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Le fiamme dei Balcani
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Le fiamme dei Balcani

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Guerre e amori, affetti e odi politici, ideologici e nazionali: sono tutti fattori che si mescolano nella trama del racconto che Di Donato sa sapientemente descrivere, facendo intravedere filoni nascosti che legano in maniera sorprendente avvenimenti degli anni Quaranta risalenti alla seconda guerra mondiale con quanto avvenuto più di recente negli anni Novanta nella Jugoslavia poi disgregata dalle sanguinose guerre interne. Il romanzo nasce come un lungo viaggio alla ricerca della soluzione di un mistero che ha attanagliato per molti anni la vita del protagonista, venuto a conoscenza di un preciso disegno per ucciderlo, ed assume via via le sembianze di un vero giallo storico in cui Antonio Fabris vuole capire e conoscere i motivi per i quali nel 1943 era stato a sua insaputa condannato a morte dai partigiani comunisti jugoslavi. Ecco allora che gli interrogativi legati al passato e a quanto gli avvenimenti storici possano influenzare, molto spesso in modo drammatico, la vita delle persone, trovano una chiara risposta positiva nelle pagine del racconto.
Anche gli altri personaggi, che si muovono in epoche successive e in altre realtà geografiche, contribuiscono a instradare la vicenda verso la soluzione del mistero che trova infine la sua conclusione, in parte grazie al caso, in parte per merito dei giovani Mirna e Ivan, la cui complicata storia d’amore è parimenti influenzata in maniera determinante dalle vicende della guerra tra Serbi e Croati del 1991. Il lungo conflitto che insanguinerà fino alla metà degli anni Novanta (ed oltre, con lo strascico conclusivo del Kosovo) la penisola balcanica porterà i vari personaggi a confrontarsi con sé stessi ed a mettere in discussione tutte le convinzioni che avevano avuto fino a quel momento. Antonio Fabris tenterà di andare a fondo nel proprio passato ricercando per lungo tempo il suo mancato ed inafferrabile sicario, il comunista serbo Mirko Marinic; Mirna e Ivan affronteranno pericolose e drammatiche situazioni trovandosi a diretto contatto con le tragedie della guerra civile e con le scelte spesso terribili ed irreversibili che ogni conflitto porta con sé. (Dalla prefazione di Guido Rumici)
LanguageItaliano
Release dateOct 9, 2021
ISBN9791280075338
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    Le fiamme dei Balcani - Valerio Di Donato

    Ogni identità è anche orribile, perché per esistere deve tracciare un confine e respingere chi sta dall’altra parte. Solo un odio più grande supera gli odi più piccoli, che si riaccendono quando non c’è più un nemico comune.

    Claudio Magris, «Microcosmi»

    Ah! – sospirava Berto – nella logica del nazionalismo si fa presto a regredire a una brutalità preistorica. Ciò che non si può creare, si può distruggere. Abbattono i monumenti, potevano risparmiare i piedistalli. Quelli almeno servono per tutti i busti.

    Nelida Milani, «Una valigia di cartone»

    PREFAZIONE

    Quanto pesa il passato nella vita di ognuno di noi?

    Quanto i grandi avvenimenti storici possono influenzare i destini dei singoli individui? Le vicende delle zone di confine hanno sempre avuto un fascino particolare per la loro palese complessità e raccontarle non è facile né per il cronista né per lo studioso né per il narratore.

    Riuscire a descrivere sentimenti, pensieri ed emozioni di chi è stato protagonista di storie come quelle avvenute in Istria o nella vicina penisola balcanica nel corso del secolo scorso può perciò apparire come un’impresa davvero ardua. Prova a farlo Valerio Di Donato con il romanzo Le fiamme dei Balcani – Guerra e amore dentro l’anima della ex Jugoslavia.

    Di Donato, giornalista e studioso di quanto avvenuto in Istria dagli anni del secondo conflitto mondiale sino ai giorni nostri, si è concentrato in particolare sul periodo della guerra fratricida nella ex Jugoslavia dei primi anni Novanta, conflitto che portò alla dissoluzione della Repubblica Federativa creata dal Maresciallo Tito. Nel corso di innumerevoli viaggi compiuti in Istria ha raccolto le testimonianze di numerose persone che hanno vissuto le vicende di questa terra tormentata, ascoltando sia esponenti politici ed intellettuali della società istriana sia tanta gente comune.

    Questo gli ha permesso di avere una visione d’insieme molto ampia, che è confluita nella sua raccolta di racconti Istrianieri. Storie di esilio, pubblicata nel 2006, e che propone numerose testimonianze sia di tanti esuli che hanno lasciato l’Istria dopo il passaggio dalla sovranità italiana a quella jugoslava con il Trattato di Pace del 1947, sia di tante altre persone che invece sono rimaste a vivere sotto il regime comunista di Tito. Valerio Di Donato si è molto interessato soprattutto all’aspetto umano di queste storie sottolineando le lacerazioni delle tante famiglie che si sono divise tra le opposte opzioni di partire ed abbandonare la propria Terra o di restare nei propri paesi in una realtà però completamente sconvolta dalle tante mutazioni.

    Inserendo queste vicende nel più ampio panorama dei trasferimenti di popolazioni avvenute dopo il 1945 in molti Paesi d’Europa, l’autore ha giustamente colto come nelle terre di frontiera spesso la marea della storia sposti in un senso o nell’altro la gente comune che si trova a dover affrontare spesso situazioni e drammi che vanno al di là delle normali vicende degli esseri umani.

    Il romanzo Le fiamme dei Balcani – Guerra e amore dentro l’anima di un mondo ex si innesta in questo grande filone storico che ha segnato la vita di milioni di persone, vittime di avvenimenti spesso di difficile comprensione per i singoli che li subirono.

    Così la storia di Antonio Fabris, esule istriano da un piccolo paese della periferia di Pola e protagonista del romanzo, si lega in maniera spesso del tutto imprevista alle storie di tanti altri personaggi italiani, croati e serbi che, nel quadro del grande crogiuolo di etnie creatosi nella Jugoslavia di Tito, intrecciano i propri destini.

    Guerre e amori, affetti e odi politici, ideologici e nazionali: sono tutti fattori che si mescolano nella trama del racconto che Di Donato sa sapientemente descrivere, facendo intravedere filoni nascosti che legano in maniera sorprendente avvenimenti degli anni Quaranta risalenti alla seconda guerra mondiale con quanto avvenuto più di recente negli anni Novanta nella Jugoslavia poi disgregata dalle sanguinose guerre interne.

    Il romanzo nasce come un lungo viaggio alla ricerca della soluzione di un mistero che ha attanagliato per molti anni la vita del protagonista, venuto a conoscenza di un preciso disegno per ucciderlo, ed assume via via le sembianze di un vero giallo storico in cui Antonio Fabris vuole capire e conoscere i motivi per i quali nel 1943 era stato a sua insaputa condannato a morte dai partigiani comunisti jugoslavi. Ecco allora che gli interrogativi legati al passato e a quanto gli avvenimenti storici possano influenzare, molto spesso in modo drammatico, la vita delle persone, trovano una chiara risposta positiva nelle pagine del racconto.

    Anche gli altri personaggi, che si muovono in epoche successive e in altre realtà geografiche, contribuiscono a instradare la vicenda verso la soluzione del mistero che trova infine la sua conclusione, in parte grazie al caso, in parte per merito dei giovani Mirna e Ivan, la cui complicata storia d’amore è parimenti influenzata in maniera determinante dalle vicende della guerra tra Serbi e Croati del 1991. Il lungo conflitto che insanguinerà fino alla metà degli anni Novanta (ed oltre, con lo strascico conclusivo del Kosovo) la penisola balcanica porterà i vari personaggi a confrontarsi con sé stessi ed a mettere in discussione tutte le convinzioni che avevano avuto fino a quel momento. Antonio Fabris tenterà di andare a fondo nel proprio passato ricercando per lungo tempo il suo mancato ed inafferrabile sicario, il comunista serbo Mirko Marinic; Mirna e Ivan affronteranno pericolose e drammatiche situazioni trovandosi a diretto contatto con le tragedie della guerra civile e con le scelte spesso terribili ed irreversibili che ogni conflitto porta con sé.

    Saranno proprio i due giovani che, attraversando in prima persona il periodo dei grandi odi interetnici che hanno portato alla disintegrazione della Jugoslavia, riusciranno a capire i meccanismi che avevano trascinato Antonio Fabris vicino alla morte quando ancora abitava nel suo paesino istriano, prima di separarsi dalla Venezia Giulia per partire esule assieme a 300.000 altri suoi conterranei, che si lasceranno alle spalle spesso famiglie divise e lacerate dalle diverse scelte.

    Il dramma delle popolazioni italiane in Istria, fatte bersaglio di persecuzioni, massacri e reiterate violenze da parte degli jugoslavi dopo la fine della Seconda guerra mondiale ed il dramma delle popolazioni slave (croate, serbe e bosniache) nella guerra degli anni ’90, verranno così associati da un destino comune di divisioni e sofferenze, come frutti di una Storia che sembra, con i suoi cicli di vita e di morte, ripresentarsi con meccanismi spesso simili, come una maledizione che nulla insegna agli uomini.

    Prof. Guido Rumici

    LE FIAMME DEI BALCANI

    PROLOGO

    «Vuoi dirmi perché dovrei leggermi tutta questa roba, ma’? Non sarà mica per la tesina su Stepinać e il martirio dei preti cattolici sotto il Comunismo, che devo preparare per fine mese, vero? Ne ho ancora di tempo, su….» Andrej levò la sua debole protesta mentre si rigirava assonnato fra le dita affusolate da chitarrista un malloppo di materiali vari: articoli di giornali e riviste, documenti e relazioni scaricati da Internet, estratti in fotocopia di libri. Insomma, materiale grezzo, da lavorare, elaborare, ma comunque ricco, per realizzare una buona ricerca.

    Glieli aveva serviti la madre a letto, associando insieme, sul vassoio di plastica celeste dell’Ikea, una voluminosa cartella color senape e una invitante colazione a base di tè, palačinke e macedonia di frutta fresca. Forse un dolce escamotage per fargli digerire meglio la sorpresa cartacea. Presagì una fatica fuori programma in quella settimana di forzata inattività, che lui contava di dedicare al puro far niente. A parte ascoltare musica.

    Era l’8 aprile 2018, domenica. Il giorno prima, proprio alla vigilia della gita scolastica a Berlino, Andrej si era rotto la tibia destra giocando con la sua squadra, il «Košarkaški Klub Cibona Juniores», al torneo distrettuale. Una doppia sfortuna. Se non avesse voluto fare il fenomeno, tentando di andare a canestro come un Dražen Petrović redivivo, adesso sarebbe in viaggio con i compagni per una settimana di sicuro divertimento. E invece: gamba destra ingessata e tanto tempo libero da trascorrere da solo in casa. Anche suonare la sua adorata elettrica Squier Bullet Stratocaster, imitazione Fender, risultava piuttosto complicato. Leggere invece no. Gli occhi e la testa funzionavano ancora benissimo.

    Veronika lo guardò con la dolcezza di una madre-chioccia e il sorriso sgranato di chi non si lascia commuovere: «So bene che l’argomento non ti entusiasma, ma si tratta dell’ultimo sforzo, prima della maturità. Sei bravo in Storia, sei bravo in Croato e in Filosofia, non dovresti avere particolari difficoltà. Devi solo accontentare il tuo insegnante di Religione, facendo un lavoro diligente».

    «Quel prete occhialuto, è di una simpatia!».

    «Non è questione di simpatia. Anche se la sua materia non è di quelle che contano di più, lui ha notoriamente una certa influenza sui colleghi professori, in sede di scrutini. Dai, oggi ti rilassi e da domani, al lavoro! Hai davanti una settimana tutta libera, dalla scuola, dallo sport, dagli amici. Un’occasione unica per recuperare».

    «Sì, mamma, guarda... non aspettavo altro».

    Al di là della stretta marcatura sullo studio, Veronika Savić era orgogliosa del figlio. Un ragazzo intelligente, poliedrico, d’indole allegra, tendente alla commedia e all’ironia. Retaggio genetico del padre, Marko Blažić, morto prematuramente cinque anni prima in un incidente d’auto. Rimasta sola, Andrej era diventato tutto per lei. Ma non era un caratterino docile. Anzi. Dinamite pura. Pieno di interessi, lo sport e la musica su tutti. A scuola – il «Privatne klasične gimnazije» di Zagabria – applicava, con discreto successo, la regola del massimo risultato con il minimo sforzo. A meno che non fosse colpito da un tema particolarmente interessante, e allora era capace di starsene ore e ore a leggere o a documentarsi come un topo da biblioteca.

    Il mattino successivo, poco dopo le sette, Veronika passò a salutarlo lasciandogli il vassoio con la colazione sul comodino e l’avvertenza che sulla sua scrivania lo aspettava il materiale per iniziare la ricerca sul Cardinale Stepinać.

    «Stai tranquillo, alla fine, la rivediamo assieme. Ok? Buon compleanno tesoro, stasera torta con le candeline», gli sussurrò all’orecchio e uscì per correre a prendere servizio all’ospedale pediatrico Gornja Bistra, pochi chilometri fuori dalla capitale, dove lavorava come medico.

    «Ok un corno!», avrebbe voluto risponderle, se non fosse stata sua madre. Provava rabbia. Si era immaginato di festeggiare i suoi diciotto anni in una birreria di Berlino, cantando a squarciagola con i ragazzi e le ragazze dell’ultimo anno di liceo, e non certo a cena con sua madre al termine di un’intera giornata passata a studiare la parabola di Stepinać.

    «Figuriamoci!», aveva sogghignato. «Quello che mi ci vuole è un bel riassunto, tutto o quasi già pronto. Altrimenti qui il martire lo divento io, ragazzi. E credo anche di sapere dove andare a cercarlo. Vicino, molto vicino. Voi non mi conoscete, non mi conoscete ancora, io sono un mito!».

    Il suo genio diabolico entrò subito in azione. Nella mente, il piano gli era perfettamente chiaro. L’unico problema serio che vedeva davanti a sé era come esplorare i piani alti dell’imponente libreria di famiglia, portandosi appresso l’ingombro e il peso del gesso.

    Senza perdersi d’animo, il ragazzo, aiutandosi con la stampella, si trascinò verso lo studio, trasformato in un museo di memorie dopo la scomparsa del padre. Veronika aveva stabilito delle regole ferree per l’accesso e l’utilizzo della stanza per lei più importante della casa, temendone un precoce degrado per assimilazione all’inguardabile camera del figlio. Entrare nello studio, che era stato il pensatoio e il rifugio creativo del genitore, significava, pertanto, violare il tempio postumo di Veronika. Sacro per lei quanto lo era per lui la sua caotica cameretta. Nella ricca libreria ivi custodita, Andrej aveva notato, casualmente qualche giorno prima, un libro dalla vistosa copertina rossa, intitolato: «Politica e religione in Jugoslavia, un intreccio esplosivo.»La madre lo aveva scartato per scelta precisa, trattandosi di un testo «eretico» rispetto alla linea ufficiale di cui il professor Don Franjo Horvat era fedele interprete. Marko se lo era fatto spedire dalla Gran Bretagna.

    Ed eccoci alla parte più delicata dell’operazione: estrarlo dalla sua fila e tirarlo giù senza combinare disastri. Il volume, per fortuna, non era riposto nei ripiani più alti, raggiungibili solo con l’apposita scaletta. Sarebbe stato sufficiente fare leva, con il piede buono, su una sedia, e protendersi quel tanto che serviva.

    L’importante era non inciampare. Non agitarsi, né dimenarsi, su quel tappeto minato dai pregiati vasi di Boemia e di Murano che la mamma aveva piazzato a mo’ di eleganti urne funerarie.

    Sudando freddo, riuscì a posizionare sotto lo scaffale desiderato una sedia spostata lentamente dalla scrivania. Appoggiò quindi, sempre con movimenti circospetti, la stampella ad una poltroncina, fece leva con l’arto funzionante sulla seggiola e si allungò con il braccio steso verso il libro, lo afferrò e fece per tirarlo fuori, con la massima cautela. Fu in quel momento che notò un grosso plico di colore verde, nascosto a ridosso del taglio concavo del volume a fianco. Incuriosito, Andrej l’agguantò. Si trattava di uno di quei bustoni d’archivio in cui raccogliere materiali vari attinenti a uno stesso argomento. Al suo interno era conservato un robusto fascicolo graffettato, recante un nome e un titolo. Il nome era quello di Marko Blažić, il titolo, preceduto dalla dicitura provvisorio, era: «Patrie infette». Un sottotitolo spiegava: «Mezzo secolo di guerre nei Balcani».

    Andrej quasi non respirava, un po’ per la fatica, ma soprattutto per la sorpresa. «Papà ha scritto un libro!», esclamò. Le domande gli si affollarono in fila, tutte insieme. E perché la mamma lo nasconde? E perché non mi ha mai detto nulla? E perché lui, o lei, non lo hanno fatto mai pubblicare? Doveva decidere, velocemente, che fare. Iniziare a copiare velocemente più informazioni possibili dal manuale e poi rimetterlo al suo posto, facendo finta di non aver mai visto quella busta infilata dietro? O gettarsi nella lettura del manoscritto segreto, un po’ al giorno, nelle lunghe ore di solitudine che l’aspettavano quella settimana confinato in casa?

    La logica gli fece presente che non restava effettivamente molto tempo per preparare la maldigerita tesina. Con l’ausilio del libro rosso, più qualche articolo pescato dal dossier che gli aveva predisposto Veronika, in una settimana ci sarebbe anche potuto riuscire. Ma le ragioni del cuore e l’istinto prevalsero senza esitazioni. «Stepinać può attendere, papà no.»Così motivato, Andrej rimise il volume, che ormai aveva perduto ogni interesse ai suoi occhi, nella posizione originaria.

    Uscì dallo studio con l’abilità e l’attenzione di un Arsenio Lupin azzoppato, e si ritirò nella sua tana variopinta per iniziare a leggere il libro scritto dal padre. Della guerra per l’indipendenza della Croazia, combattuta più di vent’anni prima contro la Jugoslavia, non sapeva praticamente altro rispetto alla celebrativa vulgata scolastica che l’insegnante di Storia aveva svolto proprio, guarda caso, nel programma di quell’anno. E poco, o quasi nulla, gli era stato raccontato da Marko e Veronika, partiti come volontari nella prima parte del conflitto. Aveva ora, insperatamente, una buona settimana davanti per leggere con calma un documento che, forse, chissà, avrebbe potuto essere eccezionale. Alla tesi su Stepinać ci avrebbe pensato dopo.

    1

    «E così, in tutti questi anni, avrei aiutato senza saperlo il mio mancato sicario? Un misero assassino? Tutte quelle medicine che, dall’Italia, mi sono preoccupato di fargli arrivare tramite mia madre erano destinate a un boia? Al mio boia?» Le domande senza risposta sanno diventare ritornelli irrefrenabili, petulanti e ossessivi tanto più quanto più esse appaiono assurde. Ma cosa c’era di veramente normale in quel mondo rovesciato, dove tutto si era capovolto in pochi anni, valori, ideali, equilibri, rapporti di forza, relazioni umane? L’Istria era passata dal fascismo al comunismo senza fermate intermedie. Nessuna palingenesi democratica. Nessun sussulto liberale. Reazione e rivoluzione si erano date il cambio in poco più di vent’anni, tra i più deleteri del Novecento, e parole come «diritti dell’individuo», «libero pensiero», «libera impresa», «pluripartitismo», parevano bestemmie.

    Antonio Fabris sentiva, sapeva, che il ritorno nella terra che gli aveva dato i natali, dopo un’assenza durata un ventennio, sarebbe stata un’esperienza forte, emotivamente complessa, tutt’altro che scontata. In definitiva «storica». Fino a che punto, però, nessuno avrebbe potuto ipotizzarlo. Certo, non immaginava che avrebbe ascoltato quello che qualcuno volle fargli sapere dopo tanto tempo.

    «Bentornato Tonci!» – come veniva chiamato Antonio in famiglia – ripeté a sé stesso tre o quattro volte, quasi ad esorcizzare i fantasmi di un passato in dormiveglia. Lui, uomo che la maturità aveva reso razionale e concreto, moderando nel tempo la sua naturale propensione a prendere di petto i problemi, tentava di interrompere quel sommovimento interiore di pensieri ed emozioni, mentre camminava svelto verso la casa dei genitori, dove tutti l’attendevano.

    Era arrivato qualche giorno prima, in macchina, con la moglie Amalia, valicando a Rabuiese la famosa «cortina di ferro.»E che ferro! Tinta antracite la fitta barriera di filo spinato che delimitava tutta l’area confinaria. Sospettosi, opachi, e gelidamente sbrigativi i volti dei poliziotti italiani quando gli restituirono il passaporto. Ferrigne e tese le facce dei doganieri jugoslavi, i severi Graničari, mentre verificavano i documenti e ispezionavano con cura maniacale bagagliaio, sedili, pavimento, ogni centimetro della Fiat Millecento grigia spuntata dall’aldilà, dalla parte considerata corrotta del mondo. Rugginoso il colore delle strade, che vennero costruite come porte d’Oriente, come vie verso un «radioso avvenire» dall’Italia mussoliniana, e ora erano rappezzate qua e là, alla bell’e meglio, di nero bitume socialista. I paracarri del Duce, invece, pur avendo perso lo smalto originario, continuavano imperterriti e vigili ad indicare ai viaggiatori la via maestra verso Pola.¹ No, non arrivavano semplicemente dalla confinante Italia capitalistica e filo americana, ma da Marte. Erano scesi in un pianeta che aveva come unico sole attorno a cui ruotare il maresciallo Tito.

    Tonci guidò per tre ore, paziente e guardingo, cercando di riconoscere man mano che procedeva i più disparati dettagli geografici e urbanistici del territorio che ricordava. Accanto, Amalia distillava cauta le parole, carica di un’ansia a lungo covata, lei che aveva guardato sempre con diffidenza al mondo slavo.

    Correva l’anno 1965 e l’emorragia dell’esodo era terminata da poco. Il corpo dell’Istria poteva dirsi finalmente guarito, ristabilito, benché esausto, grazie alle continue trasfusioni di genti e popoli giunti da tutta la Federazione a colmare i vuoti lasciati dagli italiani. Un orgoglioso socialismo domestico trionfava nella nuova Jugoslavia, fiera della sua autonomia da Mosca e del ruolo internazionale che aveva saputo ritagliarsi, aprendo ai suoi cittadini spazi di libertà altrove impensabili nell’universo comunista, e attraendo preziosi aiuti economici da parte di un Occidente mellifluo e unicamente interessato al suo neutralismo.

    Ecco cosa si sentiva Tonci: un rappresentante «di fatto» di quel mondo insieme temuto e prezioso, invidiato e odiato. Ma lui era, soprattutto, talijan, un italiano, simbolo del fascismo sconfitto nel 1945, che la propaganda del regime dipingeva come sempre incombente e minaccioso, pronto a riemergere dall’armadio della Storia dietro nuove spoglie.

    Il paese di Fasana,² nel sud dell’Istria a nove chilometri da Pola, lo attendeva con finto distacco. Tremilacinquecento anime, che fino al 1918 non si erano mai chieste se si sentissero più croate o più italiane, era il classico borgo istriano dove un’unica parlata plasmata dai lunghi secoli di dominazione veneziana, e aperta a influssi slavi e tedeschi, accomunava etnie, cognomi, famiglie, parentele dai fili spesso intricati. La lingua ufficiale, oggi, era naturalmente il croato, succeduto per duplice causa, bellica e rivoluzionaria, all’italiano imposto nello sventurato Ventennio agli slavi. Ma il dialetto quotidiano attingeva alle profonde e pure radici locali, da sempre refrattarie alle semplificazioni, che neppure la brutale egemonia del padrone di turno poteva recidere.

    Tuttavia, molte cose erano cambiate, e non solo per il naturale fluire del tempo. Quelli erano tempi nuovi, incisi profondamente da una rivoluzione che aveva rovesciato con la violenza, a seguito di una spaventosa guerra di liberazione, valori, ruoli, gerarchie.

    Qualche giorno dopo il suo arrivo a Fasana, gli venne fatto sapere che Stjepan Berčić avrebbe avuto piacere di salutarlo. Nipote della nonna materna, Tonci lo aveva visto forse quattro o cinque volte in tutto, e di lui sapeva soltanto che durante la guerra aveva seguito nei boschi i partigiani jugoslavi, scegliendo di battersi contro gli oppressori nazifascisti. Berčić aveva da poco passato la sessantina ed era precocemente invecchiato a causa di un cancro che pian piano lo divorava, quindi Tonci accettò di andare a trovarlo in casa, a Peroj, un borgo a quattro chilometri da Fasana, sulla costa, più a nord. Non si stupì troppo dell’invito, visto che più di un parente o di un vecchio amico di famiglia, sapendo del suo ritorno, era andato a trovarlo, come si usava in quel piccolo mondo antico di buone maniere e di solidarietà paesana che non era mai scomparso neppure negli anni più bui.

    L’abitazione di Stjepan Berčić era una casetta semplice, a due piani, di un color paglierino e cenere, dignitosa e ordinata. Il regime gliel’aveva assegnata come doverosa ricompensa a un esemplare compagno, che aveva combattuto e sofferto per la Causa.

    Andò ad aprirgli la moglie Snježana, che accennò un lieve, freddo sorriso e lo fece accomodare nella grande stanza che fungeva da cucina e insieme da sala. Seduto su una poltroncina di velluto liso, Stjepan lo aspettava tranquillo, ma visibilmente affaticato. Un uomo rispettato e riverito, che sentiva la vita andarsene, lasciandolo sempre più spesso solo con i suoi ricordi. Stjepan era stanco della grande messinscena collettiva costruita attorno al mito del bravo cittadino socialista. Faticava ad accettare la retorica ufficiale inneggiante a concetti alti: la libertà, l’unità, l’uguaglianza, la fratellanza fra i cittadini e i popoli della grande Jugoslavia. E al miglioramento delle condizioni materiali dei cittadini, al «progresso», naturalmente.

    Ma come poteva Stjepan fingere a sé stesso di non vedere e non sapere cosa era accaduto agli italiani dell’Istria, di Fiume³ e della Dalmazia, perseguitati e indotti a partire in massa, dopo una guerra sciagurata? O a rimanere come rare e smarrite ombre prive di corpo? Era consapevole di aver partecipato alla costruzione del capolavoro di Tito: un inedito sovranismo socialista, capace di fare da locomotiva ai Paesi non allineati. Adesso, però, assisteva rassegnato all’epilogo del suo personale destino, come un soldato in attesa della tradotta che lo porterà al fronte per l’ultima fatale battaglia. Negli occhi appesantiti dal carico del tempo si intuiva il desiderio di togliersi un ultimo macigno dall’anima.

    «Buongiorno Tonci, sono contento di vederti», gli disse subito, quasi fosse davanti al confessore fatto arrivare alla vigilia dell’ora estrema, e non a un lontano nipote, che aveva accarezzato qualche volta sulla testa, bambino, durante una breve visita.

    «So che voleva incontrarmi…», replicò rispettoso l’ospite italiano, mantenendo con il lei una calcolata distanza.

    Ma lui l’interruppe subito invitandolo ad accantonare quell’inutile barriera formale: «Non abbiamo avuto modo di frequentarci molto, ma veniamo dalla stessa famiglia, diamoci del tu, se non ti dispiace», disse aggrottando le sopracciglia bianchissime e in tono da penitente. Tonci mosse il capo in segno di condiscendenza e si mise in ascolto, come avrebbe fatto un prete compassionevole.

    «La mia famiglia e la tua si sono sempre rispettate, anche quando eventi terribili si sono scatenati sulla nostra povera Istria», fu la premessa di un discorso dal tono ora pensoso, ora nostalgico, dove i riferimenti frequenti alle comuni radici puntavano ad abbattere il muro invisibile che divideva non solo due persone che si conoscevano poco, ma due mondi e due culture contrapposti. Dopo pochi minuti introduttivi, Stjepan imboccò la strada maestra della verità nascosta, che aspettava da anni di essere disseppellita.

    La voce si fece più grave, lievemente severa: «Tu non lo sapevi, ma i compagni dell’Odbor⁴ ti tenevano sotto costante osservazione», disse accompagnando le parole con una smorfia di imbarazzo, subito rimosso. Si fermò un attimo a riprendere fiato. «Non ti eri schierato apertamente con nessuno. Ti avevamo visto tornare, alla metà di settembre del ’43, con la divisa da soldato smobilitato dell’esercito italiano, e poi assentarti spesso con periodici viaggi a Trieste. Per i compagni il tuo era un comportamento oggettivamente sospetto, lo capisci?», concluse il

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