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Storielle vere di una lunga vita
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Storielle vere di una lunga vita

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Alfredo J. Uccelli racconta alcuni episodi del suo intenso percorso di vita, a cominciare dal ritorno a casa nel 1946, dopo anni di guerra, di prigionia a El Alamein e di collaborazione con l’amministrazione militare inglese. Il rientro dai deserti africani alla ridente Liguria è scandito da aneddoti che sfidano ancora una volta la sua resistenza, ma al contempo rivelano la sua caparbietà. Dopo la calorosa accoglienza ricevuta dalla famiglia, Alfredo è pronto a ripartire alla ricerca di un impiego che possa rendere giustizia alle sue doti di traduttore, stenografo e persona affidabile, per cui si è già aggiudicato diverse attestazioni di stima. Dopo alcuni imprevisti, l’occasione promettente si presenta e Alfredo sviluppa una carriera all’interno di una grande azienda, acquisendo man mano maggiori poteri. 
C’è spazio anche per l’amore, quello che lui identifica negli occhi marroni di Ninny, la donna con cui è complice, che sarà sua moglie e poi madre dell’adorata figlia Lella. Per conquistarla, Alfredo si batte contro le titubanze del suocero, che inizialmente teme, fino a scoprirne la generosità e a soffrirne la perdita. L’autore ci accompagna alla scoperta del suo mondo con una narrazione scorrevole che mette in luce gli aspetti salienti del vivere: agire con determinazione, costruire la propria fortezza e dare valore ai sentimenti.

Alfredo J. Uccelli nasce a Buenos Aires nel 1922 da genitori italiani, successivamente rientrati in Italia. Nel 1940 si arruola nell’esercito, partecipa alla campagna di Jugoslavia e alle operazioni sul fronte dell’Africa settentrionale. Fatto prigioniero dagli inglesi a El Alamein, rientra in Italia soltanto nel 1946. Riveste per molti anni posizioni di responsabilità presso una grande industria italiana. Nel 1952 si sposa con Maria Antonietta, da lui e dai più intimi chiamata Ninny, e trascorrono insieme moltissimi anni felici fra lavoro, vita quotidiana, amici, viaggi, feste e corse in motocicletta. Ne 1958 arriva Raffaella, l’unica figlia. Il tempo continua a scorrere portando con sé successi, incontri, gioie e dolori. Ora, non lontanissimo dal traguardo dei suoi primi novantanove anni, trascorre il tempo leggendo, incontrando qualche amico, andando un po’ in giro con la figlia e rievocando spesso con il pensiero, ma talvolta anche con la penna, tanti avvenimenti indimenticabili vissuti nel corso di una lunga vita.
LanguageItaliano
Release dateMay 30, 2021
ISBN9788830643956
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    Storielle vere di una lunga vita - Alfredo J. Uccelli

    cover01.jpg

    Alfredo J. Uccelli

    Storielle vere

    di una lunga vita

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3796-2

    I edizione maggio 2021

    Finito di stampare nel mese di maggio 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Storielle vere di una lunga vita

    Dedico questo lavoro a mia moglie Ninny,

    a cui devo tanti anni felici e la nostra carissima Lella.

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile:

    Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere.

    Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.»

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Capitolo primo

    RITORNO AI PATRII LIDI

    Spero che mi perdonerete se come prima portata di questa mia rimembranza vi sottoporrò la storia del mio ritorno a casa nel 1946, dopo anni di guerra, anni di prigionia e infine, dopo l’armistizio, anni di collaborazione con l’Amministrazione Militare Inglese, sempre trascorsi tutti nel cuore di uno stramaledetto deserto. Ma finalmente, proveniente dall’alto dei cieli per quanto affidata alle cure della posta aerea, giunse la notizia che il mio nome era incluso nella lista dei militari di prossimo rimpatrio. Tuttavia, un particolare della notizia che offuscò la mia gioia – così come quella di un centinaio di poveracci che insieme a me condividevano la vita nel deserto e che erano elencati nel magico foglio – fu che per imbarcarci per l’Italia dovevamo presentarci rapidamente al porto di Port Said in Egitto.

    Fummo di conseguenza accatastati su cinque autocarri scoperti, accompagnati da un maresciallo inglese e da un suo sergente, e si partì subito a rotta di collo, per attraversare in tempo mezza Libia e l’intero Egitto in modo da giungere a Port Said al più presto, vale a dire almeno in cinque giorni.

    Non vi racconto i particolari e le peripezie di questo viaggio che, se ricordo bene, fu portato a termine in cinque giorni e mezzo, grazie alle continue minacce del maresciallo inglese agli autisti senegalesi. Ma ricordo ancora che una volta giunti in città dovemmo seguire un continuo susseguirsi di cartelli stradali indicatori che finirono col portarci a un enorme accampamento, costituito da tende atte a contenere dieci uomini, circondate da un muro di filo spinato.

    Da un lato di quel muro, in lontananza, si poteva scorgere una parte del porto, ma ai moli visibili nessuna nave risultava attraccata. E a una mia richiesta a un sergente di marina di passaggio quello rispose che la nave alla quale eravamo destinati era la Orbita, che però non era ancora arrivata.

    Notizie successive, a cura di un maresciallo Britannico che si presentò come nostro temporaneo comandante, furono che, effettivamente, eravamo destinati all’imbarco sul piroscafo Orbita, che era in ritardo di parecchi giorni. Pertanto, avremmo dovuto organizzarci nel modo migliore per passare il tempo, tanto più che eravamo pienamente liberi di andare a zonzo per la città nelle ore diurne.

    Questo maresciallo, che per la verità parlava abbastanza bene l’Italiano, prima di lasciarci liberi di accomodarci sotto le tende ci domandò se qualcuno di noi parlasse la lingua inglese. Tuttavia, io, che in tutti quegli anni, rispondendo affermativamente in molti casi mi ero procurato un sacco di fregature, mi feci piccolo piccolo nella massa. Ma inutilmente! Infatti, almeno una trentina di mani del gruppo si alzarono a indicarmi e poi ci fu il coro: «È lui! Lui!» E allora io mi feci avanti e mi presentai al maresciallo che si rivolse a me parlando inglese: «Siete voi l’interprete del gruppo? Ma parlate bene l’inglese?» Al che risposi in inglese confermando e lui, sempre nella sua lingua, mi disse: «Allora prendete il vostro bagaglio e tornate qui vicino a me» e io eseguii.

    Quindi il maresciallo riprese a parlare in italiano al gruppo e disse: «Voi tutti, adesso, andate a prendere posto in quella fila di tende e sistematevi. Fra una mezz’ora verranno qui dei sergenti inglesi che faranno l’appello, dopodiché, se non sorgeranno difficoltà, sarete liberi di uscire dal campo, ma non dimenticate che dovrete essere tutti presenti per le ore 18 per l’appello e la cena, e poi tutti a dormire.»

    E infine si rivolse a me in inglese: «Prendete il vostro bagaglio e venite con me» disse incamminandosi verso la recinzione del campo, finché giunse a una piccola baracca in legno, proprio appoggiata al recinto di filo spinato. E in quel punto nel recinto esisteva un ampio cancello, accuratamente chiuso, che dava accesso al porto marittimo.

    Il maresciallo si avvicinò alla baracca, ne aprì la porta ed entrò facendomi segno di seguirlo. E mi trovai in un ambiente ristretto con quattro letti a castello, tavolo centrale dotato di telefono e quattro sedie. Al momento una delle sedie era occupata da un individuo che portava l’uniforme marrone dei Co-operators come me, ma quando si alzò in piedi e lo vidi in viso feci una esclamazione e allargai le braccia: avevo riconosciuto in lui il Sergente Maggiore Franco Lapenna dei Paracadutisti, con il quale avevo trascorso mesi e mesi nel POW.304, campo di prigionieri di guerra nello stramaledetto deserto egiziano. Naturalmente anche Lapenna mi riconobbe e fece rotolare la sedia in terra nella furia di abbracciarmi. E il maresciallo inglese rideva… ma smise presto di ridere e rapidamente si rivolse a noi in inglese: «Voi parlate tutti e due la mia lingua e siete anche amici e perciò lavorerete

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