Le voci negate
By Mario Pippia and Monica Montuschi
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About this ebook
La mancanza quasi totale d’indizi, l’astuzia del Silenziatore, e la pressione da parte dei superiori, obbliga i quattro investigatori a usare tutto il loro acume per fermare la strage di voci. Un romanzo senza tregua, frenetico, pieno di colpi di scena e d’indizi nascosti in bella vista.
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Book preview
Le voci negate - Mario Pippia
Tavola dei Contenuti (TOC)
Titolo pagina
Introduzione
Lo zero
La prima vittima
Riflessioni
Dall’altra parte
Incontro
Avvio indagini
La seconda vittima
Scocciatura
Anomalia
Meditazione
Ragionamenti
Visita di un amico
Altre domande
Consolazione
Cena
Capolavoro
Ricerche
La terza vittima
Altri indizi
La notte dei consigli
Elementi
La quarta vittima
La cooperativa
Avvicinamento
Fine dei giochi
La voce rubata
Serata fuori
Ritorno
Postfazione
Nascita dell’idea
Bura
Ravenna
Altri riferimenti
La Squadra
Ringraziamenti
cover.jpgUn Thriller di
Mario Pippia
Monica Montuschi
LE VOCI NEGATE
img1.pngISBN versione digitale
978-88-6660-398-6
LE VOCI NEGATE
Autori: Mario Pippia e Monica Montuschi
© CIESSE Edizioni
www.ciesseedizioni.it
info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it
I Edizione stampata nel mese di agosto 2021
Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni
Immagine di copertina di: Ilaria Romeo
(uso concesso dall’autrice)
img2.pngCollana: Black & Yellow
Editing a cura di: Renato Costa
Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Un pianoforte può essere visto, la voce no:
può essere solo ascoltata, ed è questo il suo mistero.
È lo strumento più affascinante che esista,
perché lo strumento siamo noi.
ALFREDO KRAUS
tenore spagnolo, 1927-1999
Introduzione
Per quale motivo un’educatrice che lavora in un centro diurno per disabili finisce per collaborare con un autore di romanzi gialli?
È una domanda che mi sono posta spesso anch’io, da quando è partito questo progetto.
Io e Mario Pippia ci siamo conosciuti virtualmente nel 2017, grazie a un gruppo Facebook di amanti della grammatica italiana. Qualche messaggio sporadico di tanto in tanto, i classici auguri di compleanno, qualche battuta.
Questo per tre anni, fino a quando, a causa della pandemia del Covid-19, ci troviamo ad affrontare la chiusura. Da appassionata di genere noir mi ritrovo senza libri da leggere proprio nel momento in cui avrei avuto molto più tempo per farlo, quindi decido che è giunta l’ora di affrontare i libri di Mario e gli scrivo per chiedergli se occorra seguire un ordine cronologico.
Da quel momento cominciano i nostri contatti quasi quotidiani: io, lettrice che racconta all’autore le sensazioni provate mentre leggo i suoi libri; lui, autore che riceve un feedback immediato dal lettore.
Finché, in uno slancio di entusiasmo, gli racconto quasi per scherzo come sarei io se fossi una serial killer. Un’idea timida, buttata là, probabilmente con la speranza inconscia di vederla apprezzare da un giallista.
Mario ha l’incredibile capacità di cogliere possibili trame da un discorso, da una situazione, da un’immagine, da una serie di sequenze che passano in televisione e nel mio delirio ha visto qualcosa che poteva funzionare. Da qui è cominciata la nostra collaborazione.
Per un paio di mesi ha scritto come un matto, confrontando le sue idee con le mie, discutendo i punti su cui non concordavamo (anche se un vero contrasto non c’è mai stato), rivedendo, ampliando e arricchendo i contenuti nell’anno successivo. Il risultato è questo romanzo che parla di voci.
Ma per quale motivo le Voci
?
L’apparato vocale è un meraviglioso strumento musicale creato dalla natura. È un incredibile mezzo comunicativo ed espressivo, e la voce è lo specchio delle emozioni di una persona, del suo stato d’animo. Ognuno di noi ha una voce unica e inconfondibile, quasi come un’impronta digitale.
Personalmente sono un’amante delle belle voci, ovviamente per quanto riguarda il canto, ma anche nella sua espressione più naturale: il parlare.
Amo ascoltare voci profonde che trasmettano emozioni e sentimenti, non necessariamente piacevoli; una voce che ha del carattere lascia sempre qualcosa in chi la ascolta.
Io stessa, nella mia professione, cerco di utilizzare la voce come ausilio terapeutico
per rapportarmi con i ragazzi
dei quali mi occupo, non tanto per il significato reale che possono avere le parole che pronuncio, quanto per l’intonazione che cerco di dare loro.
Una voce calma, accogliente e bassa può aiutare a rilassare e rassicurare chi in quel momento sta vivendo uno stato di agitazione o di sofferenza, mentre un tono più alto e secco può aiutare a spezzare una situazione di impasse.
Cosa succederebbe a noi, persone comuni, se ci ritrovassimo all’improvviso senza la possibilità di esprimerci vocalmente? E cosa succederebbe se a coloro che con la voce ci lavorano venisse a mancare il dono più prezioso? E soprattutto, in che modo tutto questo potrebbe trascinare il commissario Polloni a centinaia di chilometri dalla sua Torino?
Monica Montuschi
Parte prima
Lo zero
L’urto non fu particolarmente violento: solo il tocco delle due carrozzerie nella parte anteriore, i danni limitati a poche righe che qualsiasi carrozziere avrebbe riparato con un po’ di vernice. La reazione del guidatore del furgone, che per inciso aveva causato l’incidente, fu invece rapidissima: scese dal mezzo, vide che il danno era tutto sommato lieve, e si girò verso il veicolo che aveva urtato.
«Ma che cazzo, c’avete proprio il sangue marcio! A cominciare da te che guidi! Vaffanculo va’, ti va bene che ho fretta!»
Risalì sul furgone, ingranò in rapida sequenza la retromarcia – scatenando un piccolo concerto di clacson preoccupati – e la prima, sparendo immediatamente nel traffico.
«Ma guarda ’sta testa di cazzo. Ma cosa vanno in giro a fare ’sti mongoli?! Se ne stessero in casa invece di andare a passeggio a rompere i coglioni a quelli che lavorano».
Concluse la profonda riflessione con una bestemmia piuttosto colorita. Per fortuna la giornata non gli riservò altre terribili disgrazie come quella, tanto che la rimosse quasi immediatamente dalla memoria. Nei tre giorni successivi continuò la sua vita, sempre guidando come un folle, senza causare nessun altro danno per motivi puramente statistici.
Poi successe qualcosa che cambiò tutto.
Stava tornando verso la sua auto: schiacciò il pulsante del telecomando ricevendo come risposta un bip bip sonoro, un lampeggiare delle luci di posizione e, quasi contemporaneamente, un dolore pungente alla base del collo.
«Ma cosa cazzo…?», si chiese, ma fu la penultima cosa che riuscì a elaborare prima di cadere all’indietro. L’ultima fu che non era caduto a terra eppure continuava a muoversi, anche se non riusciva a capire come.
Poi tutto divenne buio per due interminabili secondi.
Quando si risvegliò, ci mise poco a capire che la situazione non era delle migliori: era seduto su una sedia, rigida, forse metallica; era legato e le corde gli segavano braccia, gambe e costato. Ed era al buio.
«Cosa cazzo mi avete fatto, pezzi di merda?!», urlò.
Non ricevette nessuna risposta. Provò ancora qualche insulto indirizzato a genitori e parenti vari dei responsabili, ma nulla di tutto questo servì a qualcosa. Provò ancora a scuotersi per liberarsi, ma l’unico risultato che ottenne fu di sentire le corde entrare più profondamente nella carne.
Urlò, urlò, urlò ancora. E alla fine tacque.
Non riusciva a capire per quale motivo gli stesse succedendo questo: non aveva debiti, non aveva nemici, a parte qualche stronzo troppo vigliacco per fare una cosa del genere… forse qualche maniaco?
All’improvviso davanti a Davide si accese una luce rossa, lampeggiante; si muoveva da destra verso sinistra e… i vari puntini luminosi formavano delle parole, e le parole una frase. Lampeggiava tre volte, poi scorreva e spariva. E ricominciava.
Lesse ad alta voce, d’istinto: SMETTILA DI URLARE. NESSUNO PUÒ SENTIRTI.
La prima reazione fu quella sbagliata. Iniziò con una bestemmia, perfettamente riconoscibile, ma dovette fermarsi: da qualche parte arrivò una scarica elettrica che lo costrinse a inarcare la schiena, aumentando il tormento dei legacci, e gli fece chiudere la bocca così forte che iniziò a sbavare. Durante i cinque secondi che durò la scossa, emise un lungo, modulato, vibrante oooooooh.
Il flusso smise in modo improvviso. Rimase qualche secondo ad ansimare, poi alzò lo sguardo e vide una nuova scritta che girava.
NON BESTEMMIARE.
«Ma vaffancu…»
Non finì la frase: una seconda scarica di corrente elettrica lo colpì all’improvviso come prima, facendolo urlare dal dolore. Durò meno, ma in qualche modo la sentì più intensamente, forse perché provava ancora il dolore per quella precedente.
Lui era un macho, un vero duro, ma solo quando si trattava di prendersela con i più deboli. Sua era la massima del Pierino del cinema trash: nella vita devi sempre mena’ pe’ primo. E si era comportato così sin da quando era piccolo: c’era una situazione che non gli piaceva? Menava. Qualcuno aveva qualcosa che lui voleva? Menava e se la prendeva. Una donna gli piaceva? Menava e se la scopava. Rendeva bene, questo atteggiamento, e per di più non sentiva rimorso: andava bene a lui, quindi andava bene e basta.
Ma la musica cambiava quando si trovava davanti qualcuno più forte di lui.
E cambiava di parecchio: cominciò a piangere, singhiozzando come un bambino.
«Basta, basta, ti prego, basta…»
Poiché stava accasciato in avanti, non si rese conto che dietro di lui qualcosa nel buio si stava muovendo. Però sentì il piccolo dolore della puntura che lo mandò ancora una volta nel mondo dei sogni.
bene la merda ha letto quindi funziona
bene
proviamo l’altra cosa adesso
Si svegliò di nuovo all’improvviso, senza avere avuto la sensazione del tempo trascorso: buio tac luce.
C’era qualcosa di diverso rispetto a prima, ma non riusciva a inquadrarlo. Gli sembrava di stare sempre nella stessa stanza, e di essere legato all’incirca come prima, ma anche di questo non era sicuro.
Sentiva uno strano fastidio al fondo della gola, non riusciva a capirne il motivo. Come quando si ha del catarro e si cerca di espettorare, senza riuscirci. Scaracchiò due o tre volte, senza ottenere altro risultato che un aumento del fastidio che si avvicinava pericolosamente al dolore.
Un’ombra gli passò di lato, e una figura si materializzò davanti a lui: eccolo qui il merdone che l’aveva rapito e torturato!
«Lasciami andare!», avrebbe voluto dire, ma qualcosa sembrò non funzionare. L’aria usciva regolarmente, ma dalla bocca non proveniva nessun suono. In compenso sentì distintamente qualcosa andare in pezzi nella gola: una fitta dolorosa lo fece tacere. Avrebbe voluto urlare per il male, ma non ci riusciva; e più cercava di urlare, più aumentava la sofferenza.
La figura davanti a lui fece due movimenti quasi contemporanei. Il primo non lo capì, e non lo avrebbe mai capito: mise la mano sinistra aperta davanti al mento e la spostò in avanti.
Il secondo movimento fu l’ultima cosa che vide: alzò la destra, dove c’era qualcosa di metallico, e gli aprì la gola, sotto il pomo d’Adamo.
Poche ore dopo, Davide Bartolotti, corriere di professione e testa di cazzo per stile di vita, fu trovato seduto lungo il muro perimetrale di una discarica, nei pressi di Alfonsine, da un pescatore di passaggio. Mentre l’ambulanza lo portava all’ospedale, l’ispettore incaricato delle indagini stava parlando con il testimone.
«Mariano, comandante, mi chiamo Ravaioli Mariano. Non col gi elle
; io
, non glio
», stava specificando il pescatore alla poliziotta.
«Sono ispettore, non comandante. Va bene, va bene, io
e non gl
», rispose lei, terminando di prendere l’appunto sul blocco note e cercando di non alzare gli occhi al cielo.
«Bene, ho preso i suoi dati: se avremo bisogno di farle altre domande, la chiamiamo. Ok?»
«Posso andare? Se tardo ancora non trovo più pesci».
Cristiana Biraghi, ispettore della Questura di Ravenna, lo osservò per qualche secondo, riflettendo che per questo tizio i pesci erano più importanti di un ferito grave. Ma lei non era lì per discutere, giudicare o indagare su questo mentecatto. Già aveva la sua gatta da pelare con quello con la gola aperta.
Mentre Mariano senza gl
si allontanava in bicicletta con le canne in spalla, la poliziotta si avvicinò al medico legale.
«Che mi dice dottore?»
«Ben poco, ispettore. Chi gli ha fatto questo trattamento voleva essere sicuro che non avrebbe avuto scampo. Sono almeno tre colpi inferti con una lama molto affilata, un bisturi direi. Ha squarciato tutto: muscoli, corde vocali, tendini. Un gran casino».
«Però, nonostante questo simpatico trattamento, il tipo non è morto».
«Già. Avrebbe dovuto, tra dissanguamento e ferite, ma il taglio non ha reciso canali sanguigni importanti, e probabilmente l’abbiamo trovato troppo presto. Almeno secondo i calcoli dell’aggressore».
Un cellulare si mise a suonare una marcetta militare. Cristiana lo prese: «Oh, dimmi Fanti… hai già trovato informazioni? Ah, bene… gli capitava spesso di litigare… tante denunce per violenza privata… ecco… mi sa che ha trovato uno più incazzoso di lui, stavolta. Bene… sì, grazie…. Fammi un rapporto, che ne ho già le palle piene di stare qui».
Attaccò.
«Va bene, grazie dottore».
Si guardò intorno: zona isolata, telecamere nei paraggi poche e quasi tutte spente, ma avrebbe fatto un controllo. O meglio, l’avrebbe fatto fare all’agente Fanti, che è tanto bravo con il computer. Tanto questa indagine non avrebbe portato da nessuna parte; altrimenti non l’avrebbero assegnata a lei.
Vaffanculo, va’. La cosa migliore era prendersi due o tre giorni di mutua.
La prima vittima
L’auto percorse la rotonda, quindi si diresse verso l’angolo nord-est del cimitero comunale. Andava piano non perché non avesse fretta; anzi, la situazione era esattamente opposta.
No, andava piano perché c’era sempre il rischio di incappare in qualche pattuglia – polizia, carabinieri, guardia di finanza, boy scouts, un sacco di gente che non sa farsi i cazzi suoi – che avrebbe potuto fermarlo per sapere cosa ci facesse da quelle parti.
E da lì a finire sui giornali era un attimo.
Già vedeva i titoli: FAMOSO DOPPIATORE CON IL VIZIETTO DELLA SIRINGA!
Maledetti giornalisti! Chissà quanto avrebbero pagato per uno scoop del genere!
Oltretutto il suo non era un vizio
, ma solo un’abitudine. Poteva smettere in qualsiasi momento, era chiaro. Solo che non voleva: ogni tanto un buco, fatto in modo discreto, lo aiutava a rilassarsi, a vedere meglio le cose da fare e quelle da non fare. Gli permetteva di focalizzare la situazione.
E quella sera aveva proprio bisogno di calmarsi: era la prima volta che non riusciva a concludere
con una donna. In realtà non era neanche riuscito a cominciare.
Disfunzione erettile erano le due parole che gli erano balzate davanti agli occhi. Aveva congedato la sua amica con tante scuse, che lei sembrava avere accettato; le aveva chiamato un taxi e ciao, ci sentiamo la prossima volta.
Certo, c’era la soluzione del Viagra, ma non ne aveva mai avuto bisogno; e la sua fama si basava certamente sulla sua voce fantastica, sexy e profonda, ma anche sulle dicerie di com’era in grado di far divertire una signora per diverse ore.
Tutte balle, chiaro: solo marketing.
Ma funzionava.