Preti a Roma: 150 anni di sfide nella capitale
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Augusto D’angelo insegna Storia Contemporanea presso il Diparti- mento di Scienze Politiche di «Sapienza» Università di Roma. Con la nostra casa editrice ha già pubblicato All’ombra di Roma (1995); Vescovi, Mezzogiorno e Vaticano II (1998); De Gasperi, le destre e l’«operazione Sturzo» (2002); Moro i vescovi e l’apertura a sinistra (2005); Andreotti, la Chiesa e la «solidarietà nazionale» (2020). Per i nostri tipi ha curato con M. Toscano anche il volume Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» 1963-1978 (2018). Ha curato con a. Ric- cardi i carteggi di g. la Pira Il sogno di un tempo nuovo. Lettere a Giovanni XXIII (San Paolo 2009) e Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI (San Paolo 2015).
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Preti a Roma - Augusto D'Angelo
INTRODUZIONE
Essere preti a Roma dopo il 1870 ha rappresentato una lunga serie di nuove sfide. Ci fu innanzitutto il problema di continuare a vivere in una città che cambiava dimensione: dall’essere un santuario universale della Chiesa cattolica riconosciuto a livello mondiale come tale, era destinata a diventare la Capitale di un Regno giovane che voleva dare una nuova immagine della città. Una «Città della Scienza» – questo era il disegno – da contrapporre alla Roma dei papi. Lo espose così Quintino Sella, provocato dallo storico Theodor Mommsen che gli chiedeva: «Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti; a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti. Che cosa intendete di fare?».
Il volto della nuova Capitale fu parzialmente ridisegnato con non poche forzature, e questa trasformazione condusse ad una edificazione di alcune zone della città che si discostava dal tradizionale impianto urbano, e si proponeva l’occultamento della Roma papale. Si pensi alla zona dei Prati di Castello e Delle Vittorie. Si superò la tradizionale configurazione delle piazze con la presenza delle chiese cattoliche tra i principali edifici simbolo della vita sociale. Le piazze edificate dopo il 1870 in quei quartieri non dovevano avere chiese in vista: da piazza Cavour verso nord, Piazza Mazzini e Piazza Bainsizza, Piazza delle Cinque Giornate, Piazza dei Prati degli Strozzi, Piazzale Clodio, Piazzale degli Eroi: sono tutte piazze senza chiese, e dalle quali non è possibile vedere la cupola di San Pietro. Tutto il reticolo di vie della zona, lungo le quali si costruisce secondo il modello piemontese, sono edificate secondo una direzione tale che da nessuna di esse sia permesso guardare in prospettiva verso la cupola. Solo su Piazza Cavour fu permessa la costruzione di una chiesa, ma era quella valdese, perché le nuove autorità volevano favorire nella Capitale la presenza di culti diversi, oltre a quello ebraico che in città era presente almeno dal II secolo a.C.
Con gli esordi del Novecento il problema di una interpretazione del ruolo della Capitale, soprattutto a fronte delle conquiste in campo coloniale e della mutazione parziale dei rapporti con la Santa Sede, iniziò a porsi nuovamente, soprattutto negli anni in cui la giunta guidata da Ernesto Nathan (1907-1913) mise in campo un tentativo di razionalizzazione degli interventi con il piano regolatore del 1909, teso ad accompagnare in maniera ordinata lo sviluppo della città. Ma il vero salto si ebbe negli anni del rafforzamento del regime fascista, quando l’istituzione del Governatorato favorì la concentrazione di potere quasi esclusivamente nelle mani del Governatore ed il legame strettissimo con il Ministero dell’Interno, e quindi con i vertici del regime, permise al governo centrale di ridisegnare il profilo di Roma secondo le proprie intenzioni. La scelta fu quella di costruire – anche nell’immaginario pubblico – una «Capitale imperiale» in cui gli sventramenti e la ridefinizione degli spazi pubblici accompagnassero l’evoluzione del regime, ampliando le periferie urbane, e svelando l’ambizione di una volontà di potenza che avrebbe poi condotto il Paese alla catastrofe della partecipazione al conflitto.
Roma ha poi attraversato la seconda guerra mondiale, l’occupazione tedesca, è stata città della Resistenza, e al tempo stesso delle ferite della deportazione degli ebrei e della strage delle Fosse Ardeatine.
Dopo la seconda guerra mondiale Roma è stata Capitale bombardata di una potenza sconfitta, ma capace in pochi anni di risollevarsi dalle macerie, vedendo al tempo stesso crescere il numero dei suoi abitanti e delle sue periferie. Fin da subito le classi dirigenti alla guida della nuova Repubblica si posero obiettivi capaci di superare il respiro delle esigenze immediate. E in tanti, a vario livello, si sono adoperati negli anni Cinquanta e primi Sessanta per sviluppare una forte immagine internazionale di Roma. Si pensi alla firma nel 1957 dei Trattati di Roma per la costituzione della Comunità Economica Europea e dell’EURATOM, che reinserivano appieno l’Italia nel concerto dei grandi paesi europei capaci di orientare il proprio futuro sulla via di quella integrazione progressiva di destini tra paesi che si erano combattuti. E, ancora, le Olimpiadi del 1960, che erano state assegnate a Roma nel 1955. I Giochi olimpici posero la Capitale sotto i riflettori internazionali, e ne mostrarono un’immagine moderna e al passo con lo sviluppo dell’Occidente a soli quindici anni dalla fine della guerra. Se il mondo sportivo e le generazioni che vi assistettero ricordano ancora le imprese di Abebe Bikila, l’etiope che vinse la maratona correndo a piedi scalzi, o di Livio Berruti, l’italiano più veloce del mondo che si aggiudicò la medaglia d’oro nei 200 metri, i lavori di preparazione delle Olimpiadi trasformarono in meglio la vita di Roma: venne realizzata la via Olimpica; fu aperta alle auto la via del Muro Torto; venne inaugurato il senso di marcia unico sul lungotevere; venne realizzato un Villaggio Olimpico al Flaminio, in una zona degradata ed anche abitata da baraccati, ma gli alloggi degli atleti successivamente divennero di edilizia popolare e destinati anche a chi non aveva un tetto; fu inaugurato l’aeroporto di Fiumicino. In quella stagione si misero in cantiere opere che giunsero a completamento e restano tutt’ora utili al tessuto cittadino.
Due anni dopo iniziarono i lavori del Concilio Vaticano II, che per quattro anni convocò a Roma, nella stagione autunnale, circa 2500 vescovi cattolici provenienti da tutto il mondo, e delegazioni di molte confessioni cristiane da vari scenari geopolitici. Si trattò di un evento che attrasse giornalisti e televisioni che rinviarono nel mondo l’icona di una Roma centro della cattolicità, e che giovò alla Capitale, rimbalzando nel mondo anche grazie alla stagione dei pellegrinaggi intercontinentali di papa Paolo VI, una novità assoluta nella declinazione del ministero del successore di Pietro.
In seguito, dalla fine degli anni Sessanta e per tutti i Settanta Roma divenne la capitale della contestazione giovanile, delle proteste sindacali, ma anche dell’apertura di spazi di riflessione e speranza per il futuro. Fu il caso – ad esempio – del convegno sui mali di Roma del febbraio 1974, che coinvolse – per iniziativa del Vicario, il cardinal Ugo Poletti – migliaia di persone nello sforzo di individuare le modalità di una evangelizzazione rinnovata della città che ne guarisse le tante ferite. Ma progressivamente quegli anni videro emergere nella Capitale anche una più intensa violenza criminale e il terrorismo politico che ne sfigurarono il volto, fino all’uccisione, per mano degli assassini delle Brigate Rosse, di Aldo Moro (1978) e di Vittorio Bachelet (1980).
Da quella stagione Roma e le sue classi dirigenti sono apparse meno capaci di mantenere quel profilo di proiezione internazionale, di maturare immagini e progetti tali da favorire l’affermazione della Capitale come modello positivo di città, se si esclude il tentativo fatto negli anni della preparazione al grande Giubileo del 2000, una pietra miliare dal punto di vista della risposta religiosa, con molte luci e ombre, invece, dal punto di vista dell’ammodernamento della città.
In questo lungo itinerario, ricostruito per brevi linee e con l’evocazione di sommarie immagini, i preti a Roma hanno sempre accompagnato gli abitanti, il popolo di Roma, mentre il profilo della città cambiava anche dal punto di vista demografico. Ogni stagione ha rappresentato più di una sfida alla quale il clero ha risposto declinando con creatività la propria vocazione.
In queste pagine si presentano venticinque profili di preti che hanno operato a Roma da quando essa è divenuta Capitale, e che hanno raccolto alcune di quelle sfide. Queste storie sono il frutto delle ricerche per la rubrica mensile Ritratti romani, del periodico diocesano online «RomaSette.it», che il Direttore e amico Angelo Zema mi propose di curare nel 2018, e rappresentano – senza alcuna pretesa di completezza – alcuni percorsi esemplari del clero che ha vissuto, almeno in parte, la propria vocazione nella Capitale.
Alcune di queste sfide appaiono e si ripropongono in varie stagioni della vita della Capitale. Si pensi a quella degli immigrati, che a cavallo del ’900 sono italiani provenienti da varie regioni, e che si integrano attorno alla devozione di un santo e di una festa come accade a San Giuseppe al Trionfale, mentre alla fine del millennio provengono da ogni parte del mondo ponendo lo stesso tema dell’integrazione; o si pensi al tema dell’emigrazione sfortunata di quanti tentano di varcare l’oceano verso le Americhe ma sono respinti dalla sorte e si ritrovano a tornare nella propria terra, emarginati e considerati indemoniati
: storie di gente periferica sia dal punto geografico che umano, e che trova al proprio fianco preti creativi che sanno immaginare e costruire vie d’inclusione.
Ci sono poi preti che amano la politica e si battono per la democrazia mentre sale l’onda nera del regime fascista, o che già negli anni Venti colgono il problema della secolarizzazione in una città che si burocratizza in maniera progressiva, e che guarda meno alla Chiesa come punto di orientamento della propria vita, mentre altri rispondono creando alle porte della città, nel bel mezzo dell’Agro romano, un santuario che possa rivitalizzare la religiosità dei romani.
C’è poi la stagione della seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazista della Capitale, col clero in mezzo alla popolazione e alle sue difficoltà, con la preoccupazione di non perdere nessuno, neanche chi ha imbracciato il fucile e combatte con la Resistenza. Anzi, alcuni si prodigano a fianco dei combattenti e subiscono il