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Il figlio della palude
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Il figlio della palude

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Ciascuna storia di famiglia può essere immaginata come il filo di un arazzo intessuto con fantasie, colori e disegni belli e complessi. E come l’arazzo, ognuno di noi è una combinazione di cultura, storia e tradizioni che ha ereditato dalla propria famiglia.
L’arazzo della famiglia Marangon attinge a un manoscritto, purtroppo andato smarrito, che il figlio del protagonista-autore ha trascritto rispettandone lo spirito originale.
Estelio Marangon, nato a Porto Tolle (Ro) nel 1920 e morto a Marina di Massa (Ms) nel 2003, è uno dei sopravvissuti del Basso Polesine, territorio che comprende il delta del fiume Po in provincia di Rovigo. Una zona in cui, negli anni a cavallo delle due guerre mondiali, era assai probabile non superare il decimo anno di vita a causa di tremende insidie come la malaria, la tbc e la gastroenterite. La disastrosa alluvione del 1951 strappò dalla terra natia migliaia di famiglie che si dispersero per quasi tutta l’Italia centro-settentrionale alla ricerca di una casa e di un lavoro. La famiglia Marangon approdò sulla riviera apuana, e precisamente a Massa.
Qui, dove la natura è più benevola, Estelio riuscì, con grande volontà e un pizzico di fortuna, a superare tanti ostacoli per raggiungere un livello sociale dignitoso e una vita serena.
LanguageItaliano
Release dateOct 1, 2021
ISBN9788832929416
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    Il figlio della palude - Estelio Marangon

    Nota del Curatore

    Gli avvenimenti narrati sono realmente accaduti.

    Il protagonista, Estelio Marangon nato a Porto Tolle (Ro) nel 1920 e morto a Marina di Massa (Ms) nel 2003, è anche l’autore di queste pagine che sono state trascritte dal figlio Ildo attingendo a un suo manoscritto, che purtroppo è andato smarrito.

    Sono stati corretti solamente errori di ortografia, di sintassi o di punteggiatura. Nell’ultima stesura sono stati riportati i nomi veri delle persone che nella versione originale comparivano cambiati per motivi di riservatezza.

    Ma ormai sono passati tanti anni e quasi tutti i protagonisti sono deceduti, e comunque non vi è nulla di riprovevole o di offensivo nella verità.

    Trascrizione eseguita in memoria di Estelio.

    Massa, 14 dicembre 2018

    Introduzione

    Queste pagine narrano la storia di uno dei sopravvissuti del Basso Polesine, territorio che comprende il delta del fiume Po in provincia di Rovigo.

    Una zona in cui, negli anni a cavallo delle due guerre mondiali, si aveva il cinquanta percento di probabilità di non superare il decimo anno di vita a causa di tremende insidie come la malaria, la tbc, la gastroenterite: tutte figlie della miseria.

    In quegli anni diverse famiglie del Basso Polesine furono trasferite nelle zone delle bonifiche del periodo mussoliniano, quali l’Agro Pontino in provincia di Latina, e questo in funzione del fatto che gli abitanti del Polesine erano considerati dei conoscitori di zone paludose e relative bonifiche.

    La disastrosa alluvione del 1951 strappò dalla terra natia migliaia di famiglie che si dispersero per quasi tutta l’Italia centro-settentrionale alla ricerca di una casa e di un lavoro.

    Una di queste famiglie approdò sulla riviera apuana, e precisamente a Massa provincia di Massa-Carrara.

    Qui, dove la natura è più benevola, il nostro protagonista riuscì, con grande volontà e un pizzico di fortuna, a superare tanti ostacoli per raggiungere un livello sociale dignitoso e una vita serena.

    Ildo Marangon

    1

    La terra natia

    Porto Tolle, pur formando uno dei maggiori comuni italiani per estensione, è un consorzio di piccoli paesi situati sulla riva destra del Po di Tolle, uno dei sette rami in cui si divide il più lungo fiume d’Italia prima di arrivare al mare.

    Ultimo lembo della Val Padana, questa terra è stata strappata al mare dal fiume che lungo i millenni ha lentamente scaricato detriti specialmente durante le tremende piene che tanta preoccupazione hanno sempre destato tra la gente che vive su queste rive.

    La tradizione vuole che il mare Adriatico prenda il nome dalla città di Adria fondata da un mitico re Adriano. Adria, un tempo importante scalo per la pesca e per il commercio, oggi dista dal mare circa quaranta chilometri.

    immagine 1

    Stemma del Comune di Porto Tolle.

    Nel 1920 il comune di Porto Tolle comprendeva principalmente paludi, dette dagli abitanti le valli, in cui regnavano incontrastate le zanzare, la malaria e la miseria. In queste valli i poveri trovavano con grande fatica il poco sostentamento appena sufficiente per sopravvivere e i ricchi vi si recavano a caccia per divertimento. Una piccola parte fertile, la campagna, coltivata a riso, grano, mais, saggina, canapa e barbabietola era di proprietà di poche famiglie di nobili che per quasi tutto l’anno risiedevano a Venezia e nelle altre città vicine. Venivano nelle loro terre all’epoca del raccolto e nella stagione della caccia quando erano accompagnati da una moltitudine di servi, cani e amici.

    Il nome di molti paesi reca ancora testimonianza dei loro antichi signori: Ca’ Tiepolo, che diventò poi sede del municipio di Porto Tolle, Ca’ Venier, Ca’ Zuliani, ecc. Queste frazioni e altre, come Boccasette, Scardovari, Bonelli, Polesine Camerini, Tolle, Taglio di Po, formano un comprensorio detto Basso Polesine.

    In quegli anni solo la decima parte del territorio era bonificata. Le bonifiche, consistenti essenzialmente nello scavo di canali, nella costruzione di chiuse e di impianti di sollevamento per regolare il deflusso delle acque stagnanti, venivano attuate con il contributo dello stato che allora finanziava fino al settanta per cento della spesa.

    Un proprietario per rendere coltivabile un terreno paludoso doveva presentare il preventivo di spesa, ovviamente maggiorato, e questo non solo gli permetteva di non sborsare una lira ma molto spesso di guadagnarci pure. L’appalto poi, fra i tanti concorrenti, veniva assegnato all’amico o al socio: il tutto con il beneplacito del potere centrale in modo particolare nel periodo della dittatura fascista.

    La bonifica iniziava di solito in autunno inoltrato quando i braccianti, terminati i raccolti della campagna, erano disponibili a lavorare con l’impresa fino alla ripresa dell’attività nei campi alla fine dell’inverno. Altri invece andavano alla ricerca di legna per il camino o provvedevano al taglio delle canne. I più anziani o coloro che avevano problemi di salute rimanevano intorno a casa a custodire gli animali, a fare lavoretti di manutenzione alla casa o all’orto o semplicemente a dare una mano alle donne.

    L’orario di lavoro per coloro che erano impegnati nella bonifica andava dalle otto al tocco: cinque ore al giorno, eccetto la domenica, tempo permettendo. A ogni squadra, di sette-otto uomini, veniva assegnato il cottimo: un tratto di fosso da scavare corrispondente a undici metri cubi a testa. La terra di palude è un po’ più leggera di altre ma undici metri cubi erano sempre tanti anche per un uomo sano e robusto. E non era raro che la squadra dovesse andare oltre l’orario per completare il cottimo anche solamente per recuperare interruzioni dovute a imprevisti o solamente alla pioggia. In questo caso il calcolo era presto fatto: niente cottimo, niente paga.

    I piedi fasciati di pezze dentro stivali imbottiti di paglia, occorreva grande resistenza e allenamento per scavare con i badili nel fango a volte fino alle ginocchia. La badilata di terra poteva pesare dai tre ai quattro chili e veniva sollevata fino all’altezza della spalla per lasciarla nella carriola sulla riva. La carriola di legno, inzuppata di acqua, era pesante anche vuota e spingerla sulle rampe era una fatica bestiale. La ruota cerchiata di ferro nella melma lasciava profondi solchi. Gli uomini della squadra si alternavano a scavare e a spingere la carriola a intervalli di un’ora circa.

    E questo senza tener conto che molti, solo per recarsi sul posto di lavoro, percorrevano dai quattro ai dieci chilometri a piedi attraverso la palude con la vanga sulle spalle, a tracolla un tascapane con una bottiglia d’acqua e una fetta di polenta o un boslà. [1] Solo al ritorno, quando già era calato il buio, potevano ristorarsi con un pasto caldo.

    Qualcuno, per risparmiare un po’ di tempo sugli stradoni meno dissestati, si portava dietro la bicicletta. Ma a volte era di impaccio perché occorreva caricarsela sulle spalle per attraversare i tratti melmosi e pieni di buche o per saltare un fosso.

    Pur nella fatica spossante ogni squadra formava un gruppo compatto. Il cottimo doveva essere completato a ogni costo e se succedeva che qualcuno avesse dei problemi per motivi di salute o altro i compagni provvedevano a portare avanti il lavoro anche per lui. Era una forma di mutuo soccorso che garantiva a tutti gli uomini della squadra di guadagnare la giornata.

    Ottenuta a seguito di una di queste bonifiche subito dopo la grande guerra, nel 1920 la Fraterna era una delle più vaste e importanti tenute. Era così chiamata perché di proprietà di due fratelli. In ottocento ettari di campagna dava lavoro a più di sessanta famiglie: uomini, donne, ragazzi, giovani, vecchi dall’alba al

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