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Invictus
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Invictus

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L'epopea di Ture Di Nardo, detto "Pileri", un giovane contadino siciliano strappato alla sua famiglia e alla sua donna, dalla chiamata alle armi durante la Seconda guerra mondiale. Arruolato negli Alpini e inquadrato nella Divisione Julia, seguirà le amare sorti dell'ARMIR in quella che sarà la più grande disfatta militare italiana del XX secolo. Come un novello Ulisse, il giovane Ture Pileri, dovrà affrontare prove terribili nel lungo viaggio di ritorno verso casa.

Cristiano Parafioriti, con questo avvincente romanzo storico, riporta alla luce una storia vera, rimasta custodita nel cuore del suo protagonista per settant'anni. La forza di un uomo, sospinto dall'amore, capace di resistere e reagire alla sconfitta di una intera armata.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateAug 4, 2021
ISBN9791220350099
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    Invictus - Cristiano Parafioriti

    NOTA DELL'AUTORE

    L'amico Nino Amadore, stimato giornalista de Il Sole 24 Ore, scrisse in un suo articolo: Cristiano Parafioriti è il fondatore di una nuova corrente letteraria, il minimalismo siciliano, dove le storie di un paese e della sua gente diventano paradigma delle storie del mondo intero.

    Custodisco gelosamente questa definizione nella mia memoria e nel mio cuore, e più scrivo storie, più mi ritrovo in quelle parole. Le mie opere nascono all'interno del mio piccolo e amato paese, Galati Mamertino, borgo di montagna arroccato sui monti Nebrodi, in Sicilia. Galati è crogiolo di tanti altri minuscoli luoghi e di tante altre realtà che brillano di luce propria, ognuna con storie da raccontare, con la propria gente, con i propri miti.

    Il romanzo nasce da uno di questi angoli magici, il villaggio sperduto e ormai disabitato di San Giorgio, di cui oggi rimangono solo pochi ruderi abbandonati. Ho la recondita convinzione che certe storie, poi, ti vengano proprio a cercare. Lo scrittore vive spesso in un letargo danzante ma, d'improvviso, qualcosa lo sveglia da questo dolce errare. E così accadde che in un caldo giorno d'agosto del 2019, Salvatore Di Nardo, l'omonimo nipote del protagonista di questa storia, mi ridestò da quel mio placido riposo.

    Salvatore, detto Salvo, da anni vive a Pisa con la sua famiglia. Anch'egli, dunque, è dolcemente affetto dal morbo della sicilitudine, che ci fa essere esuli figli strappati alle nostre radici, ma sempre ancestralmente legati alla terra natia.

    Lo conosco dai tempi della banda musicale, quando ancora vivevamo entrambi al paesello. Abbiamo passato bei momenti tra concerti, risate, bevute e tanti amici. Era una vita fa.

    Quel ragazzo, per un motivo ignoto, ha sempre suscitato in me una sensazione buona, come se attorno a lui orbitassero solo cose belle. È una convinzione irrazionale che fuoriesce dal mio inconscio, talmente illogica da essere, per me, reale e nitidissima! Sono fatto così, seguo l'istinto e vivo di passioni.

    Salvo mi comunicò di voler pubblicare su Facebook, tramite la seguitissima pagina Tuttogalatimamertino, alcuni video riguardanti suo nonno, l'omonimo Salvatore di Nardo (classe 1921), alpino in Russia con l'Armir durante la Seconda guerra mondiale.

    Nino Serio, amministratore della pagina, sollevò qualche perplessità poiché il materiale era complesso e durava più di tre ore! Era una lunga intervista al nonno su quella tragica avventura, infarcita di documentari. Eppure non riuscivo a convincermi che quella vicenda potesse finire così! Era la luccicanza di quel ragazzo a non darmi pace. Avvertii improvvisamente dentro di me una tumultuosa brama di visionare quel materiale, di conoscere quella storia rimasta sepolta per quasi settant'anni.

    Quei filmati furono come una scintilla che scatena l'incendio. Il battaglio creativo si mise in moto, facendo vibrare la campana della mia anima. In me, sentii avanzare, a grandi passi, l'irrefrenabile desiderio che già avevo incontrato nel corso della mia vita e che conoscevo benissimo: scrivere.

    Chiamai Salvo Di Nardo.

    - Questa storia sarà un romanzo! - gli dissi a bruciapelo. Lui, commosso, mi rispose:

    - In cuor mio, era quello che desideravo!

    Questa opera è tratta, quindi, da una storia vera. Ciononostante alcuni personaggi, alcune organizzazioni e circostanze possono essere frutto dell'immaginazione dell'autore o, se esistenti, utilizzati a scopo narrativo.

    O quasi.

    SAGGIO INTRODUTTIVO

    LA CAMPAGNA ITALIANA DI RUSSIA DEL 1941-1943

    E LA SUA MEMORIA

    Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue bombarde¹.

    Così recita l'incipit di un celebre romanzo autobiografico, il Sergente nella neve, scritto dall'alpino Mario Rigoni Stern, destinato ben presto a divenire la più nota testimonianza, sul piano letterario, della disastrosa campagna italiana in Russia durante la Seconda guerra mondiale. Quando, nel giugno del 1941, Hitler decise di intraprendere la guerra di aggressione nei confronti dell'Unione Sovietica, facendo scattare l'operazione Barbarossa, Mussolini aveva risposto offrendo la propria disponibilità ad affiancare le truppe tedesche attraverso la costituzione di un Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir), che a metà luglio sarebbe partito per il fronte orientale agli ordini del generale Giovanni Messe. L'anno successivo, unito a nuovi corpi d'armata nell'Armir (Armata italiana in Russia), fu schierato sul Don dove non riuscì a resistere all'offensiva sovietica che, fra dicembre 1942 e gennaio 1943, lo avrebbe decimato. L'entità del disastro è tragicamente attestata dalla fredda eloquenza delle cifre: su 230 mila italiani partiti per il fronte orientale, un terzo di questi - 95 mila circa - avrebbe perduto la vita, tra caduti in combattimento, morti di stenti e di freddo nel corso della ritirata o nelle tappe di trasferimento nei campi di prigionia, tristemente note come marce del Davaj (dal termine adoperato per sollecitare il passo da parte dei soldati russi di scorta); senza dimenticare quanti perirono nel corso della stessa prigionia e l'alto numero dei dispersi.

    Un evento così funesto e gravido di conseguenze per migliaia di soldati italiani - inghiottiti dalla steppa russa, piagati dalla coriacea resistenza sovietica, oltre che dalle avverse condizioni climatiche - sia per le loro famiglie, spesso destinate a rimanere ignare della sorte dei propri congiunti, ha finito per alimentare una copiosa memorialistica, stimolata dalla volontà di dar conto di un'esperienza unica e devastante. Non a caso la campagna di Russia - come ha sottolineato la storica Maria Teresa Giusti, autrice di un pregevole volume sull'argomento - si è configurata come «uno degli eventi bellici novecenteschi di maggiore impatto sulla memoria collettiva italianas².

    Una memoria senz'altro scomoda, per un verso, se consideriamo il fatto che la campagna bellica fu pur sempre espressione della politica aggressiva mussoliniana, ma talmente dirompente per le sofferenze e le condizioni drammatiche della ritirata da rivelare la profonda disillusione nei confronti del regime, l'amara constatazione dell'impreparazione che segnò la partecipazione dei militari italiani all'impresa, cui fecero da contraltare gli indubbi atti di eroismo di quanti ebbero la fortuna di sopravvivere a quella terribile esperienza e far ritorno a casa. A questo proposito è interessante rileggere l'autorevole testimonianza di un altro reduce, Nuto Revelli, tra i primi a denunciare nei suoi scritti memorialistici le drammatiche condizioni dei soldati sul fronte russo:

    Tutto era inadatto all'ambiente. Anche la divisa, così verde, era inadatta, segnava troppo il bersaglio. Avevamo vagoni di materiale per la guerra di montagna, dai ramponi per ghiaccio alle funicelle da valanga, alle corde per roccia. Eravamo alpini, eravamo fatti per la guerra lenta, per andare a piedi. Avevamo 90 muli per ogni compagnia e 4 autocarrette in tutto il battaglione. L'armamento indivi duale consisteva nel fucile modello 1891, un'arma che per l'età aveva un pregio: non era ad avancarica. L'armamento di reparto consisteva nel fucile mitragliatore Breda, che sparava se ben pulito e ben oliato. Non dovevamo però insistere troppo con le raffiche, per evitare che la canna diventasse rossa e l'arma s'inchiodasse o sparasse da sola. Le armi d'accompagnamento - mortai brixia, mitragliatrici Breda, mortai da 81 e cannoni da 47/32 - erano in buona parte armi superate e comunque insufficienti. La nostra unica arma controcarro - il cannone da 47/32 - bucava soltanto i carri armati italiani. Contro i carri armati russi niente da fare. Le artiglierie nell'ambito divisionale consistevano in materiale da museo: il 75/13, il 100/17. Bombe a mano incredibilmente innocue e umanitarie, che non sempre scoppiavano. Mezzi di collegamento fatti per la guerra di montagna, inadatti alle grandi distanze; le vecchie bandiere a lampo di colore, gli eliografi, su quel terreno ondulato non servivano a nulla. Le poche radio, pesanti e scassate, a volte erano meno rapide dei portaordini. Niente mine, niente bengala, niente reticolati, niente pallottole traccianti. E poche munizioni, quasi contate. L'equipag giamento era lo stesso del fronte occidentale, della guerretta del giugno 1940. Divise di pessima lana, scarpe di cuoio duro e asciutto, che sembrava cartone. Le fasce mollettiere parevano fatte apposta per bloccare la circolazione del sangue, favorendo i riscaldamenti o i congelamenti. Non eravamo carri armati. Eravamo truppe di montagna, male armate, male attrezzate, male equipaggiate per la guerra di montagna. Buttarci in pianura, dove la guerra corazzata correva veloce, voleva dire buttarci allo sbaraglio³.

    Come poi sarebbe stato confermato dall'indagine storiografica, si trattò di un'avventura disastrosa su cui pesarono le gravi carenze della dotazione bellica dell'esercito italiano e la leggerezza con cui fu affrontata l'impresa sia da parte dei comandi militari che di Mussolini. Convinto che la guerra si sarebbe risolta in un breve lasso di tempo, grazie soprattutto alla preparazione e potenza di fuoco dell'alleato tedesco, il Duce aveva trascurato di mobilitare il paese per quella campagna, come invece era avvenuto ai tempi della conquista coloniale d'Etiopia. La vicenda si risolse nel peggiore tracollo subìto dall'esercito italiano.

    Certo, a onor del vero, non si deve prescindere da un dato che nella trasmissione della memoria e rappresentazione successiva dell'evento sarebbe passato in secondo piano, prevalendo l'immagine della condizione vittimaria del soldato italiano di fronte alla politica criminale del regime, alla spietatezza dell'Armata Rossa e a condizioni climatiche inclementi, per non parlare della giustificazione più volte richiamata riguardo al mancato sostegno da parte dell'alleato tedesco: la considerazione della natura offensiva e non difensiva della guerra, tale da configurare per l'esercito italiano il ruolo a pieno titolo di invasore nei confronti di un paese trovatosi a difendersi strenuamente contro la politica di occupazione portata avanti dalle potenze dell'Asse⁴. Al di là delle ragioni e delle responsabilità del conflitto, che vanno tenute ben presenti per evitare di avvalorarne una visione distorta e mitica, è altrettanto vero come il ricordo di quella traumatica campagna bellica abbia avuto un potente effetto generatore di memoria e scrittura, lasciandoci alcune delle pagine più intense che siano mai state scritte sulla guerra italiana, intrise di impressioni forti, dense di pathos, orrore e titanismo. Come ha evidenziato ancora Maria Teresa Giusti, non è un caso che le testimonianze relative all'esperienza militare in Russia, nel quadro delle memorie sulla Seconda guerra mondiale, siano state di gran lunga superiori sul piano quantitativo a tutte quelle dedicate agli altri fronti.

    Proprio la campagna di Russia fa da sfondo alle pagine di Invictus, romanzo storico frutto della rielaborazione di un'esperienza reale vissuta da un giovane contadino siciliano, originario di una borgata del comune nebroideo di Galati Mamertino, in provincia di Messina, spedito in guerra sul fronte orientale. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una memoria tramandata di generazione in generazione, dapprima custodita in ambito familiare, salvo poi essere affidata - dopo una lunga fase di distacco da quegli eventi e di sedimentazione - alla penna di un valente scrittore, il conterraneo Cristiano Parafioriti, in grado di dar vigore e spessore alla narrazione di quella esperienza estrema, sino a farne una testimonianza perenne della lotta degli uomini per conservare la propria umanità di fronte all'orda distruttiva e agli orrori della guerra.

    Il romanzo racconta, in un grande affresco corale, la storia di un bracciante siciliano, Salvatore, detto Ture, primogenito della famiglia Di Nardo. Sebbene il padre, che aveva già vissuto sulla propria pelle il dramma del Carso durante il Primo conflitto mondiale, avesse tentato con pressioni ed espedienti vari di preservare il figlio da questa infausta prospettiva, Ture non sarebbe riuscito a evitare il servizio militare e la chiamata in guerra. Il destino gli riservò la peggiore delle destinazioni: la steppa russa. Abituato ai sacrifici, ai difficili inverni della montagna, forgiato dalla dura vita dei campi, riuscirà a sopravvivere ai rigori di una campagna bellica condotta in condizioni proibitive e a far ritorno, non senza ulteriori rischi e peripezie, alla sua amata terra, riannodando il filo degli affetti che la guerra aveva rischiato di interrompere per sempre.

    Sottratta allo scrigno della memoria, nella cornice di un romanzo storico che rielabora e arricchisce ma non ne altera la verità - semmai in qualche caso la trascolora - la storia del protagonista Ture Di Nardo diventa paradigmatica della condizione di tanti contadini, strappati al loro lavoro, spesso unico sostentamento delle famiglie, e agli affetti, scaraventati in una sorta di terra di nessuno, il campo di battaglia, in balia di una guerra che li abbruttiva e, per certi versi, spersonalizzava, dominata dalla morte anonima e di massa.

    La narrazione rende bene la prospettiva dal basso di quei contadini provenienti dalle aree più remote del paese catapultati improvvisamente in un conflitto infernale, dominati da sentimenti di rassegnazione e frustrazione e da una sostanziale indifferenza nei confronti delle ragioni della guerra, vissuta alla stregua di una calamità naturale. L'atteggiamento del protagonista del romanzo riflette la condizione di quel mondo rurale avvezzo al sacrificio paziente, che stenta a identificarsi con lo Stato nazionale e la cui dimensione rimaneva pur sempre quella locale, municipale. Lontano dalle idee di potenza e grandezza propagandate dal regime, refrattario ai miti fascisti, distante dall'esasperato sentimento patriottico alimentato in quella fase, Ture si troverà immerso nella tragica realtà della guerra italiana sul fronte orientale, in cui l'unico conforto sarebbe stato offerto dalla solidarietà con i compagni d'armi e dalla tenue speranza di poter un giorno far ritorno a casa per coronare il suo sogno d'amore con l'amata Rosa.

    Il romanzo ci restituisce uno spaccato straordinario dell'universo materiale e mentale, dei valori, paure, bisogni e aspirazioni di famiglie contadine di un'area montana - quella nebroidea - alle prese con il duro lavoro dei campi, fatto di fatica, sudore e di sopraffazioni perpetrate da un ceto proprietario, di origine nobiliare, che ancora nella prima metà del Novecento deteneva saldamente il possesso della maggior parte delle terre, traendone lauto profitto tramite l'affidamento in gabella, spesso con criteri del tutto arbitrari.

    In una prosa di stampo realista, fluida e di gradevole lettura, nel solco della migliore tradizione letteraria siciliana, Parafioriti infittisce il tessuto narrativo seguendo gli sviluppi del rapporto d'amore tra Ture e la cugina Rosa, con l'intreccio di eventi e circostanze, di manzoniana memoria, che ne ostacolano il pieno compimento. Tratteggia in modo efficace i vari personaggi, colti nella loro intima essenza, dando vita a un affresco sociale di sicuro effetto fondato su una solida conoscenza storica e un utilizzo appropriato del registro linguistico. Dopo i racconti di Era il mio paese (2014), Sicilitudine (2016) e il passaggio al romanzo storico con D'Amore e di briganti (2019), ambientato nella fase post-unitaria ottocentesca, questa nuova fatica letteraria segna l'approdo dell'autore a una prova di sicura maturità, con un romanzo organico capace di tenere avvinto il lettore per la forza della storia e il suo valore universale. Tutti gli scritti di Parafioriti hanno un comune denominatore, un fil rouge inconfondibile: esprimono un legame profondo con il territorio siciliano di origine, Galati Mamertino e la sua frazione di San Basilio, sui Nebrodi, che diventa un'unità inscindibile con i personaggi narrati dall'autore. A partire da tale contesto di riferimento le vicende del romanzo Invictus si snodano per incastonarsi dentro la più vasta cornice della storia del Novecento.

    In conclusione, mi sembra utile per riflettere sulla genesi e portata di questo lavoro richiamare la seguente osservazione:

    "Ogni essere umano è un essere unico, è un esistente irripetibile che, per quanto corra disorientato nel buio mescolando gli accidenti alle sue intenzioni, non ricalca mai le medesime orme di un altro, non ripete mai il medesimo percorso, non si lascia mai dietro la medesima storia. Anche per questo le storie di vita vengono narrate e ascoltate con interesse, perché sono simili e tuttavia nuove, insostituibili e inattese, dall'inizio alla fine⁵."

    Come ha evidenziato Hannah Arendt «nessuno ha una vita degna di considerazione di cui non si possa raccontare una storias⁶. E raccontando la crudele realtà della guerra, l'autore ha voluto ribadire ed esaltare proprio l'irripetibilità del singolo destino umano, ma anche il valore perenne, esemplare, di una testimonianza di sofferenza e dignità in grado di vincere la barriera del tempo e proiettarsi nel mondo odierno. Nella speranza che la memoria possa rappresentare sempre - per dirla con le parole di Liliana Segre - «un vaccino prezioso contro l'indifferenza».

    Prof. Antonio Baglio

    (Università degli Studi di Messina)

    ___________________

    ¹ Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia, con uno scritto di Eraldo Affinati, Einaudi, Torino 2008. Scritti durante la prigionia in un lager tedesco, nell'inverno del 1944, i ricordi della ritirata di Russia di Rigoni Stern furono pubblicati per la prima volta, nel 1953, per le edizioni Einaudi, nella collana I Gettoni diretta da Elio Vittorini, divenendo ben presto un classico della letteratura novecentesca.

    ² Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia 1941-1943, Il Mulino, Bologna 2018; della stessa autrice, si veda pure sul tema il volume I prigionieri italiani in Russia, Il Mulino, Bologna 2003 (nuova ed. 2014).

    ³ Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 1993, pp. 16-17. Il testo contiene, tra gli altri, un capitolo dedicato all'esperienza della Ritirata sul fronte russo, in cui l'autore rielabora il diario di guerra già pubblicato nel '46 col titolo Mai tardi (con prefazione di E. Castellani, per le edizioni Panfilo di Cuneo).

    ⁴ Cfr. Thomas Schlemmer, Invasori non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari 2009.

    ⁵ Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997, p. 9.

    ⁶ Hannah Arendt, Isak Dinesen (1885-1962), in aut aut, 1990, pp. 239-240.

    PARTE PRIMA

    I

    Borgo di San Giorgio, aprile 1941

    Monti Nebrodi

    Zi Peppe Pileri tornava a sera dalla campagna.

    Le giornate iniziavano ad allungarsi e lui cercava di sfruttarle fino all'ultimo raggio di sole. Così, poco prima di ritirarsi, strappava le ultime ramaglie secche dalla terra e le ammucchiava all'angolo della robba⁷, caricava la sacchina⁸ con il raccolto della giornata e, con un cordame di ginestra, assestava sul mulo qualche pezzo di legno asciutto che sarebbe servito ad alimentare il camino. Erano i primi di aprile e il freddo ancora si faceva sentire, soprattutto tra le mura di pietra del piccolo villaggio di San Giorgio, dove Zi Peppe viveva con la sua famiglia. Lì, le sferzate di maestrale visitavano ancora le notti assieme alle volpi e alle faine che si mangiavano le galline.

    C'era la fame e adesso c'era anche la guerra.

    Zi Peppe Pileri doveva mantenere la famiglia che già contava sette figli, e il pane non bastava mai. Diceva sempre che, per le cose del cielo, lui a Dio ci credeva ma, per le cose della terra, serviva sorta⁹ e, per avere sorta, bisognava nascere sotto una buona stella e soprattutto scappare dal malocchio. Così, ogni benedetta sera, appena arrivava alle ultime case del borgo grande di San Basilio, in un luogo chiamato Bolo, prima di imboccare l'aspra mulattiera verso San Giorgio, smontava dall'animale e si metteva dal lato opposto alle case. Poi camminava quasi sfregando la murazzata cercando di sfuggire allo sguardo e alle parole della 'Gnura Mena, la ma)àra¹⁰.

    Gretta e scontrosa, aveva perso il consorte nella guerra del 1915-18 e da allora, risentita per questo accanimento del destino, si diceva

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