbracciai Arianna che mi teneva stretta nel caos che avevamo attorno, mentre seguivamo con lo sguardo le movenze dell'uomo che combatteva per salvarci. Uno dei quattro attaccò alle spalle il nostro salvatore, poi fece una cosa assurda.

    Tentò di morderlo. 

    Come poteva pensare di farlo con dei denti finti? Perché... erano finti, no? Dovevano esserlo.

    Lo sconosciuto si liberò dell’assalitore sulle spalle con una grazia incredibile e in pochi minuti li mise tutti KO.

    Il silenzio invase il corridoio.

    Le luci tornarono.

    Lo sconosciuto sussurrò, da sotto il cappuccio: «Scappate, presto!». 

    Non ce lo facemmo ripetere due volte; sciolta la stretta, ci prendemmo per mano e ci lanciammo su per le scale senza esitazioni. L’ansia mi colse sempre più feroce, man mano che rivedevo l’accaduto e i dubbi aumentavano.

    La voce di quell'uomo, tuttavia, fu un eco che mi rimbombò diverse volte in testa e non fece altro che tormentarmi mentre fuggivamo a casa in taxi. L'ansia passò in secondo piano; mentre Arianna tremava ancora, io pensavo e ripensavo.

    La voce. Quella voce.

    L’avevo già sentita.

    CAPITOLO 2

    Risveglio

    DEMETRA

    La mattina dopo, appena sveglia, afferrai subito il telefono per chiedere ad Arianna come stava. Avendo mia sorella intorno, mi limitai a mandarle dei messaggi su WhatsApp. Per evitare che le nostre famiglie si preoccupassero, non avevamo detto niente dell'accaduto. La mia era già abbastanza preoccupata quando uscivo di casa, quel racconto avrebbe solo peggiorato le cose.

    Solo poco prima di pranzo riuscimmo a scambiare due parole a voce.

    «Come stai?», le chiesi.

    «Insomma, non ho dormito molto bene. E tu?».

    «Come un sasso».

    «Davvero? Sei incredibile! Riesci a dormire anche dopo una cosa del genere», esclamò.

    «Lo so, sono un ghiro».

    Arianna fece una risatina, ma tornò subito seria. «Senti, Demi, credo che dovremmo andare alla polizia a fare denuncia».

    «Non credo sia una buona idea, non abbiamo niente a provare quello che diciamo».

    «Ma nella metro ci sono le telecamere, di sicuro…».

    «E secondo te funzionano?», sbottai. «No, dico, nella metro. A Roma».

    Dopo due secondi di silenzio la sentii sbuffare. «Ma che cazzo, non funziona mai niente in ‘sta città».

    «La metro va. È già qualcosa».

    «Sì, finché non crollano giù le prossime scale mobili».

    Ridemmo, ma non c’era la solita serenità. «Quindi che facciamo?», mi chiese poi Arianna.

    «Dimentichiamo. In fin dei conti cosa racconteresti? Di essere stata salvata da un angelo vendicatore che da solo ha steso quattro vampiri? Dio, ma sentimi. Se dico in giro una stronzata del genere mi prendono per matta. Altro che psicologo!».

    La tensione si smorzò tra risate e battute e finimmo per chiacchierare di tutt’altro, finendo per organizzare una cena quella sera, con mia sorella, Samuele e altri amici.

    Dopo pranzo tornai a studiare, smettendo verso sera solo quando arrivò Arianna e ci riunimmo in camera con mia sorella per una lunga sessione di preparativi pre-cena.

     Arianna si vestì con il solito entusiasmo e Dafne non notò niente di diverso, anche se, ogni tanto ci scambiavamo sguardi carichi di tensione, per poi scrollare le spalle e tornare a goderci la serata come se non fosse successo niente. La serata fuori con gli amici contribuì a distoglierci da quel brutto episodio. Il tempo volò, tra brindisi e momenti esilaranti e quando tornammo a casa, ero tanto piena di birra e di sonno che mi bastò lasciarmi andare sul letto un attimo per addormentarmi.

    Aprii gli occhi. Per fortuna, non nel prato verde.

    Sognare la stessa cosa per tre volte di fila sarebbe stato troppo strano.

    Questa volta mi ritrovai accanto a un vecchio lampione, al centro del marciapiede di un lungo viale alberato; la strada percorsa da poche auto e tutte d’epoca.  Le persone che incrociai erano vestite in modo strano, sembrava quasi una rievocazione storica di inizio ‘900 con tutti quegli uomini con camicie, giacche consumate e copricapo di feltro oppure in cappotti di lana eleganti, con bombetta in testa e accompagnati da donne con lunghi abiti severi. Osservai le persone che mi sfrecciavano davanti in una marea confusa, strinsi gli occhi per capire dove fossi. Sul muro, una scritta intagliata sulla pietra: Avenue D'Iena. Avenue?

    Lasciai scorrere lo sguardo fino in fondo alla strada che sfociava in un enorme piazzale con al centro un altrettanto enorme monumento.

    Lo conoscevo, l'avevo studiato a scuola. L’arc de triomphe.

    Studiai ancora l'ambiente intorno a me, incredula.

    Era assurdo che sognassi quella città. Non ero mai stata a Parigi.

    Le mie riflessioni si interruppero quando notai un uomo con un elegante giacca nera lunga e Borsalino di feltro in testa. Non riuscivo a vederlo in volto, ma sapevo di conoscerlo. Cose che accadono solo nei sogni; sai qualcosa anche se non puoi vederlo o sentirlo, anche se deve ancora accadere.

    Lo seguii d’istinto, svoltando in un vicolo dietro di lui e ammirandone le movenze fluide da gatto. Mentre procedevo, mi resi conto che la gente non sembrava notare la stranezza del mio abbigliamento e, a un certo punto, capii che non mi vedeva affatto. La cosa mi diede i brividi, distraendomi dall'inseguimento, così che quando l'uomo si fermò quasi gli finii addosso. Mi bloccai all'ultimo, indietreggiando. In mezzo agli odori terribili di fogna, fumo e cibo andato a male che impregnavano la strada, avvertii l'odore della sua pelle. O, almeno, così mi diceva la testa che, a quanto pareva, era il narratore esterno a quella scena. Sapeva di bosco e menta, di terra e castagne. Un calore lieve mi punse il collo, estendendosi piano su tutto il corpo. Aspettai, sapendo che si sarebbe voltato. Quando lo fece, rimasi senza fiato.

    Era Nathaniel.

    Mi avvicinai, chiamandolo. Non rispose, invece si girò a osservare una figura slanciata dall'altra parte della strada, diretta verso di noi. In pochi istanti ci raggiunse, mostrando le sue fattezze nella semi oscurità del vicolo. Era una donna vestita da uomo, con una severa treccia di capelli neri che scendeva dal copricapo molto simile a quello che indossava Nathaniel. Era di una bellezza imbarazzante, il volto sembrava disegnato dalla mano di un artista, che aveva deciso di donarle le labbra più carnose e gli occhi più azzurri che potessero esistere nell'universo intero. Rimasi a bocca aperta.

    Soprattutto perché, un attimo dopo, Nathaniel le strinse le mani.

    «Stai bene?», le chiese.

    Lei annuì appena. «Le vittime nel bosco sono sue», disse con un filo di voce. «Ho seguito le indagini, gli investigatori. Non c'è voluto molto per capirlo».

    Nathaniel sospirò. «Lo immaginavo». Si tolse il cappello, si passò una mano tra i capelli e sul volto. Rimise il cappello al suo posto e sospirò di nuovo. «Ha ucciso quindici persone. Lo scopriranno».

    «Spero di no. Altrimenti ucciderà anche loro».

    Nathaniel non rispose, fece un passo avanti e strinse la donna a sé per consolarla. Provai uno strano senso di fastidio allo stomaco. Indietreggiai per lasciarli alla loro intimità. Come potevo sognare una scena del genere? Come potevo sognare due persone che neanche conoscevo? E perché stavolta Nathaniel non mi vedeva? Le domande mi allontanarono dalle due figure, poco dopo mi resi conto che l'allontanamento era reale e andai nel panico. Qualcosa mi trascinava indietro, portandomi via da quella strada e staccandomi dal terreno, urlai vedendo gli edifici sotto di me; girai la testa per capire cosa mi tirasse via. Niente. I contorni delle cose sfumarono, l'imponente torre Eiffel che si stagliava sulla città rimpicciolì, poi anche quella si fece confusa, il cielo stesso sbiadì. Tutto divenne bianco. Poi nero.

    E mi svegliai.

    Per tutta la giornata non feci altro che pensare a quel sogno.

    Avevo trascorso la mattinata a casa a guardare distratta la tv; il pomeriggio era venuta Arianna, che aveva subito capito il mio stato di turbamento ed era rimasta a chiacchierare con me fino all'ora di cena, tranquilla e sorridente come sempre, soprassedendo sulla mia distrazione e sulle mie risposte scontrose. Mi riempì la testa dei suoi ultimi litigi con il fidanzato Leonardo e della marea di libri che doveva studiare entro aprile. Non la ascoltai con attenzione, la mia testa di tanto in tanto veniva travolta dal ricordo del sogno a Parigi. Le immagini, i posti sconosciuti, le persone sconosciute e quel volo assurdo sopra la città. Arianna non ci faceva caso, forse dando la colpa al mio stato emotivo fragile che non doveva essersi ancora ripreso dalla paura.

    A cena non fu molto diverso.

    «Allora che hai deciso?», chiese la mamma, distogliendomi dai miei pensieri.

    «Per cosa?».

    «Oh, Demetra! Svegliati!», esclamò mia sorella, stizzita.

    La fulminai con lo sguardo e posai la forchetta, indignata per la sua risposta acida. «Ma che problemi hai?».

    Dafne mi rispose con lo sguardo più strafottente che riuscì a tirar fuori: «Sei schizzata. Smettila di rispondere così».

    «Dafne!», intervenne mia madre.

    «Ma l’hai sentita?», si difese lei. «Sta sempre sulle sue, è tutto il giorno che per parlarle devi sventolarle davanti una bandiera con su scritto ehi siamo qui! e quando glielo fai notare risponde come se l’avessi insultata! E riprendi me?!».

    Mia madre abbassò lo sguardo, era evidente che fosse d’accordo con lei, ma a corto di parole. A tavola scese il silenzio, mentre io rivolsi gli occhi verso la mia gemella.

    «Sono solo stanca e sovrappensiero. Ma che cavolo, ti devi incazzare per questo?».

    «Sì! Mi sembra di parlare con un muro! E dovresti smetterla di dire queste cazzate e tenerti tutto per te! Se è successo qualcosa, parla! Fine del discorso!».

    «Fine del discorso?». Ero certa che mi stesse uscendo fumo dalle mie orecchie. Se prima non ero andata su tutte le furie, dopo queste parole la rabbia era balzata alle stelle.

    Come tutti, Dafne aveva captato la mia assenza di spirito, ma più di chiunque altro lei sapeva cosa mi portassi dentro sempre, anche se non le avevo detto nulla di quello che mi era capitato negli ultimi giorni. Avrebbe dovuto capire, avrebbe dovuto usare più tatto. E invece no, lei attaccava. Sempre.

    «Fine del discorso un corno!», replicai infuriata, «Sei tu che rispondi sempre come se ti avesse morso una vipera! Sei la solita stronza, invece di starmi vicino, ti incazzi perché oggi sono stata un po’ assente! Se hai proprio voglia di litigare, trovati qualcun altro e non rompere a me!».

    Mio padre batté i pugni sul tavolo. «Bambine!», ci chiamò.

    Usava sempre quell’appellativo, quando era irritato, anche se eravamo ormai cresciute.

    «Daf, dai, basta…», intervenne anche Sam, sussurrando all’orecchio della sua ragazza.

    «Ah, io sarei stronza? Invece di criticare me e starti a piangere addosso tutto il giorno, muoviti!

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1