Nell'anno del muro
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di Filomena Chiaradonna
All’inizio degli anni ’60, il boom economico in Italia riempiva gli animi di ottimismo. I ragazzi sognavano il mondo e la libertà, e per molti di loro il modo più veloce per rendere concreti i loro desideri era partire per cercare lavoro all’estero.
Dall’Irpinia, un treno porta uno di questi giovani verso i cantieri della Germania da ricostruire. Non è una fuga la sua, ma un’esperienza intensa, l’occasione per migliorare la qualità della sua vita.
Qual è la vera storia di quel mondo che corre veloce? Se ne rende conto solo dopo essere salito su quel treno: tanti ragazzi, tutti diversi, tutti con la voglia di andare, di ottenere ciò di cui hanno bisogno.
Nel viaggio, il giovane porta con sé la voglia di conoscere e un sorriso da regalare anche alle persone più ostili e prevenute nei confronti di quelli come lui.
Intanto, nello stesso anno in cui il ragazzo si dà da fare per costruire il suo futuro, un muro viene innalzato, un muro che per tanto tempo dividerà il mondo.
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Nell'anno del muro - Filomena Chiaradonna
L’attesa
Con le mani in tasca tiravo calci ai sassolini, così che una sottile polvere bianca si depositava sulle scarpe che papà mi aveva fatto per la bella stagione. In realtà me le aveva fatte per la partenza: non troppo rozze, non troppo fini. Un muratore non porta scarpe da scrivano, sentenziava papà dall’alto della sua saggezza. Scarpe solide di capretto, alte perché il piede non balli e lacci scuri ben stretti.
Si avvicinavano i giorni della mietitura, il caldo si faceva intenso e io aspettavo mio fratello Virgilio, che mi avrebbe portato la preziosa lettera.
In quella lettera c’erano tutte le mie speranze, la voglia di andare, la voglia di capire e vedere finalmente quei soldi stranieri di cui si parlava tanto, quasi come fossero monete d’oro.
Non sentivo nulla, se non il rumore dei miei pensieri che disponevano e ordinavano i miei giorni futuri. Ultimamente osservavo tutto con attenzione, specialmente mia madre che si dava da fare per mandare avanti la casa, che faceva avanti e indietro con le sue spasette1. Il suo grembiulone era sempre unto di ciò che preparava: frittelle con i fiori di zucca, friggitelli2 croccanti, passata di pomodoro. Insomma, a casa mia l’arrivo dell’estate era sinonimo di frittura e di colore, le finestre erano spalancate non solo per il caldo, ma perché così le comunicazioni diventavano più veloci. Veloci e tonanti erano i rimproveri per i mocciosi dispettosi; veloci erano i doveri che mia madre dispensava a destra e a manca per tutta la giornata; veloci erano le notizie su chi partiva e chi arrivava.
Papà non prendeva parte al vociare quotidiano e mal sopportava gli starnazzi femminili, come li chiamava lui, che bruciano le orecchie e annebbiano il cervello.
Il suo era un insieme armonico e preciso di un vivere umile in un mestiere nobile e artistico; così mi piaceva pensare di lui. La sua bottega di calzolaio era il suo regno, dove la più piccola ssuglia3 aveva una storia importante e tutto era in ordine, tutte le commesse erano segnate su un registro dalla copertina blu che riponeva con cura e con rispetto.
Il lavoro di papà andava oltre la semplice risolatura di scarpe e stivali: lui le scarpe le faceva; erano creature alle quali dava vita a partire dalle pelli di cui seguiva personalmente la concia e la selezione. Lui non era solo lo scarparo, ma anche l’unico artigiano a cui rivolgersi per la confezione di borse e bisacce di cuoio. Ricordo ancora che per me realizzò una cartella lucida, con le fibbie dorate: era molto orgoglioso del fatto che io avessi deciso di continuare ad andare a scuola, sia pure la scuola di Arti e Mestieri: quanto bastava per avviarmi al lavoro.
Il lavoro, la parola più usata da mio padre: quando pronunciava quella parola si metteva dritto e alzava lentamente l’indice della destra.
«Il lavoro è la prima cosa a cui devi pensare, col lavoro viene tutto, ma… il lavoro lo devi onorare imparando tutto ciò che c’è da sapere.»
E io avevo imparato: tre anni da Mastro Michele senza mai ribattere a un rimprovero e senza mai guardare l’orologio.
«Chi guarda spesso l’orologio irrita il padrone», ripeteva papà.
Io e Mastro Michele ci intendevamo, lui conosceva i miei ritmi e io avevo capito il suo stile.
Alla fine del terzo anno di apprendistato da muratore ebbi la mia bella qualifica, che portai a casa in trionfo.
Tutti in famiglia ne furono contenti; si fece festa come per un grande evento. Mia mamma e zia Amelia si diedero un gran da fare, prepararono un bel po’ di dolci e rustici, che mangiammo in allegria.
Peccato che dopo tutti quei dolci bocconi me ne aspettava uno sicuramente un po’ amaro: Mastro Michele aveva poco da farmi fare e anche a me, come a tanti ragazzi della mia età, non restava che tentare la via dell’emigrazione.
Erano gli anni Sessanta e tutto sembrava andare più in fretta; in paese erano arrivate le prime televisioni e un mondo tutto nuovo faceva capolino anche tra i monti dell’Irpinia. Le ragazze cambiavano pettinature, i ragazzi volevano le scarpe lucide con lo scrocchio e a mio padre toccò cambiare un po’ la linea
delle scarpe per la festa.
Le feste erano quelle in casa o nei cortili dove si ballava al suono della fisarmonica. Qualcuno cominciava sfoggiare il giradischi e all’orecchio arrivavano i vertiginosi ritmi del Rock and Roll.
Zio Gerardo era barbiere e anche lui si destreggiava per tirare a lucido quelle teste nere e folte, dalle quali spuntava il famoso rollo. A me il rollo non lo faceva, perché immaginava la faccia che avrebbe fatto papà, però mi lisciava i capelli per bene e mi brillantinava
al punto giusto.
«Chissà quando arriva la risposta», dissi a testa bassa nella bottega di mio padre.
Papà stava dando l’ultima lucidata al paio di scarpe più belle della bottega.
«Di chi sono?» chiesi, senza alzare troppo la testa.
«Sono dell’avvocato Pestella, passa più tardi e mi paga anche.»
Mio padre attendeva quel momento da giorni, perché non era cosa consueta che i suoi manufatti venissero pagati in denaro; la gente semplice spesso pagava con prodotti della terra o in servizi utili alla famiglia. Non c’era da prendersela, funzionava così.
Avevo camminato da casa fino alla bottega di papà giocherellando con i sassolini sulla strada e le mie scarpe si erano coperte di polvere. Non ci avevo fatto caso, continuavo a tenere le mani in tasca e la testa bassa. Mi aspettavo la domanda di mio padre, che infatti seguì a quel mio fare insolito.
«Hai preso a calci la strada o hai impastato il pane con mamma?» chiese sarcastico, senza distogliersi dal lavoro.
«No, è che sono in ansia, perché Virgilio non arriva. Mentre aspetto, posso aiutarti? Che ti serve?»
«Un po’ di pane e due fichi bianchi, quelli che sicuramente ha portato Antonio stamattina. Valli a prendere, magari Virgilio è passato là.»
Papà aveva capito la mia ansia e anche che non gli avrei potuto essere utile in alcun modo.
Quell’anno i fichi bianchi erano deliziosi al punto da poter sostituire il più appetitoso dei dolci. Il profumo, la consistenza sotto i polpastrelli, il vermiglio della polpa; erano momenti sublimi che mi deliziavano il palato e inducevano la bocca a movimenti quasi sensuali.
In realtà Virgilio, il cestino con i fichi ben coperto da un largo tovagliolo a quadrotti, aveva evitato mamma e zia Amelia e stava andando alla bottega da papà: avrebbero condiviso tutto nel luogo speciale e un po’ complice delle chiacchiere tra uomini.
1 Grandi zuppiere di terracotta smaltate che servivano per contenere salse, zuppe ecc.
2 Peperoni verdi piccoli, tipici del sud Italia. Si saltano in padella.
3 Minuscolo strumento di lavoro per i calzolai dell’epoca.
Una valigia non basta
«E anche tu prendi il volo per la Germania.»
Virgilio rigirava la preziosa lettera tra le mani. Temporeggiò un poco prima di consegnarmela; si sentiva parte importante di un ingranaggio semplice e preciso, che determinava sempre le stesse azioni: lettera – contratto – biglietto – lavoro – partenza. Si pavoneggiava un po’ e scandiva quasi cantando la solenne parola: Germania.
«Tua madre dovrà procurarsi una terza valigia, bella grande, con tanto spago.»
Mi porse la lettera e aspettò, guardando la mia espressione per studiare la frase di convenienza che avrebbe chiuso il nostro incontro.
«Grazie Virgilio», risposi con gli occhi incollati alla lettera.
Dovevo decidere come aprirla, in che situazione dare sfogo alle mie emozioni. Immaginavo lo sguardo serio e la testa dondolante di papà, le lacrime silenziose e i pugni chiusi di mamma. Lei avrebbe sicuramente volto lo sguardo a tutte le immaginette religiose infilate sulla destra della specchiera, che tutto il nostro vissuto raccoglieva nella sua enorme cornice.
Alla fine, nel momento in cui il sole calava con la sua meravigliosa dolcezza sul versante più basso dell’Aspra4, aprii la busta e, seduto sull’alzata di pietra