Tina Modotti hermana: Passione scandalo rivoluzione
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About this ebook
Nata a Udine nel 1896, operaia in fabbrica, emigrata negli Stati Uniti con il primo marito, il pittore francese Roubaix “Robo” de l’Abrie Richey.
Un promettente esordio a Hollywood nel film The Tiger’s Coat (1920) dove la critica ne esalta il fascino esotico.
Nel 1921 l’incontro fatale con il grande fotografo Edward Weston, di cui diviene la modella prediletta, poi l’amante e infine l’assistente.
Dopo la Los Angeles del cinema c’è il Messico della Rivoluzione.
Assieme a Weston frequenta i circoli dei muralisti, entra in contatto con Diego Rivera prima, e con Frida Kahlo poi, con la quale consuma una relazione scandalosa e appassionata.
Nel 1929 inaugura una sua personale a Città del Messico che viene definita «la prima mostra fotografica rivoluzionaria».
Poi è tempo di altri amori, di altre passioni: finisce a Mosca, viene arruolata dai servizi segreti russi.
Corre a combattere in Spagna a sostegno della Repubblica, con il suo nuovo amante, Vittorio Vidali.
Conclusa l’esperienza spagnola torna in Messico, si fa il suo nome in relazione all’assassinio di Lev Trockij.
Gli avvenimenti storici iniziano a farsi confusi, la vita accelera nella corsa al traguardo.
Il corpo senza vita viene ritrovato il 5 gennaio 1942. Aveva 46 anni.
Sulla sua lapide una poesia composta per l’occasione da Pablo Neruda inizia così: Tina Modotti hermana…
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Tina Modotti hermana - Valeria Arnaldi
Valeria Arnaldi
Tina Modotti Hermana
passione scandalo rivoluzione
immagine 1ISBN: 9788867183135
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
https://writeapp.io
INDICE
Sotto l'albero
L'America
Robo
The Tiger’s coat
Edward
Musa e modella
In viaggio
Il Messico
Il debutto
fotografico
Diego Rivera
Frida Kahlo
Xavier Guerrero
Il fascicolo Modotti
Julio Antonio Mella
L'omicidio
Vittorio Vidali
Sobre la fotografa
Per il Nicaragua
In arresto
A Berlino
A Mosca
In Spagna
L’assassinio di Andrés Nin
Riprendi la macchina fotografica
L’assassinio di Trotskij
In Messico
BIBLIOGRAFIA
Tina Modotti hermana,
no duermes no, no duermes
tal vez tu corazon
oye crecer la rosa
de ayer la ultima rosa
de ayer la nueva rosa
descansa dulcemente hermana.
Puro es tu dulce nombre
pura es tu fragil vida
de abeja sombra fuego
nieve silencio espuma
de acero linea polen
se construyo tu ferrea
tu delgada estructura
PABLO NERUDA,
epitaffio per Tina Modotti
Mi considero una fotografa,
e niente altro
Tina Modotti
Metto troppa arte nella mia vita,
e perciò, non mi rimane molto da dare alla mia arte
Tina Modotti
Sotto l'albero
Una sciarpa azzurra. Morbida, calda, elegante, perfino allegra, ma soprattutto, per definizione un accessorio
, e dunque non essendo capo portante e necessario, interpretabile come piccolo lusso. È lì forse, in una sciarpa avuta in dono a Natale, la chiave per comprendere il segreto della vita – e dell’arte – di Tina Modotti, lavoratrice indefessa, provata ma mai piegata dall’esistenza, appassionata di tutto ciò che la condizione sociale e di genere le aveva negato. Sin dall’infanzia. Quella sciarpa era un regalo che le aveva fatto la moglie dello zio fotografo. Un pensiero prezioso, specie in un momento storico che di lussi ne concedeva davvero pochi e facendoli pagare salati. E, ancora di più, in una situazione familiare come quella di casa Modotti: padre emigrato con la primogenita, madre malata, quattro figli più piccoli da mantenere e una – una sola – abile al lavoro, proprio Tina, divenuta improvvisamente e appena adolescente l’uomo di casa. Quella sciarpa era il suo vezzo, la prova di una femminilità negata ma non dimenticata, uno strappa-sorriso che la mattina, mentre andava in fabbrica, la riscaldava, anche nell’animo, ricordandole la sua stessa bellezza in boccio e sostenendola dunque in quel percorso duro che l’avrebbe vista tornare a sera, dopo ore di lavoro, affamata e tanto stanca da crollare subito addormentata. Già. Quella sciarpa, però, diventò presto qualcosa di più, una prova da superare e un modo per dimostrare ricchezza e generosità d’animo. Vocazione all’Altro. Tina la mise all’asta tra le sue compagne di lavoro, perché un giorno capì che dietro i complimenti si nascondeva la possibilità di fare qualcosa di concreto per i suoi cari. La sciarpa, in fondo, era solo teoria
della bellezza, pane, salame e formaggio, per due giorni, che riuscì a comprare con la sua vendita, erano pratica
, metro della vita che conduceva e che, per tradizione, spirito e reazione, avrebbe condotto poi. La sorella più piccola che ha tramandato la memoria di quel gesto, lo aveva trovato strano sul momento ma era troppo impegnata a mangiare – finalmente – qualcosa di solido e nutriente per comprendere le lacrime commosse e disperate della madre e le rassicurazioni della sorella, che spergiurava di non aver mai amato quella sciarpa, di non averla mai voluta. Nonostante non avesse capi caldi per l’inverno. Nonostante non avesse begli abiti. Nonostante fosse giovane. E potenzialmente bella. Nonostante la sua vita fosse stata sacrificata al bene comune, per una mera questione anagrafica, pagliuzza corta dell’esistenza. Nonostante ne fosse stata entusiasta quando l’aveva ricevuta in dono.
Di questa Tina generosa e servizievole non resta traccia nel mito
Modotti, passionale, irruente, battagliero, provocatore. Contro. Perché il Sistema verso cui scagliava la sua arte ne ha condannato le idee e le attività politiche, dimenticando la realtà quotidiana per privare il nemico della carne che avrebbe potuto renderne comprensibili e, magari, condivisibili le azioni. E perché, per reazione, i suoi sostenitori e ammiratori poi di quelle idee hanno fatto idealismo, trasformandola in simbolo e, per paradosso, arrivando al medesimo risultato di privarla della sua concretezza. Da un lato, dunque, Tina era l’idea da contrastare, rinnegare, distruggere. Insomma, sporcare
per la pericolosità del suo essere tentazione. Dall’altro, era l’ideale puro, il vessillo della lotta per il diritto nuovo
a essere. La bandiera, appunto. Mai una donna, sempre e sempre più velocemente, un simbolo. Non l’esempio del si può
ma l’imperativo del si deve
. Comunque e sempre, ideale, non carne. E sì che la carne
non era tema da poco nella vita di Tina, così passionale e pronta a darsi generosamente, traendo dal sangue acceso dei suoi entusiasmi la forza per fare una rivoluzione personale che poteva e voleva essere gradino di quella sociale. Un problema
che l’antisistema rivoluzionario avrebbe risolto poi, non appena avesse superato la concretezza della vita e del fascino di Tina, di cui molti, se non tutti, finivano per rimanere vittima. Merito e colpa di quella bellezza sfrontata, che aveva piegato capo e schiena fino a quando aveva dovuto, ma poi, prendendosi il lusso di pensare a se stessa, aveva scoperto la potenza
della libertà.
Assunta Adelaide Luigia Modotti, poi più semplicemente Tina, nasce a Udine, in via Pracchiuso, il 17 agosto 1896. Il padre Giuseppe Saltarini Modotti ha trentatré anni e lavora come meccanico ma, dotato di ingegno e una buona manualità, nonché voglia e necessità di fare, si presta spesso come factotum. Non è certo l’epoca in cui un lavoratore possa concedersi il lusso della specializzazione, meno che mai quello della scelta. La madre Assunta Mondini, anche lei trentatré anni, fa la cucitrice. I due si sposano tardi secondo i canoni dell’epoca, appena un anno prima di compiere trent’anni. E lo fanno di corsa. Non c’è il tempo di chiedersi se si tratti di amore, c’è l’urgenza, perfino per un uomo dai forti ideali socialisti, di mantenere dignità e onore. Assunta è incinta. Partorisce appena due mesi dopo le nozze, evidentemente, riparatrici. Il primo erede di casa Modotti è una bambina, Mercedes Margherita. E poco conta ormai se a unirli prima sia stato l’amore o solo la passione di una notte. L’errore
di un conto mal fatto li terrà insieme per sempre. Sufficientemente adulti ma probabilmente non abbastanza preparati a quel passo non preventivato, si organizzano come possono. Giuseppe fa più lavori. Assunta rimane a casa a occuparsi della bambina e poi dei fratelli che la seguiranno. Mercedes è graziosa, una bimba slanciata, dai lineamenti minuti, gli occhi scuri, alta – diventerà una delle più alte di casa – somiglia alla madre. È diversa da Tina, che sin da bambina mostra uno sguardo fiero, quasi duro, a contrasto con la rotondità del viso. Nelle foto adulte, senza trucco, quando malinconia o stanchezza prenderanno il sopravvento, anche Tina rivelerà un’evidente somiglianza con la madre. La stessa che, in fondo, si può intravedere negli scatti dell’infanzia, quando il mondo è ancora un grande interrogativo con il quale dovrà imparare a fare i conti. La giovinezza però evidenzia le linee paterne del viso. È a lui che somiglia di più, sia nell’aspetto, a partire dalla morbidezza del viso e dalla generosità del sorriso, sia nell’approccio che dimostrerà poi alla vita, per necessità più maschio
di quanto non fosse abitualmente consentito alla modestia delle donne. Tina sarà battezzata sei mesi dopo la nascita, il 27 gennaio 1897, da don Antonio Cecutti, sagrestano di Santa Maria delle Grazie. Dal certificato si evince che la madre, registrata come «incaricata dei lavori del focolare», ossia casalinga, fa i suoi lavori di cucito solo quando riesce a rubare tempo ai figli e arrangiandosi in casa. Il padrino della bimba è Antonio Bianchi, un parrucchiere. I testimoni sono Lucia Mondini, che lavora come governante, e Demetrio Canal, un calzolaio. Almeno secondo il documento. In realtà Canal è molto di più. E, soprattutto, è la causa del battesimo tardivo. È per lui che il padre decide di attendere, mettendo a rischio, se non altro agli occhi della comunità religiosa, la salvezza dell’anima della figlia. Canal è il direttore di uno dei primi giornali socialisti di Udine. È sua la benedizione
che interessa a Giuseppe perché porta con sé il benestare della comunità socialista di cui lui stesso è membro. E non si tratta probabilmente soltanto di una questione di ideologia ma anche di status, che quel testimone, significativo nel suo contesto, gli può assicurare, aprendogli altre porte lavorative. Canal è un sovversivo, inviso al Sistema, ma potente
. Poco prima della nascita di Tina ha organizzato lo sciopero in una filanda. Agli occhi dei suoi, può essere l’uomo del domani e, di certo, quello della speranza.
Tina è la terzogenita, venuta al mondo dopo Mercedes e dopo Ernesto. È con i tre bambini che i coniugi Modotti, nel 1898, si trasferiscono in Austria alla ricerca di fortuna per seguire le rotte del lavoro senza compiere – ancora – il drastico taglio con il proprio paese natale. Non era certo facile in quegli anni la vita in Italia e non lo sarebbe stata nemmeno nei successivi. Bisognava trovare modi per cavarsela. Ed emigrare era uno dei migliori. Era necessario, però, averne i mezzi e il coraggio. Giuseppe ha una moglie e tre figli a carico: non può an dare troppo lontano. Almeno per ora. E l’Austria è abbastanza vicina. Una scelta ponderata e, inizialmente, fortunata. Qui, infatti, trova lavoro in una fabbrica di biciclette. Non ha paura di tentare e improvvisarsi in un ruolo diverso da quello ricoperto fino a quel momento. D’altronde, è cresciuto in una famiglia operaia e socialista che non ha mai avuto timore di rimboccarsi le maniche. E in quegli ideali crescerà anche la sua famiglia, ancora giovane ma già numerosa. L’unico alternativo e, almeno in parte, benestante in casa Modotti è Pietro, lo zio fotografo, da cui probabilmente Tina derivò la consuetudine all’idea del mestiere, non certo alla sua pratica, che invece avrebbe conquistato con la passione. La vita in Austria non è facile. Tina riesce a frequentare solo gli anni iniziali delle scuole elementari prima di essere chiamata a farsi carico dell’intera famiglia. I coniugi Modotti vivono in condizioni di povertà riconosciuta: i bambini ricevono un sussidio per i materiali scolastici e la merenda (100 grammi di pane, 25 di formaggio, 15 di prosciutto crudo). A pochi anni dall’arrivo in Austria, Giuseppe rimane senza lavoro: la fabbrica di biciclette chiude dopo tre anni, i suoi risparmi permettono alla famiglia, ora allargata a sei figli, di andare avanti fino al 1905. Quando i soldi finiscono, capisce che non può permettersi di perdere il tempo a cercare impieghi dove non ce ne sono. È arrivato il momento di studiare nuove strategie per far vivere bene la famiglia di cui è responsabile. O forse deve solo studiare nuove rotte.
immagine 1La casa della famiglia Modotti, in via Pracchiuso, a Udine. Sulla facciata, in occasione del restauro eseguito nel 2005, l’artista Franco Del Zotto Odorico ha realizzato un bassorilievo commemorativo.
immagine 2La Famiglia Modotti nel 1920. Da sinistra: Robo, il marito di Tina, il padre Giuseppe, la sorella Mercedes, Giuseppe Junior detto Joe, un amico non identificato, Benvenuto, altra figura non identificata, Tina e la madre Assunta. Ultima, dopo un’amica, la sorella Jolanda.
immagine 3Anonimo, Ritratto della giovane Tina Modotti.
immagine 4Anonimo, Tina Modotti, San Francisco 1918 ca.
immagine 5Tina Modotti a San Francisco.
immagine 6Jane Reece, ritratto di Tina Modotti.
L'America
Rimasto senza lavoro, Giuseppe decide di tentare come molti altri, la fortuna in America. È il 1905. La famiglia torna a Udine e lui s’imbarca per gli Stati Uniti, portando con sé la figlia maggiore, Mercedes. La situazione, però, non è facile neppure in America, almeno non come aveva sperato, così i soldi che riesce a spedire in Italia sono pochi e finiscono presto. Poi, non arrivano più. Il 31 marzo 1909 Tina è costretta a lasciare la scuola: c’è bisogno di lei. Qualcuno deve lavorare per provvedere alla casa. E lei, partita Mercedes e morto ancora bambino Ernesto, si ritrova nello scomodo ruolo di figlia maggiore. Interrompe gli studi. Fino ad allora i registri documentano un buon andamento in tutte le materie, tranne in quelle femminili
. Inizia così il suo lavoro in una fabbrica tessile. Nel frattempo, il padre cerca di migliorare la sua situazione e promette alla moglie che presto si riuniranno. Una promessa che la fortuna sembra non voler assecondare. Anche in America la situazione è difficile. La prima fabbrica in cui Giuseppe trova lavoro, poco dopo il suo arrivo, viene fermata
da uno sciopero di mesi, è la sorella Yolanda a conservare i ricordi di casa e dei racconti di quegli anni fatti dal padre e dalla sorella. Poi ci fu, di una violenza inimmaginabile, il terremoto. Era il 18 aprile 1906. San Francisco fu duramente colpita e pesantemente ferita in più zone, non solo dal sisma ma più ancora dall’incendio che seguì. Furono più di tremila le vittime. Circa trecentomila persone rimasero senza casa. Un numero vertiginoso, specie se confrontato con l’ammontare complessivo degli abitanti: più o meno 400mila. San Fran cisco era distrutta. Qualche anno dopo, l’Italia era entrata in guerra. Anche per questo Giuseppe impiegherà quindici anni per mantenere il suo giuramento. Solo nel 1920 riuscirà a farsi raggiungere in America dagli altri. A Tina però chiederà di andare in America già nel 1913. Diciassettenne, la bella Tina si imbarca per l’America. Un paese sconosciuto, lontano, grande, dove l’attendono il padre e la sorella. Dove, innanzitutto, l’attende una vita differente. Arriva in America, dopo un difficile viaggio come passeggera di terza classe, partita da Trieste probabilmente su una nave slovena. Appena sbarcata, trova una situazione completamente diversa non solo da quella che stava vivendo, ma, abituata alle ristrettezze, molto distante perfino da quella che aveva immaginato. Il padre Giuseppe ha avviato un negozio di riparazioni. La sorella lavora in una fabbrica di camicie e, per arrotondare, quando può fa qualche lavoro di cucito come la mamma. La casa è modesta ma c’è un lusso impensabile per la giovanissima operaia: il telefono. E soprattutto c’è l’infinito potenziale di un orizzonte tutto da scoprire che è pure orizzonte da cui farsi scoprire. Tina intuisce subito il valore di quel taglio con il passato. Qui può essere diversa. Non è più la bambina di casa, se il padre l’ha chiamata in America. È grande. È una giovane donna ed è curiosa. Sa come imparare con lo sguardo. Lo fa sin da piccola. Giunta da poco, riesce a trovare lavoro nella stessa fabbrica in cui lavora la sorella e viene impiegata come sarta. Il suo unico obiettivo è lavorare. Lavorare per sopravvivere e per far arrivare presto gli altri membri della famiglia. Lavorare senza sosta. Ed è quel senza sosta
probabilmente a farle sperimentare nella pienezza dei loro significati le battaglie socialiste in mezzo alle quali era cresciuta, percependole senza forse comprenderle fino in fondo. Di certo, senza farne letteratura. I proclami del padre e dei suoi, in questo contesto, non sono più solo parole,