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America non torna più
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America non torna più

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About this ebook

Un padre e un figlio. Un confronto complicato, sempre. Specie quando tuo padre sembra disapprovare tutto di te, la voglia di divertirti, l’impegno che non riesce a superare una certa soglia, i sogni che non sono supportati dalla vocazione al sacrificio. Eppure i suoi racconti di giovinezza parlano di notti brave, di avventure, di amici dai soprannomi indimenticabili, Godzilla, Karate, America. Già, che fine ha fatto America? Se le domande sono scomode, più dolorose ancora sanno essere le risposte. E rimangono lì, a morire sulle labbra, salvo riemergere a ogni traguardo della vita, a ogni sguardo verso il passato, a ogni prospettiva di futuro.

Giulio Perrone per la prima volta abbandona il genere a favore di un romanzo autobiografico, duro e commovente, che racconta il rapporto tra un padre e un figlio, dai primi agli ultimi giorni, quelli di una malattia crudele come le parole rimaste in sospeso. Un rapporto fatto anche di silenzi, incomprensioni, sfide ed emulazioni, differenze e somiglianze, inevitabili e attese, e di amore. Scritto in una lingua esatta ed elegante, ricco di scene indimenticabili e capaci di puntare al cuore del lettore, America non torna più è un libro bellissimo e universale.
LanguageItaliano
Release dateSep 16, 2021
ISBN9788830530577
America non torna più
Author

Giulio Perrone

Giulio Perrone vive a Roma, dove nel 2005 ha fondato la casa editrice che porta il suo nome. Nel 2015 ha pubblicato, per Rizzoli, i romanzi L’esatto contrario (2015) e Consigli pratici per uccidere mia suocera (2017). Collabora con l’Università La Sapienza di Roma.

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    America non torna più - Giulio Perrone

    AMERICA NON TORNA PIÙ

    Se tutte le storie che mi ha raccontato mio padre fossero vere, sarei il figlio di Hemingway.

    Crederci è dipeso da me.

    Di certo avremmo potuto trovare altre strade per avvicinarci. Un problema che mi sarei posto più avanti e di cui al momento, mentre gli rado la guancia sinistra, non posso aver contezza.

    «Cerca di essere preciso.»

    Le parole escono non troppo severe né troppo caute. Ma ogni volta che tentenno si irrigidisce, i gomiti leggermente più bianchi quando prova a issarsi sul lavandino.

    Centottantacinque centimetri e centodieci chili in equilibrio precario.

    «Faccio del mio meglio» rispondo, passando alla guancia destra.

    Nell’inconsapevolezza che ostenta, forse per non lasciarsi andare al destino, percepisco una fragilità sconosciuta.

    Se ci fermassimo per un secondo a guardare le facce riflesse nello specchio, cosa troveremmo?

    Nel nostro rapporto dinamico di botta e risposta e discussioni accese, di giornate passate a incontrarci spesso ma tangenzialmente, non è previsto indugiare sui sentimenti, gli orizzonti, le paure.

    «Voglio essere a posto, oggi pomeriggio arrivano tutti.»

    Non arriveranno tutti nello stesso giorno, ma è vero, l’incontro ci sarà.

    La riunione di famiglia.

    Non solo il fratellastro che vive a Roma, anche la sorella milanese e il messicano, che ha deciso di attraversare l’oceano e riabbracciarlo.

    Nessun sospetto?

    Non ne vuole avere.

    Come avesse scelto di rinunciare al senso pratico che lo ha sempre contraddistinto per credere alla pantomima che ci vede recitare ciascuno il proprio ruolo.

    «Manca un bel po’, abbiamo tempo.»

    Mi rendo conto di aver appena pronunciato una frase vuota, ma non ho niente di meglio da condividere.

    In compenso ho quasi finito di raderlo.

    «Chissà come sarà cresciuta la figlia di Renato da quando l’ho battezzata» dice passandosi la mano prima su una guancia, poi sull’altra. «Buon lavoro» commenta.

    Avverto quel hai fatto metà del tuo dovere che mi toccava quando tornavo da scuola con un buon voto.

    La strategia dell’eccellenza.

    «Dovrebbe esserci solo la moglie» commento a voce alta, anche se voleva essere giusto un pensiero.

    Non è un viaggio di piacere. Ha dovuto prendere i biglietti all’ultimo momento e non potevano certo spostarsi tutti.

    «Peccato…»

    Negli occhi azzurri, oggi quasi glaciali, passa un lampo di insofferenza, che svanisce quasi subito.

    «Quando è venuto, a sedici anni, parlava poco. Lo sai che me lo sono portato allo stadio…»

    Gli scappa da ridere, ma una fitta secca al costato smorza ogni voglia di fare conversazione.

    Sarebbe così rassicurante uscirne come abbiamo sempre fatto, senza ripercussioni nel fragile equilibrio del nostro rapporto. Ascoltare un aneddoto per l’ennesima volta, e magari scoprire qualche dettaglio smarrito, o inventato sul momento per una nuova edizione del passato.

    Ricordi come possibili raccolte di racconti.

    Così indissolubilmente legati tra loro che ci si può trovare a parlare di Godzilla o del Verme, di quando Karate ha litigato in un cinema, o della fila fuori al concerto dei Beatles a Roma, magari anche di America.

    E, a quel punto, soffermarmi come sempre su quell’esperienza collettiva in cui ciascun personaggio vive del contributo di tutti, ma può comunque uscirne di soppiatto senza che si perda l’armonia della storia.

    America, appunto.

    La mente corre a quel nome. Inevitabilmente, visto che fra tutti è il compagno di cui parla con più riluttanza. Chiedersi per l’ennesima volta cosa abbia rappresentato davvero per mio padre quel ragazzo così diverso dagli altri. Così distante da ciò che unisce tutti loro. Imprevedibile. Almeno per come mi è stato descritto.

    «C’era anche America?» chiedo a bruciapelo.

    «Non so… non ricordo.»

    Sento un improvviso senso di sconforto nelle sue parole. La brillantezza di poco fa dispersa. Come se aggiungere nuovi elementi a quella storia potesse acuire il dolore che già prova.

    Nostalgia per quel periodo che ormai nei ricordi è divenuto una superficie senza increspature.

    Ma è America l’increspatura. Lui, quello che ha lasciato tutto a metà. Che forse non ha saputo superare l’irrefrenabile vitalità di quegli anni, venendone travolto.

    Per fare i quindici passi che separano il bagno dalla camera da letto impieghiamo un minuto intero. Passi lenti, per poi lasciarsi andare sul letto. E dal modo in cui poggia la testa sul cuscino, intuisco che vuole essere lasciato solo.

    Faccio per alzarmi.

    «Resta» dice invece.

    Mi sdraio di fianco. Non riesco a ricordare l’ultima volta in cui l’abbiamo fatto.

    Forse America è l’amico di cui si invidia l’intraprendenza o la faccia tosta, chi incarna ciò che non saremo mai.

    Il silenzio si trasforma in ansia, così provo a giocare di anticipo: «Ti ho chiesto di America perché non ho mai capito che fine abbia fatto…».

    Insisto, sperando che ne esca qualche ricordo spassoso di adolescenza vissuta senza regole.

    «America non torna più» risponde secco.

    Poi mi stringe una mano con decisione (vedo una lacrima che dall’occhio sinistro non sa ancora che strada prendere).

    Spero riesca a trattenerla.

    «ABBADA CHE TE TOCCHEMO»

    Al tuo fianco gli amici di sempre. Diego e Fabrizio. Negli anni cambieranno solo i soprannomi.

    Oggi siete O’Brian, O’Reilly e O’Connor, per un film visto pochi giorni prima.

    Sentite il coraggio che conferiscono quei nomi e siete pronti a combattere contro gli avversari, schierati di fronte come un esercito nemico che vi rimanda lo sguardo fiero.

    Soprattutto i gemelli Caramone.

    Sono di un palmo più alti di te e peseranno non meno di sessanta chili ciascuno.

    Non sembra possano avere dodici anni.

    «Secondo me c’hanno pure i peli, quelli…» aveva detto O’Reilly.

    Te li ricordi bene, i Caramone.

    Dieci giorni prima, nella sfida persa, te l’hanno detto chiaramente.

    Azione di rimessa veloce, sei sgusciato tra l’uno e l’altro e poi hai infilato di soppiatto il portiere.

    Mentre tornavi verso il centro del campo uno dei due ti ha bloccato e guardandoti dritto negli occhi ha detto: «Nove ’n ce fa più, abbada che te tocchemo».

    Hanno mantenuto la promessa.

    E ora, mentre li osservi, senti che la caviglia destra ha ripreso a pulsare.

    Forse sarebbe il caso di lasciar perdere.

    Le mani sui fianchi al centro di quello che dovrebbe essere il campo, uno spazio tondo di terra battuta con porte ricavate tra due tronchi mozzati, più o meno a quaranta metri l’una dall’altra.

    La sfida si giocherà qui.

    Manca solo il pallone, ma dicono stia arrivando.

    Dentro avverti quel senso di responsabilità che viene dallo straccio bianco ricavato da una vecchia maglietta su cui avete impresso con un pennarello nero la scritta: Capitano.

    Te l’hanno stretto al braccio sotto casa e mentre camminavate non si è parlato d’altro.

    Vincere.

    In ballo c’è il controllo della zona centrale del parco, in cui si gioca non solo a calcio ma a qualsiasi altro gioco abbia senso in un luogo del genere.

    «Ma questo pallone, allora?» chiedi con l’ansia che proverai anni dopo quando tenterai di baciare – dopo un gelato a Villa Borghese – quella che diventerà la donna della tua vita.

    «Tranquillo, mo’ arriva er Feto col cuoio» dice il terzo della squadra avversaria.

    I Caramone di solito non parlano e lasciano tutto in mano ai loro scagnozzi, come er Feto.

    Avverti un pizzico di dispiacere per quel bambino talmente brutto da essersi meritato un soprannome simile, ma non hai tempo per la compassione. In gioco c’è la cosa più importante della tua vita, così come l’hai conosciuta fino a quel momento.

    Ma eccolo arrivare. Corre all’impazzata e pochi secondi dopo aver poggiato il pallone al centro, col fiatone, capite il perché.

    «Giàààààà…» Una voce di donna arriva da lontano e potrebbe essere lei. Anche se il tono è diverso, anche se l’accento non la ricorda troppo.

    Non può essere lei. Impossibile.

    Ti colpisce però il brivido provato. Forse col tempo imparerai a conoscere la voce di tuo padre, che sta tornando dal Messico con in regalo un fratello nuovo di zecca. Stavolta torna per portarti via e non vuoi pensarci.

    «Mamma, devo giocare…» protesta il ragazzino, mentre viene portato via di peso.

    Piange, ma ha fatto il suo. Il pallone è sotto il piede di uno dei gemelli.

    Fai un lungo respiro. Siete pronti.

    Tutta la pressione ti si schiaccia addosso e appesantisce la maglietta rossa ormai stinta con il numero appuntato sopra. Il 9. Te la ricordi mentre cuciva la tua e quella degli altri.

    «Sarete bellissimi» aveva detto, e quasi non distingui più le sfumature della sua voce.

    Gonfi di nuovo il petto. La paura è scomparsa. Lo sguardo dei gemelli non ti respinge come prima, così pensi che nella vita, in fondo, si può superare tutto.

    Anche la solitudine.

    MASSIMILIANO, NO GIULIO CESARE

    Per un minuto, forse due, ho rischiato di chiamarmi Massimiliano. Mia madre, che ha una visione approssimativa del cinema e dello scorrere del tempo, per anni ha sostenuto che lei e mio padre avevano cambiato idea per via del finale di Ricomincio da tre.

    Massimiliano viene scostumato, meglio Ugo. Questo il famoso assunto.

    Il film di Massimo Troisi uscì nel 1981.

    Io sono nato nel 1977.

    Dettagli.

    La realtà è che il mio nome fu al centro di una vera questione di Stato.

    Mia madre propendeva per Massimiliano, appunto, ma avrebbe preso in considerazione anche Riccardo, dato che nella famiglia di mio padre ce n’erano diversi.

    Tutti militari, peraltro.

    A distanza si piazzavano Leo – mio nonno materno – e Nello – mio zio materno –, con l’ipotesi di una terribile crasi, Leonello.

    Ma la partita vera si giocò sul nome di mio nonno paterno, Giulio Cesare Perrone.

    Se gli altri nomi presentavano problemi oggettivi, figuriamoci cosa poteva significare, a Roma, chiamarsi Giulio Cesare.

    Niente da dire su nonno, che non ho conosciuto, se non attraverso i racconti quotidiani di mio padre. La Seconda guerra mondiale in Africa, la vita tra Messico e Stati Uniti, dove si era trasferito per lavorare come produttore cinematografico, la passione per la Roma di Fulvio Bernardini e Ferraris IV.

    Mio padre aveva una venerazione profonda per quest’uomo, che in fondo anche lui aveva conosciuto a malapena, visto il poco tempo passato insieme.

    Giulio Cesare aveva effettivamente combattuto nella sfortunata campagna d’Africa e si era

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