La mattanza di Castelnormanno
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La mattanza di Castelnormanno - Michele Zoppardo
Capitolo I
Vito Vinciguerra sicuramente era stato un bel giovane. Adesso, a cinquantadue anni, il suo metro e ottanta di altezza era appesantito da chili di troppo e deformato da un ventre prominente e da una leggera curvatura delle spalle. Il viso, paffuto, sempre perfettamente rasato, conservava lineamenti delicati e un naso piccolo e dritto. Dei capelli, che erano stati lisci e neri, rimaneva solo una malinconica corona che, come un’inutile recinzione attorno a una piazza vuota, cingeva il cranio lucido. Sempre elegante, rigorosamente in giacca e cravatta anche d’estate, profumava di acqua di colonia di cui si cospargeva abbondantemente. In definitiva, non si poteva dire che non fosse un uomo piacente. Vedovo, senza figli, era proprietario di un negozio di abbigliamento per uomini facoltosi sito nella centralissima via Ruggero Settimo – definita il salotto di Palermo – che collega le due piazze più importanti della città, piazza Verdi e piazza Castelnuovo, dove sorgono i notissimi e ammirevoli teatri Verdi e Politeama. In ragione della sua attività, Vito conosceva tutti i notabili della città: medici, ingegneri, magistrati, notai, avvocati e via di seguito. Possedeva, inoltre, diversi appartamenti che, affittati, gli procuravano una rendita notevole. Sarebbe stato un ottimo partito per tante donne non più giovani che gli stavano dietro, facendogli chiaramente capire le loro intenzioni. Nessuna di loro però, per un motivo o per un altro, gli andava a genio. Il fatto è che a prendere un’altra donna accanto a sé gli pareva di fare uno sgarbo a quella che per tanti anni era stata la compagna della sua vita, anche se, a tre anni dalla morte della moglie, si sentiva sempre più solo. La solitudine è sì una situazione oggettiva ma è soprattutto una condizione dell’animo, amata da alcuni che sanno stare bene con se stessi, temuta da altri che ne hanno paura perché, per natura o per condizionamento psicologico, hanno necessità di condurre una vita sociale per non cadere in depressione. Vito Vinciguerra apparteneva a quest’ultima categoria di persone. Da sempre gli piaceva essere circondato da amici e parenti, frequentare luoghi animati, sentire il mondo pulsare intorno a sé e per fortuna Evelina, la moglie, aveva avuto il suo stesso modo di intendere la vita, tanto più dopo aver avuto certezza che figli non ne sarebbero mai venuti e si era ritrovata nella necessità di colmare all’esterno il vuoto che le si era creato dentro. Fino a quando la moglie era vissuta, Vito non aveva conosciuto la solitudine. Morta Evelina, le cose erano però cambiate perché Vito si era sentito a disagio a frequentare – lui rimasto uomo solo – gli amici di prima, tutti accoppiati, e di conseguenza, più per forza di cose che per scelta, si era sempre più isolato, perdendo quelle relazioni sociali che erano state il pepe della sua vita.
Durante il giorno, il negozio lo teneva impegnato ma la sera, quando rientrava nell’elegante villa liberty di Mondello, la malinconia gli piombava addosso, procurandogli un’angoscia palpabile che gli toglieva l’appetito e il piacere che prima ricavava dai mobili pregiati, dai quadri di valore, dai soprammobili di porcellana e dagli altri oggetti raffinati che impreziosivano la casa; tutte cose che ora gli apparivano tetri fantasmi di un passato sepolto. Adesso, però, la speranza di sconfiggere la solitudine Vito era tornato a coltivarla.
Da quando l’aveva conosciuta, Vinciguerra aveva perso la testa e il sonno per Assuntina Mancuso, figlia di Salvatore, detto Totò, suo muratore di fiducia, uomo onesto ma sfortunato. Era accaduto una mattina di giugno dell’anno 1976.
Salvatore si era recato a Palermo con la figlia e, transitando dalla via Ruggero Settimo, aveva pensato di fare un saluto a don Vito, con il quale aveva stretto rapporti amichevoli.
Assuntina era una gran bella ragazza di diciannove anni. Carnagione olivastra, capelli neri e lucenti, viso acqua e sapone, appena colorato da un filo di ombretto rosa sulle palpebre ornate da ciglia folte e lunghe, occhi grandi come fari, capaci di uno sguardo dolce e a un tempo inconsapevolmente malizioso, naso diritto, labbra carnose, denti bianchissimi, corpo sinuoso. Unico neo – a voler proprio trovare il pelo nell’uovo – seno un po’ scarso, ampiamente compensato, però, dalla sensualità delle gambe, generosamente esibite sotto gonne succinte che eccitavano i sensi dei maschi del liceo artistico che la ragazza frequentava, professori compresi. Salvatore, geloso della figlia come tutti i padri siciliani, non era affatto contento che Assuntina indossasse quelle gonne che coprivano solo metà delle cosce, ben consapevole che l’esibizione di quel dono della natura avrebbe suscitato commenti e apprezzamenti indecenti tra i galli
della città e specialmente tra quelli del paese. Assuntina, però, non voleva sentire ragione e asseriva che la minigonna era un capo di abbigliamento moderno che ormai quasi tutte le ragazze, e non solo, indossavano e che il padre era un uomo all’antica. Questa ribellione della figlia era stata motivo di forti litigate, di proibizioni e di punizioni e solo l’opera di persuasione, intelligente e ossessiva, messa in atto dalla moglie Giovanna, aveva finito per placare le ire di Salvatore che alla fine, seppur a malincuore, si era convinto che in fin dei conti la figlia non faceva nulla di male e che il suo era un capriccio giovanile, comune a tante ragazze della sua età.
Capitolo II
"So che l’amore è come le dighe: se lasci una breccia dove possa infiltrarsi un filo d’acqua, a poco a poco questo fa saltare le barriere. E arriva un momento in cui nessuno riesce più a controllare la forza della corrente. Se le barriere crollano, l’amore si impossessa di tutto. E non importa più ciò che è possibile o impossibile, non importa se possiamo continuare ad avere la persona amata accanto a noi: amare significa perdere il controllo."
(Paulo Coelho)
Don Vito aveva conosciuto Assuntina quando era ancora una bambina. A vedersela davanti ora, così cambiata, così donna, così bella, rimase a bocca aperta e, mentre Salvatore gli parlava, Vito non riusciva a distogliere lo sguardo dalla ragazza, come ammaliato da quegli occhi scuri e, anche se si vergognava un po’ ad ammetterlo, da quelle gambe così provocanti e, mentre il muratore parlava, lui non aveva occhi che per Assuntina e pensava che quella ragazza voleva rivederla assolutamente. A un certo punto, don Vito notò che la ragazza si era seduta su un’elegante poltrona di pelle chiara e la corta gonnella che indossava era risalita verso l’inguine mostrando le sue mutandine bianche. Gocce di sudore gli imperlarono il cranio e la fronte; il cuore cominciò a pompare come impazzito e vampate di calore gli fecero arrossare il viso, come se fosse intento a uno sforzo immane. La ragazza sorrise, come se si fosse accorta del suo turbamento e don Vito, vergognandosene e temendo che anche Salvatore potesse notarlo, cercò di dissimulare e, interrompendo il muratore del cui discorso non aveva capito una parola: «Mih! Ma che caldo che fa oggi!» esclamò, asciugandosi il sudore con un fazzoletto di seta con il quale prese poi a sventolarsi. «Senti Assuntina» aggiunse, dando corpo a un’idea che gli era nel frattempo balenata, «io qua in negozio ho già due commessi, ma mi piacerebbe averci pure una femmina, perché coi clienti le ragazze ci sanno fare meglio; hanno modi più aggraziati e un mascolo, quando vede una bella ragazza come a te, diventa più docile, più… diciamo così… arrendevole e finisce che accatta pure quello che non aveva intenzione di accattare. Che ne diresti di venire a travagghiare qua da me?»
«Ma Assuntina ancora a scuola va! E l’anno prossimo, se il Signore vuole, si deve diplomare» intervenne Salvatore.
«Ma la scuola ora è finita. La picciotta potrebbe travagghiare qua in questi mesi estivi, così si guadagna qualche cosa, perché i piccioli ai picciotti ci fanno comodo; non è che possono sempre ricorrere alla sacchetta di papà. E poi, il mio negozio è frequentato da persone importanti, lo sai macari tu; si possono fare conoscenze che un giorno possono tornare utili.»
«Dai pa’, io ci verrei volentieri; tanto, andare al mare a me non mi piace e nella casa in campagna dove passiamo le estati mi annoio.»
«Salvatò, lo vedi che tua figlia contenta sarebbe? E dì di sì, non fare il padre geloso e all’antica.»
Salvatore, alla fine, dette il suo consenso. Don Vito, andati via il muratore e Assuntina, dovette andare in bagno a sciacquarsi il viso con l’acqua fresca, per riprendersi da quell’inaspettato rimescolamento che la ragazza gli aveva procurato e si sentì felice, per la risposta positiva che la sua proposta aveva ricevuto, come un quindicenne che ha invitato al cinema o a ballare la ragazza che gli piace e si sente rispondere di sì. Riflettendoci più tardi, a mente fresca, si chiese se fosse normale per un uomo della sua età emozionarsi così tanto davanti ad una ragazza che avrebbe potuto essere sua figlia. Si guardò attentamente allo specchio, che gli confermò che il tempo non aveva ancora affondato i propri artigli devastanti sul suo viso, che non aveva una ruga. E perché no?
si rispose. In fin dei conti, lei mia figlia non è e io sempre un uomo sono e il sangue sempre caldo ce l’ho; non è che ho novant’anni!
Assuntina cominciò a lavorare per don Vito, con una retribuzione allettante. Inoltre, mentre Vinciguerra pretendeva che i due commessi vestissero rigorosamente in abito grigio con giacca e cravatta, lasciò Assuntina libera di continuare a indossare le sue minigonne e le sue magliette scollate. La vicinanza quotidiana con la ragazza divenne per lui il sale della sua esistenza. Assuntina, sempre sorridente, con la sua bellezza sensuale e con la grazia dei modi, lo ammaliava sempre più e non solo lui, visto che i clienti, dopo la sua assunzione, erano aumentati di numero. Sempre più erano coloro che chiedevano espressamente di essere serviti da lei, che si mostrava carina con tutti ma decisa nel respingere le avance dei più esuberanti e nel rimandare al mittente i complimenti più spinti, dando prova di essere una ragazza seria, nonostante le apparenze potessero far supporre il contrario. Vito si beava della sua vista; la osservava senza darlo a vedere; si inebriava del profumo della sua pelle quando la ragazza gli stava accanto, e pensava che non avrebbe più potuto fare a meno di quella presenza che gli riempiva gli occhi, gli scaldava il cuore, risvegliava desideri sopiti e popolava i suoi sogni notturni, scacciando i fantasmi della depressione. Nello stesso tempo, però, sperimentava sulla sua persona gli effetti del supplizio di Tantalo che, affamato e assetato, non poteva godere di quell’appetitosa frutta né di quella bell’acqua fresca che aveva davanti, così come lui non poteva godere dell’avvenenza e della freschezza di quella ragazza che avrebbe voluto tenere tra le braccia, accarezzare, baciare, ma che si doveva limitare a guardare. Certo, avrebbe potuto parlarle, dirle quali erano le sue intenzioni, ma si diceva che Assuntina era troppo giovane e che sarebbe stato più corretto dichiararsi ai suoi genitori piuttosto che a lei direttamente, anche per sgombrare il campo da equivoci imbarazzanti. La verità è che temeva un rifiuto da parte della ragazza e pensava che un’opera di persuasione messa in atto dai genitori, che sicuramente meglio di lei avrebbero compreso i vantaggi della situazione, potesse giovargli per il raggiungimento del suo scopo.
Quando quell’estate, per lui meravigliosa e tormentata a un tempo, volgeva al termine, Vito cominciò a pensare con scoramento che presto Assuntina sarebbe dovuta tornare a scuola e questo pensiero gli toglieva il respiro, perché quella ragazza gli era oramai essenziale come l’aria, tanto che, per non privarsi della sua presenza, non aveva neanche voluto chiudere il negozio per le ferie estive, come soleva fare tutti gli anni nella settimana del Ferragosto, ed era rimasto l’unico aperto nel deserto arroventato della via Ruggero Settimo.
Capitolo III
L’amore è cieco e gli amanti non possono vedere le piacevoli follie che essi commettono.
(William Shakespeare)
Il giorno paventato arrivò alla fine di agosto. Assuntina disse a don Vito che aveva bisogno di un po’ di riposo prima che riaprissero le scuole e, di conseguenza, non si sarebbe più presentata al lavoro.
Non vederla nelle prime due settimane di settembre fu per don Vito come non vedere più il sole e sprofondare in una notte senza fine. Le giornate si succedevano vuote e senza più interesse; gli era passato l’appetito; dormiva poco e male e si svegliava con quella sensazione di terrore infinito che potrebbe avvertire chi, soffrendo di claustrofobia, si ritrovasse rinchiuso in una bara sigillata. Assuntina era l’ossigeno che rende l’aria respirabile, la linfa che dà energia, la ragione e la gioia della sua vita.
Alla fine, don Vito decise che non poteva più andare avanti a quel modo e che doveva risolversi a mettere in atto il proposito che gli frullava in mente. Sta picciotta mi piace assai e io non ci posso più stare solo
pensava. Vero è che potrebbe essere mia figlia; ma quanti uomini ci sono che si sposano con femmine assai più giovani? Vero è che tutti dicono che quando c’è troppa differenza d’età c’è elevato rischio di corna, ma perché le femmine i mariti giovani non li incornano lo stesso? E perché, non è vero che certi uomini che hanno le mogli belle le incornano macari con le buttane? Non è un fatto di età; è che l’infedeltà dipende dalle aspettative che l’uomo o la donna hanno quando si maritano e dall’insoddisfazione che ne deriva quando queste aspettative non trovano realizzazione. E io, i desideri di Assuntina tutti li esaudirei e mai le darei modo di lamentarsi di me. E dopotutto, se me la maritassi, farei la fortuna sua e della sua famiglia. Vero è che picciotto non sono più e non posso sperare in un amore travolgente e appassionato né ci posso dare divertimenti e sesso sfrenato ma sono sempre un uomo serio, piacente e vigoroso. Ho una posizione invidiabile e ci posso dare cose ben più concrete, come un nome rispettato, l’agiatezza e la certezza del domani; tutte cose ca un picciutteddu di oggi, debosciato, capellone, arraggiato col mondo intero, non ci può dare e, se vuole avere dei figli, pure quelli ci posso dare ancora. Non è che ho chiuso bottega. Tutto avrebbero da guadagnare Assuntina e la sua famiglia, se me la maritassi. E Salvatore che mi può dire di no? Che è uno scimunito che rifiuta una fortuna simile? Certo, bisogna vedere se la picciotta accetterebbe, ma sta al padre e alla madre persuaderla, farci capire che la giovinezza e la bellezza sono cose che passano in fretta come la passione amorosa e che, invece, la serietà, la posizione sociale, le doti morali di un cristiano, l’affetto, la stabilità economica sono beni durevoli che il tempo non disperde come fa il vento con le foglie. Domani questa decisione ce la comunico pure a mia sorella Franca; voglio sentire che ne pensa.
«E che ne debbo pensare, Vituzzu?» gli rispose Franca, la sorella più grande di circa dieci anni, nubile, benestante al pari di lui, che era stata per Vito una seconda madre. «Che sei un picciriddu? Penso che hai valutato bene la cosa e se hai deciso così non è che posso essere io a farti canciare idea. Ti dico solo: ci hai pensato che chi vi vede insieme e non vi conosce potrebbe scanciarvi per padre e figlia? Sicuro sei che questa picciotta accussì giovane può condividere i tuoi interessi, adattarsi al tuo modo di vivere, essere una buona femmina di casa e una buona matre per i tuoi figli? Sicuro sei che, se ti dovesse dire di sì, lo farebbe perché ti vuole bene e non per i tuoi piccioli? Se ti rispondi di sì a queste domande, allora maritatela.»
Rafforzato nel suo proposito da quello che ritenne il benestare della sorella, Vito invitò Salvatore Mancuso a raggiungerlo presso il suo negozio il pomeriggio seguente, affermando di voler affrontare con lui un discorso serio.
Salvatore Mancuso era stato a lungo sotto padrone, arrotondando il salario con lavori in proprio