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La casa della domenica
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La casa della domenica

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Mila è una bambina dolcissima, ma anche tormentata e sola. Da quando i suoi genitori si sono separati, scaricando su di lei la loro faida senza fine, è stata travolta da un effetto a valanga di sensi di colpa, che ha destabilizzato la sua infanzia. Nella casa della domenica, dove il padre vive insieme alla sorella e dove lei è costretta ad andare ogni settimana, conosce l’umiliazione di non sentirsi amata; per sette lunghi anni sente su di sé solamente collera, disprezzo ed estraneità, chiudendosi sempre di più in un mutismo solitario. Circondata da adulti privi di tenerezze nei suoi confronti, inizia a rifugiarsi nel suo mondo ricco di colori e sfumature, circondandosi dei personaggi delle sue favole preferite, che le aprono una porta verso una vita in cui il lieto fine è ancora possibile. Le storie la curano, la prendono per mano… e così, diventata adulta, si affida al potere terapeutico della parola scritta per raccontare il suo vissuto senza provare eccessivo dolore; in questo delicato viaggio dell’anima, può accarezzare la fragile bambina che è stata, e promettere alla donna che è diventata che non smetterà mai di sognare.
LanguageItaliano
Release dateJun 29, 2021
ISBN9791280660039
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    La casa della domenica - Maddalena Della Valle

    La casa della domenica

    Mi sono immersa dentro di me senza simulare nulla; un ritorno a casa, straniera a me stessa, tra scoperta e nostalgia.

    Sono dei quadri; una verità diario a più voci, passi leggeri nell’anima.

    Il mio scopo non era pubblicare, ma solo fissare su un foglio bianco una prima bozza di confessioni per riflettere su una realtà difficile che, in prima persona, ho vissuto e che ha segnato il corso della mia vita. Poi non mi sono più fermata.

    Ho seguito, passo passo, la bambina che mi precede; le sue sofferenze, ma anche la sua saggezza. Un percorso intimo che ha chiuso le sue porte al fare propriamente cronologico della narrazione tradizionale: La casa della domenica si costruisce, infatti, attraverso piccoli passaggi, illuminazioni poetiche nelle quali una medesima situazione viene ripresa più volte e ogni volta raccontata in una prospettiva diversa.

    Un racconto cronologico, nel caso del mio vissuto sarebbe stato impossibile: i fatti da narrare, minacciati dalla mia convinzione di aver vissuto tante vite, mi avrebbero impedito di ricordare con esattezza tutto quanto accaduto.

    E oltre a un motivo dettato dalla memoria come questo, ve n’è un altro di necessità poetica: non raccontare compiutamente come in un romanzo qualsiasi, ma farlo attraverso bagliori visionari, brevi respiri che destano l’attenzione e catturano.

    Ho scritto, e vi ho messo dentro ricordi, che soffocano il presente: gli anni della mia infanzia.

    Non si tratta di una raccolta di memorie. Piuttosto di un flusso di reminiscenze che ripercorre il primo decennio della mia vita e viene attraversato, guardato e ripensato.

    Tutto viene abitato dalla nostalgia.

    In queste pagine entro ed esco dalle fiabe perché non posso uccidere la bambina che è ancora in me, lo spirito della sua infanzia mi conduce; segue il vento che muove il mondo; sorride alla goccia di rugiada che scivola sul nuovo mattino; sente l’incanto di esserci ogni giorno, mentre la vita corre.

    Rivendico con orgoglio la saggezza di quella bambina, l’essenza primordiale della sua anima, che non potrà mai perdere il desiderio di vivere col quale è arrivata nel mondo. Non tutto il libro però è dedicato alle esperienze traumatiche e negative collegate alla separazione dei miei genitori. Racconta anche momenti di vita quotidiana, di felicità semplice, una gioia piena, radicata nel profondo del mio animo che nemmeno la disperazione può oscurare. In alcuni di questi passaggi colorati di felicità, c’è il mio incontro con la poesia.

    La Poesia entra nei ricordi, abita le pagine come luce che guida. Momenti di speranza eseguono una danza tutta loro, alternati a quelli dove prevale la ragione e il rancore, seguendo un andamento mosso, ondulante, mai lineare. È il tentativo per illuminare anche dettagli estremamente dolorosi.

    Ciò che scrivo non è menzogna, né finzione. Quando si mettono a nudo le ferite della propria vita, bisogna utilizzare parole di verità. Solo la verità, soprattutto quella scomoda, è capace di portare per mano una storia dirompente, irrequieta, brulicante di anime e di errori e l’accettazione di un abbandono è possibile solo tornando alle proprie origini, a se stessi.

    In questa storia non c’è tutta la mia vita: sarebbe stato inutile rivisitare cose normali che accadono in ogni esistenza.

    Volevo raccontare che ho conosciuto e vissuto il dolore fin dal giorno del mio concepimento.

    Come accade che il tempo che abbiamo vissuto diventa la nostra vita vera? E insieme trama di storie e riflessioni che si intrecciano in un canto indissolubile attraverso la fusione della voce individuale con il coro di mille voci di un mondo di carta che ha permesso alla bambina di essere libera. La riscoperta del sogno scandita dall’angoscia dei pranzi dei giorni di festa come autobiografia impersonale immerge la mia esistenza nel flusso della memoria che, spronata da un’anima affilatissima, riesce nel prodigio di salvare la parte dolorosa di me, coniugando vita e morte nella luce abbagliante della bellezza di un’infanzia che amo nonostante tutto.

    Ci sono voluti anni per decidere di tradurre i pensieri tramite una voce che raccontasse quale microcosmo di violenza psicologica si cela dietro una separazione.

    Immersa in un impianto a struttura aperta, La casa della domenica, un titolo quanto mai anonimo, fa pensare a un weekend fuori città, un abituale fine settimana di tutto riposo, e invece rappresenta un flusso continuo verso la formazione di un confino obbligato, visto dagli occhi di una donna.

    L’io che delinea il passaggio da un quadro all’altro è testimonianza di un moto inarrestabile del cuore che sente l’inesorabile corsa del tempo.

    Scrivere queste pagine, mentre mi avvio verso la fine del giorno, significa passare costantemente per momenti di rivelazione; come la rilettura di una storia già conosciuta.

    La trama in cui si muove la doppia voce narrante rivela dettagli che a una prima lettura non erano emersi e che sono il contraltare tra un cambiamento e l’altro.

    Pian piano i confini tra il reale e l’irreale si perdono. L’infinito diventa un contorno quasi circoscritto nel piccolo spazio della casa della domenica, dove Dio rappresenta solo un simulacro ed entra di diritto in un immaginario collettivo in cui ognuno può riconoscere se stesso.

    L’io narrante cambia forma verbale, a volte evita la prima persona singolare adottando il plurale o l’impersonale, nel tentativo di ingannare il trascorrere del tempo in uno spazio, che resta sempre lo stesso e il tempo che torna al passato per poi precipitare di nuovo nel presente. E questo espediente stilistico dà forma alla mia narrazione più di quanto non faccia l’intreccio narrativo; un tempo che trascina l’esistenza come un sentimento inaridito e disfatto. L’antica immagine della vita come filo che si fa e che si disfa sottende la scrittura dei ricordi, e una domanda esistenziale ben nota trama con insistenza fra le parole: resterà di me qualcosa, infine, ancora?

    L’idea di questo viaggio a ritroso nel tempo prende le mosse da un lutto, la morte della madre, per affrontare la ricostruzione di un’identità familiare, dell’infanzia, di luoghi e abitudini, divenuti tanto più cari in quanto inaccessibili. Si tratta di un racconto autobiografico, dove le vicende personali assumono contorno e spessore proprio a confronto con la verità.

    All’interno di questa dinamica di relazione si giocano la raffigurazione del padre e della madre, protagonisti velati di cui vengono ricostruiti gli atteggiamenti e il profilo psicologico, perché è solo quando non ci si vergogna più delle proprie radici che si può scorgere il senso della propria vita.

    È una narrazione senza dialoghi e senza personaggi: compaiono sì la madre e il padre, alcune presenze più o meno significative, ma come l’io dell’autrice si insabbia in una seconda persona che emerge dal filo rosso dell’intreccio, così le persone evocate non diventano mai protagoniste, e il racconto si spoglia di ogni intenzionalità romanzesca o memoriale: cose e persone vengono descritte come se scorressero sullo stesso misterioso nastro trasportatore che è il tempo, dove tutto si livella nella distanza.

    Il libro assomiglia dunque a una raccolta di quadri, di trame fiabesche e descrizioni oniriche, che si misurano con le vicende individuali dell’autrice bambina; ricordi che non sono lanterne magiche di cui è possibile riaccendere lo splendore, ma piuttosto un dolore, un’umiliazione che la mente ha registrato e la scrittura vuole trasformare in luce.

    I pranzi nella casa del padre nei giorni delle feste comandate scandiscono un procedere temporale, man mano che ci si allontana dall’infanzia ancora legata al dramma della separazione e all’attesa delle decisioni del giudice dei minori per l’affidamento della bambina a uno dei coniugi.

    Da bambina pensavo: Da grande voglio diventare un libro. Forse avevo già intuito che la scrittura è uno dei più potenti mezzi per salvare qualcosa di quello che non saremo più.

    Volevo essere Storia dentro le storie, come un racconto narrato nudo e scalzo intorno al fuoco in una buia notte di vigilia.

    Sembra l’inizio di una storia d’inverno, cullata dalla gelata notturna.

    Ma vi sono storie e vi sono luoghi che fanno nascere storie. Questa è la mia e il luogo è quello dell’anima.

    È la storia di tre donne in una sola, quella distrutta e maledetta dall’ignoranza e dall’indifferenza, ma fiera e indomita: la madre; la bambina che racchiude la pienezza del tempo, mantenendo il filo che mi collega a un passato ormai perduto e la donna che sa vedere oltre, la visionaria, quella abitata dalla magia delle parole.

    Maddalena Della Valle

    1

    C’era una donna allo sportello, alla fine del giorno. Nella penombra si notava l’impermeabile che indossava, di foggia un po’ maschile dal colore del cuoio antico. Aveva la pazienza di chi può solo aspettare… La sua mano stringeva quella della bambina triste appoggiata al suo fianco. Sentivo di averla già incontrata. Versava tutte le sue rinunce, poi si allontanava e io la guardavo andare… Quella donna era mia madre.

    Mentre invecchio guardo attraverso me, proietto all’esterno cose che erano sommerse e quando mi accade voglio farle vivere di una loro vita di cui io sono parte. Quella bambina è ancora qui, cammina tra le macerie ed è la mia forza; devo cercare la madre prigioniera delle consuetudini e liberarla dalla schiavitù delle parole.

    Vederla mentre si allontanava mi dava quasi un senso di straniamento, la certezza di una perdita.

    Guardavo la sua bambina dalle trecce enormi che camminava stanca e allungava le braccia in attesa di un sorriso…

    La bambina si ferma, gli occhi incantati oltre una vetrina, in fondo tra gli scaffali le sorride un burattino di legno ricco di bugie. Le prendo la mano e l’accompagno tra le figure in movimento di una libreria perché confonda il suo silenzio nella danza degli alberi.

    Gli alberi erano fitti, animati di vita propria, palpitanti danzavano con la bambina, il sentiero illuminato dall’oro delle monete che il burattino aveva barattato con i sogni.

    La tristezza di Mila arrivava da lontano, portata dall’odore di giuggiole acerbe e il suo cuore batteva come gli zoccoli di mille cavalli.

    I cugini petulanti la guardavano indagatori.

    Perché era diversa?

    Perché piangeva ogni volta che arrivava?

    Perché le zie la privavano dei suoi vestitini di pizzo?

    Si rannicchiava nell’angolo più buio dell’antica cucina.

    «Picchiamola!», dicevano i più grandi, «è una piccola strega!».

    Solo Luca la issava sulle spalle e la faceva sentire una regina. Erano gli anni ’50 e io ero la bambina della domenica.

    Mi guardavo intorno: mi osservavano, parlavano, cercavano nei miei gesti quello che mi legava all’altra donna, la nemica.

    Costruivo storie di briganti e di orchi che emergevano dalle lingue del camino; erano storie d’inverno, vivevano dei riti che mangiavano i bambini.

    «Dormi! Presto! Si è levato il vento, arrivano i briganti e nel mantello nero afferrano i più cattivi».

    Non volevo dormire, nel raggio di luce che calava giù dalla finestrella in alto un pulviscolo festoso rallegrava la mia malinconia. Era il mio libro senza parole. Non c’erano libri nella casa di mio padre; nella famiglia le donne non curavano la lettura, ricamavano, cucivano, facevano il pane.

    Solo per zio Nicò leggere era un dono raro. Nelle sere lunghe e piovose i suoi romanzi illuminavano l’inverno e i fantasmi di Violetta, Tosca, Anna Karenina facevano rivivere l’amore.

    Ero la bambina della domenica, tenermi lì era solo un puntiglio, nessuno mi voleva veramente. Accanto alla bocca del forno c’era la madia, la pasta morbida filava dalle mani della zia, c’erano focacce per tutti, ma non trovavo la mia.

    Mio padre parlava poco, solo per ricordarmi che ero una sua proprietà e per dire: «Quella donna è una saputella, non vale niente, tu devi vivere con me».

    Il pomeriggio della domenica nel vecchio campo sportivo si giocava la partita. Era un’altra ferita: mio padre mi teneva sulla canna della bici Umberto Dei anni ’50 e ogni volta la solita frase: «Non guardare tua madre!».

    Io obbedivo.

    E per me si ripeteva l’angoscia dei sensi di colpa e la paura di quel silenzio profondo che avrei trovato al ritorno.

    Non siamo nati con l’intenzione di essere buoni. Da bambini controlliamo solo i nostri atteggiamenti, senza averne coscienza. Il controllo diventa consapevole solo quando siamo in grado di introiettarlo e farlo nostro, quando proviamo quella fitta nell’anima che si chiama senso di colpa. Avevo quasi cinque anni, quando cominciò a venir fuori la coscienza, un Super-Io, quando i non puoi e i non devi, che prima erano voci che giungevano da fuori, diventarono moniti interni.

    «Non devi guardare tua madre!».

    Non la guardavo, ma il mio senso di colpa esigeva un prezzo troppo alto.

    Era il tempo della solitudine; dietro le tende gli occhi di mia madre guardavano il vuoto.

    Mia madre, un fantasma nella sua casa, lucida di disperazione, fotografia color seppia di un giorno d’estate, sedeva controluce nella stanza abitata solo dal suo silenzio come l’antro di un’antica vestale.

    Non era questa la madre che amavo

    Ero una bambina tormentata e sola. Quando mi riportavano a casa mi lasciavano sulla porta; io mi liberavo di tutto quello che avevo mangiato, era la mia richiesta di perdono a mia madre, come il gatto porta la preda al padrone, un trofeo in segno di riverenza. Tutti cresciamo sotto lo sguardo di qualcuno e siamo tutti affamati di approvazione.

    Mia madre non mi coccolava, non mi accarezzava i capelli; ero stata cattiva, tornavo dalla casa che era stata il suo inferno e in quell’inferno ero stata felice senza di lei.

    Avevo di me l’immagine di un essere poco amabile che deve tenersi a distanza anche se desidera essere confortato e amato. E allora correvo dal mio cavallino a dondolo, gli salivo in groppa e mi dondolavo per ore aggrappata alla sua criniera fino a quando mi addormentavo. Solo allora mia madre mi baciava perché non potevo vedere la sua tenerezza.

    Poi arrivava la notte tra le palpebre pesanti e l’incubo ricorrente: lontano nasceva come un rullo di tamburi e la casa vibrava, poi diventava un boato e si avvicinava veloce, una mandria di cavalli neri travolgeva nel galoppo potente un tenero puledrino. Mi svegliavo madida di sudore, quel puledrino ero io.

    2

    Mi chiedo da chi o da cosa sono stata salvata.

    Ora lo so, le cicatrici sono degli eroi: gli antichi prima di una battaglia schieravano i guerrieri che avevano più cicatrici perché erano quelli che mettevano paura al nemico. Le cicatrici raccontavano che essi avevano combattuto molte battaglie, e nessuno mai era riuscito a sconfiggerli.

    Le cicatrici delle sofferenze sono salvifiche: chi è stato già ferito non può più perdere nulla.

    Ogni giorno questa storia continua a stupirmi, il dolore antico è una porta aperta verso l’universo, si muove come attraverso gli archi dell’antro cumano a cercare i responsi e le parole, i silenzi, le voci la risucchiano in un vortice. La luce è ancora lontana.

    Mi è sempre piaciuto scrivere di me, come una forma di terapia; rivisitando la mia anima, cercandomi, rincorrendo la bambina che sono stata potevo curare le mie ferite. Non sono guarita mai completamente, ogni sofferenza ha riportato in superficie il mio disagio, non sarò mai invulnerabile, ma ho imparato qual è la chiave per entrare nel mio infinito: il valore del ricordo ed è questo che mi ha salvata.

    Nella solitudine che mi circondava la parola

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