Circumvesuviana
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About this ebook
Antonella Capano vive a Torino, dove lavora come docente di latino, greco e italiano. Dottore di ricerca in Letteratura greca, ha lavorato come ricercatrice presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici “Benedetto Croce” di Napoli. Durante questa esperienza, ha scoperto il fascino della città di Napoli e si è interessata alla sua vita culturale vivace e contraddittoria e ai suoi problemi sociali, che hanno ispirato il romanzo Circumvesuviana. È già autrice di alcuni saggi accademici e della raccolta di poesie Camminando su un filo di sole.
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Reviews for Circumvesuviana
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- Rating: 5 out of 5 stars5/5Scritto molto bene coinvolge e fa pensare brava l'autrice ad accompagnarti con la protagonista del romanzo.
Book preview
Circumvesuviana - Antonella Capano
Antonella Capano
Circumvesuviana
© 2021 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-0892-8
I edizione maggio 2021
Finito di stampare nel mese di maggio 2021
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Circumvesuviana
Ai miei allievi
A Stefania e a Massimo: la forza di crederci,
il coraggio di sognare, sempre.
Noi non possiamo vivere di affetti per cose o persone:
dobbiamo amare e legarci, ma dobbiamo essere pronti a distaccarci senza cadere. E, per non cadere, non c'è altro modo che svolgere in sé il senso dei doveri verso la vita
– Benedetto Croce
I
"Ancora la nebbia. Quella coltre omertosa, spessa e palpabile che nasconde le forme nel nulla e ottunde i sensi, imbalsamando i corpi in un apatico sopore senza tempo.
E i giorni trascorrono uguali l’uno all’altro, di una identità precisa come l’angolo retto che incrocia le strade del Quadrilatero romano. E se una volta, con lo sguardo rapito dalle luci soffuse dei portici, interrogavi gli spazi, indovinando disegni sul futuro, all’improvviso ti trovi a non pensare più a nulla e a misurare i passi per sentire il peso dei tuoi sogni sempre più cancellati dalla foschia.
A Torino ci si dimentica ogni tanto di se stessi; non ci sono strade aperte verso i desideri, si vive sul perimetro di un bel castello, come le sentinelle. Si marcia agli ordini di un comando implicito, mai detto e a tutti noto, dentro un quadrato. Si parte da un punto, convinti di cambiare percorso, e poi – non si capisce come – si torna precisamente al punto di partenza. E così la domanda resta domanda, la tristezza tristezza, l’impotenza impotenza".
Così scriveva Viola sul suo taccuino di appunti, seduta su una panchina di pietra davanti al Po, mentre le prime luci della sera disegnavano il profilo tremulo della Gran Madre sull’acqua. Il rumore dei tram sul ponte dava un’intenzione nuova, nascosta, alle ombre che modificavano le linee della collina, del Monte dei Cappuccini, delle rive del fiume, inghiottendone parti nel buio.
E così era più facile immaginarsi di essere altrove, in un posto nuovo, sconosciuto, dove ricominciare daccapo per sentirsi veramente se stessi.
Quel venerdì di settembre per Viola finiva un’epoca, una strada, o un’identità, se è vero che ogni uomo si riconosce davvero in quello che sogna e per cui lotta ogni giorno.
Era stata all’Università. Uno dei professori con cui lavorava da anni le aveva comunicato che la sua carriera finiva lì. Così, con una frase di poche parole: «Qui non c’è più posto. Si cerchi un altro lavoro, non so, vada a insegnare». Vedendo un’espressione interrogativa e sbigottita sul volto di lei, aveva voluto aggiungere una giustificazione: «Qui la stimano e la apprezzano tutti, ma non c’è nessuno che è disposto ad aiutarla».
Si era arrabbiata, non era riuscita a controllarsi. Gli aveva detto che non poteva accettare certi discorsi a quei livelli, dove ci si fregiava ogni giorno di plasmare e diffondere il libero pensiero, e si guardava dall’alto in basso l’Italia in nome di alti ideali. Non poteva credere che nel tempio delle lettere si decidesse di interrompere la carriera di una studiosa meritevole – come lei aveva ampiamente dimostrato di essere – perché nessuna personalità importante le apriva la strada col suo nome altisonante. Bisognava finirla con quel sistema: la cultura non poteva continuare a essere un mercato in balia del miglior acquirente.
Nello sguardo di lei c’erano delusione e risentimento, la consapevolezza che gli anni passati a lavorare pazientemente e costantemente sul greco antico, i sacrifici, le soddisfazioni per il lavoro svolto, si infrangevano desolatamente contro una misera frase. Negli occhi di lui la freddezza e l’indifferenza, l’impenetrabilità di chi contempla gli effetti inesorabili della propria autorità sulla vita altrui senza volerne, o saperne, sentire gli effetti con quell’istinto di immedesimazione che si chiama responsabilità.
Viola restò impietrita, ferma davanti a lui; poi, sentendo un fiotto di pianto salirle in gola, si voltò di scatto, aprì la porta, la sbatté dietro di sé senza voltarsi e uscì piangendo.
Lanciandosi verso l’uscita del Dipartimento di Studi Antichi, si scontrò con il nuovo ricercatore, quello che avrebbe preso il suo posto. Ne aveva sentito parlare alcuni giorni prima dagli altri ricercatori, che sussurravano, come al solito, spalla a spalla sulla porta degli uffici. Si parlava del figlio di un importante Professore, allievo di un altro Grande, che avrebbe vinto un concorso fatto apposta per lui. Il concorso sarebbe stato tra due settimane. Il favorito girava fiero per il dipartimento. Lei veniva informata in anticipo della sicura sconfitta. Era chiaro che non avrebbe più partecipato, anche se quel concorso lo aspettava da sempre.
Si fermò un attimo davanti al busto in pietra di Demostene, che per quindici anni aveva salutato con uno sguardo di fiducia prima di ogni esame, prima di ogni prova, ogni volta che si sentiva stanca o sconfitta, ogni volta che aveva esultato in cuor suo per avercela fatta.
Ora lo fissò più a lungo, perché sapeva che non avrebbe più incontrato quegli occhi duri, vuoti e freddi, in cui per anni si era divertita a cercare il responso del suo futuro, come in quelli di un profeta cieco.
Spuntava già la luna dietro gli alberi, soffiava un vento freddo, un brivido le attraversò la schiena: non poteva tornare a casa così, a mani vuote; non sarebbe riuscita a svegliarsi il mattino dopo senza lo scopo che aveva guidato quindici anni di vita. Non sarebbe riuscita a guardare quel cumulo gigante di fatiche, rinunce, speranze, promesse, conquiste duramente affastellate giorno dopo giorno disfarsi così, in un attimo, nel mattino nuovo di un presente vuoto.
Le lacrime cadevano lentamente sul taccuino che teneva sulle ginocchia e sbiadivano le parole scritte in un groviglio d’inchiostro. Quando era triste, Viola scriveva. Preferiva scrivere che parlare. Perché a volte è difficile raccontare e farsi capire, perché le parole dette non sempre hanno la forza di trascinare con sé il peso di un mondo interiore, perché chi ascolta non sempre è disposto a cercare nella voce il significato profondo dei silenzi, delle pause, delle esitazioni.
A un tratto, come presa da un’insolita chiaroveggenza, si trovò a fissare l’acqua e si rese conto che le dava un senso di sollievo lo scorrere lento della corrente: scopriva che il suo dolore era insignificante in proporzione al cosmo, la vita poteva andare avanti lo stesso, poteva scorrere su quell’incidente come l’acqua sulle alghe e i rifiuti che deturpavano il letto del fiume.
Ma Viola non aveva la forza della corrente: i detriti della vita tendevano a sedimentare negli argini della sua indole generosa e troppo sensibile, fino a farla esondare di tanto in tanto, pericolosamente.
Chissà come doveva essere piacevole unirsi a quello scorrere lento, naturale, in grado di ricondurre ogni alterazione a un ordine, ogni stonatura a un’armonia... quasi inconsapevolmente si alzò, il quaderno le cadde ai piedi con il tonfo pesante delle cose inutili, in due passi raggiunse il fiume, tese un piede verso la corrente...
«Viola!». Si sentì chiamare alle spalle con un tono di secco rimprovero che la riscosse con un brivido, come da un sonno. «Ma che fai qui? È un’ora che ti cerco! Stai facendo preoccupare tutti!».
Avrebbe dovuto immaginare che Alberto l’avrebbe trovata lì, nel rifugio che fino a pochi anni prima era stato solo suo, e che condivideva con lui da quando un pomeriggio di marzo l’aveva raggiunta con una rosa tra le mani e le aveva confessato il suo amore. Si conoscevano da sempre: lui l’aveva amata fin dal primo giorno del liceo, lei gli aveva sempre voluto bene, di quel sentimento forte e indefinibile che, combinando affinità e complicità, cresce all’ombra dell’amicizia e stenta spesso a sbocciare nell’amore. Alberto era sempre stato il suo migliore amico, il suo confidente, la persona con cui riusciva a essere se stessa; quando si dichiarò, Viola sentì che non avrebbe potuto immaginare un altro uomo al suo fianco. Anche se erano molto diversi e, dagli anni del liceo, le strade che avevano intrapreso avevano distinto ancora di più i loro caratteri.
Da quando lavorava come ingegnere nell’impresa edile del padre, un’aria mista di orgoglio e sicurezza aveva aggiunto una punta di presunzione alla naturale inclinazione razionale di lui, abituato a leggere la realtà con sguardo empirico, senza mai porsi troppe domande o cercare risposte in fattori che non fossero immediatamente a portata di mano.
Viola non aveva mai certezze: amava guardare la realtà da più punti prospettici, interrogarla continuamente, scavare nell’apparenza per cercare il suo vero fondamento. La vita per lei era una continua ricerca per trovare una chiave di lettura, una strada maestra verso il senso dell’esistenza. Era una donna concreta, convinta delle sue idee, ma questo atteggiamento la esponeva al dubbio e all’incertezza e, come conseguenza, si trovava spesso ad apprezzare la vicinanza rassicurante di persone forti e sicure di sé. Alberto era una di queste: la sua convinzione incrollabile era il baluardo da cui la sensibilità di lei trovava la forza di affrontare le difficoltà con la distanza necessaria per non subirne il contraccolpo.
Appena si sentì chiamare, Viola si voltò. I suoi occhi incontrarono quelli accigliati di lui e si abbassarono subito tristi. Lui non avrebbe capito.
«Cosa ci fai qui? Non ti ricordi che stasera c’è la festa di compleanno di Giada? Sono già le sette, dobbiamo essere lì alle otto e mezza. Dai, ti accompagno a casa, così ti prepari in fretta...».
«Io non vengo» rispose lei secca, passandogli davanti senza guardarlo. Lui restò un attimo immobile con l’aria svanita di chi subisce un attacco inaspettato e tenta al contempo di capirne il motivo. Poi la raggiunse e, trattenendola per il braccio, disse: «Ma che ti prende? È per l’Università vero? Quante volte ti ho detto di lasciar perdere? Cambia lavoro, liberati di quell’ambiente!».
Non sapeva dire altro, come sempre. In fondo non le aveva mai chiesto nulla del suo lavoro, non si era mai interessato delle sue ricerche, forse non si ricordava neppure di cosa si occupava. Le aveva mostrato un po’ di curiosità solo quando a volte il suo sguardo assorto gli aveva fatto avvertire il bisogno urgente che lei provava di essere ascoltata.
Non c’era nulla da rispondere: se solo l’avesse mai capita, Alberto non avrebbe parlato con quella leggerezza.
Ora camminavano vicini, l’uno accanto all’altra, senza parlare. Lui fissava il viso triste di lei, chino a terra, senza trovare la parola giusta; allora la prese per mano. A quella tenerezza inaspettata, Viola sentì che la rabbia e l’amarezza, innescati dall’improvviso senso di colpa, reagivano in un composto inesorabile, che saliva in gola bruciando e premeva dietro agli occhi, sgorgando in spessi fiotti di lacrime.
Restarono in silenzio per tutto il percorso in auto.
Poi, appena aprirono la porta di casa, Alberto le disse a mezza voce: «Se non ti va di uscire, avviso Giada e restiamo qui, va bene?».
Lei rispose con aria distratta: «No, dai, andiamo... solo un attimo, ché mi preparo». Entrando in bagno, esaminò allo specchio il suo volto disfatto, gli occhi rossi di pianto e disse tra sé la frase che si ripeteva ogni mattina da qualche tempo: «Questa non può essere la mia vita. Queste persone non mi rappresentano. Quanto vorrei andarmene e non tornare mai più».
Quando raggiunse Alberto in salotto, lui era al telefono con Giada e, con fare ilare e scherzoso, si giustificava per il loro ritardo. Appena si accorse che Viola era dietro di lui, cambiò tono in modo repentino e atteggiò il volto a un’espressione compunta che, in netto contrasto con quella precedente, lo fece sembrare infantile. Chiuse la conversazione in modo sbrigativo, in due passi fu da Viola, le cinse la vita e, dandole un bacio lieve sul collo: «Sei sempre bellissima» sussurrò. Lei sciolse l’abbraccio di lui con un accenno di sorriso e uscirono.
Le serate a casa di Giada seguivano sempre la stessa scaletta: lei apriva la porta con un sorriso smagliante, cui l’immancabile rossetto rosso attribuiva un’aria intrigante e un po’ maliziosa, e, trascinandoli di stanza in stanza sulle note entusiaste della sua conversazione animata, mostrava loro i cimeli del suo ultimo viaggio. Alla fine del percorso c’era sempre la visita al laboratorio dove Giada dipingeva. Era uno stanzone enorme, che l’assenza assoluta di mobilio faceva sembrare grandiosa. Al centro c’era solo il cavalletto con una tela appena cominciata.