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Michele Strogoff
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Michele Strogoff

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Russia, fine XIX secolo: il romanzo racconta il viaggio affrontato dal corriere dello Zar di Russia Alessandro II Romanov, Michele Strogoff, inviato da Mosca a Irkutsk, capitale della Siberia orientale. La sua missione è avvisare il Granduca, fratello dello Zar, dell'imminente arrivo dell'orda dei Tartari guidata dal traditore Ivan Ogareff, un ex soldato russo che mira a vendicarsi per essere stato mandato in guerra in Siberia, e dal feroce Feofar Khan.
LanguageItaliano
Release dateAug 1, 2021
ISBN9791254530733
Michele Strogoff
Author

Jules Verne

Victor Marie Hugo (1802–1885) was a French poet, novelist, and dramatist of the Romantic movement and is considered one of the greatest French writers. Hugo’s best-known works are the novels Les Misérables, 1862, and The Hunchbak of Notre-Dame, 1831, both of which have had several adaptations for stage and screen.

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    Michele Strogoff - Jules Verne

    MICHELE STROGOFF

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO PRIMO.

    UNA FESTA AL PALAZZO NUOVO.

    — Sire, un altro dispaccio.

    — D’onde viene?

    — Da Tomsk.

    — Il filo è reciso al di la di questa città?

    — È reciso da ieri.

    — Ogni ora, generale, si mandi un telegramma a Tomsk e mi si tenga informato di tutto.

    — Sì, sire, disse il generale Kissoff.

    Queste parole venivano dette alle due del mattino, al momento in cui la festa data al Palazzo Nuovo era in tutta la sua magnificenza.

    In quella serata, la musica dei reggimenti di Préobrajensky e di Paulowsky non aveva cessato di suonare le sue polche, le sue mazurche, i suoi valzer scelti fra i migliori del repertorio. I ballerini si moltiplicavano all’infinito in quel palazzo eretto a pochi passi della «vecchia casa di pietra,» dove si erano già compiuti tanti drammi terribili, ed i cui echi si svegliarono quella notte per ripetere i motivi delle quadriglie.

    Il gran maresciallo della corte era d’altra parte ben secondato nelle sue delicate funzioni. I gran duchi ed i loro aiutanti di campo, i ciambellani di servizio, gli ufficiali di palazzo presiedevano in persona alle danze. Le gran duchesse coperte di diamanti, le dame d’onore colle loro vesti di gala, davano valorosamente l’esempio alle mogli degli alti funzionarî militari e civili dell’antica «città delle pietre bianche;» perciò quando si udì il segnale della «polacca,» quando gli invitati d’ogni classe presero parte a quella passeggiata in cadenza, che, nelle solennità di tal fatta, ha tutta l’importanza d’una danza nazionale, il miscuglio delle lunghe vesti guernite di merletti e delle uniformi tempestate di decorazioni, offrì uno spettacolo indescrivibile, sotto la luce di cento lampadarî moltiplicati dal riflesso degli specchi.

    Fu uno sbarbaglio.

    D’altra parte, la gran sala, la più bella di quante ne possiede il Palazzo Nuovo, faceva a quel corteo d’alti personaggi e di donne splendidamente abbigliate una cornice degna della loro magnificenza. La ricca vôlta, colle sue dorature già temperate dalla vernice del tempo, sembrava stellata di punti luminosi. I broccati delle cortine e delle portiere accidentati di pieghe superbe, s’imporporavano di toni caldi che si frangevano agli angoli della stoffa pesante.

    Dai vetri dei larghi vani aperti nella centina, la luce delle sale, attraverso una nebbiuzza leggiera, si manifestava al di fuori come riflesso d’incendio e spiccava vivamente nella notte, che per alcune ore avvolgeva il palazzo scintillante. E quel contrasto fermava l’attenzione degli invitati che non erano impegnati nelle danze. Quand’essi si arrestavano nei vani delle finestre, potevano scorgere alcuni campanili, i cui profili enormi si disegnavano confusamente nell’ombra; sotto i balconi scolpiti, vedevano passeggiare in silenzio numerose sentinelle coi fucili sulla spalla, ed il cui casco aguzzo aveva come un pennacchio di fiamma ai bagliori delle luci del palazzo. Udivano pure i passi cadenzati delle ronde sul selciato; ogni tanto il grido delle sentinelle si ripeteva di posto in posto, e talvolta una chiamata di tromba, mescendosi agli accordi dell’orchestra, gettava le sue note chiare fra le armonie generali; e più giù ancora, dinanzi alla facciata, masse scure si staccavano sui gran coni di luce riflessi dalle finestre del Palazzo Nuovo. Erano battelli che scendevano il corso d’un fiume, le cui acque, punteggiate dal bagliore vacillante di qualche fanale, bagnavano le fondamenta delle terrazze.

    Il principale personaggio del ballo, quello che dava la festa, ed a cui il generale Kissoff aveva dato un attributo proprio dei sovrani, vestiva una semplice uniforme d’ufficiale dei cacciatori della guardia. Non era certo affettazione da parte sua, ma abitudine d’uomo poco amante del lusso. Le sue vesti contrastavano dunque coi costumi superbi che si mescevano intorno a lui, che soleva perfino mostrarsi a quel modo, il più delle volte, in mezzo alla sua scorta di Georgiani, di Cosacchi, di Lesghiani, squadroni abbaglianti, splendidamente vestiti della più belle uniformi del Caucaso.

    Questo personaggio, d’alta statura, d’aspetto affabile, dalla faccia serena ed in un pensosa, andava da un crocchio all’altro, ma parlava poco, ed anzi non pareva prestar quasi attenzione alle ciancie allegre dei giovani convitati, alle parole più gravi degli alti funzionarî, ed ai membri del corpo diplomatico che rappresentavano presso di lui i principali Stati Europei. Due o tre di questi perspicaci uomini politici, fisionomisti per condizione, avevano pur creduto di scorgere sul volto del loro ospite qualche sintomo di inquietudine di cui ignoravano la causa; ma nessuno si sarebbe permesso di interrogarlo in proposito. Ad ogni modo era intenzione dell’ufficiale dei cacciatori della guardia, su ciò non correva dubbio, che le sue segrete inquietudini non turbassero la festa in veruna guisa; e siccome era uno di quei rari sovrani, ai quali tutto un mondo quasi si è avvezzato ad obbedire perfino col pensiero, le gioie del ballo non quetarono un istante.

    Frattanto il generale Kissoll aspettava che l’ufficiale, a cui aveva comunicato il telegramma venuto da Tomsk, gli ordinasse di ritirarsi; ma costui stava silenzioso, aveva preso il dispaccio, e lettolo, la sua fronte si era oscurata vie più; portò egli involontariamente la mano all’elsa della spada, poi l’appoggiò un istante sugli occhi come se il bagliore delle luci lo offendesse ed avesse bisogno dell’oscurità per veder meglio dentro di sè.

    — Dunque, ripigliò a dire, dopo aver tratto il generale Kissoff nel vano d’una finestra, dunque da ieri siamo senza comunicazioni col gran duca mio fratello?

    — Senza comunicazioni, sire, ed è a temere che in avvenire i dispacci non possano più passare le provincie siberiane.

    — Ma le truppe delle provincie dell’Amur e d’Iakutsk, come quelle della Transbaikalia, hanno ricevuto l’ordine di muovere immediatamente sopra Irkutsk?

    — Quest’ordine fu dato coll’ultimo telegramma che abbiamo potuto far pervenire al di là del lago Baikal.

    — Quanto ai governi di Yeniscisk, di Omsk, di Semipalatinsk, di Tobolsk, siamo sempre in comunicazione diretta con essi dopo il principio dell’invasione?

    — Sì, sire, i nostri dispacci giungono loro, ed abbiamo la certezza che i Tartari non si sono avanzati al di là dell’Irtyche e dell’Obi.

    — E del traditore Ivan Ogareff, si hanno notizie?

    — Nessuna, rispose il generale Kissoff. Il direttore della polizia non sa dire se abbia o no passata la frontiera.

    — I suoi connotati siano mandati subito a Nijni-Novgorod, a Perm, ad Ekaterinburgo, a Kassimow, a Tiumen, ad Ichim, ad Omsk, ad Elamsk; a Kolyvan, a Tomsk, a tutti i posti telegrafici coi quali il filo corrisponde ancora.

    — Gli ordini di Vostra Maestà saranno eseguiti all’istante, rispose il generale Kissoff.

    — Silenzio di tutto questo.

    E, fatto un cenno di rispettosa adesione, il generale s’inchinò e si confuse poi nella folla, per lasciare poco stante le sale senza farsi scorgere.

    Quanto all’ufficiale, rimase pensoso alcuni istanti, e quando tornò a mescersi ai varî crocchi di ufficiali e d’uomini politici formati in molti punti delle sale, la sua faccia avea ripresa tutta la calma perduta per un momento.

    Pure il grave fatto, che aveva dato origine a quel breve dialogo, non era ignorato, come l’ufficiale dei cacciatori delle guardia ed il generale Kissoff potevano credere. Non se ne parlava ufficialmente, è vero, e nemmeno officiosamente, perchè le lingue non erano sciolte «per ordine,» ma alcuni alti personaggi erano stati informati, più o meno esattamente, degli avvenimenti che si compievano al di là della frontiera. Nondimeno, di ciò che non sapevano forse se non per approssimazione, di ciò di cui non si parlava nemmeno fra membri del corpo diplomatico, due invitati che nessuna uniforme o decorazione segnalava in quella splendida folla del Palazzo Nuovo, parlavano a bassa voce, parendo aver ricevute informazioni esatte.

    Come mai, e per qual via, questi due semplici mortali sapevano ciò che tanti altri personaggi illustrissimi sospettavano appena? Impossibile dirlo. Era in essi dono di prescienza o di previsione? Possedevano essi un senso supplementare, il quale permetteva loro di vedere aldilà dell’orizzonte limitato che chiude ogni sguardo umano? Avevano essi un’abilità tutta propria per scovare le notizie più segrete? E questa abitudine, divenuta in essi seconda abitudine, di vivere delle notizie e per le notizie, aveva forse trasformato il loro essere? Si sarebbe tentati di crederlo.

    Di questi due uomini, uno era Inglese, Francese l’altro, magri e lunghi entrambi; questo bruno come i meridionali della Provenza, quello rosso come un gentleman del Lancashire. L’Anglo-Normanno compassato, freddo, flemmatico, parco di movimenti e di parole, sembrava non parlasse o gesticolasse se non sotto la spinta d’una molla, la quale agisse ad intervalli regolari; al contrario il Gallo-Romano, vivace, petulante, si esprimeva colle labbra, cogli occhi, colla mano, tutto in una volta, ed aveva venti maniere di manifestare il suo pensiero, mentre il suo interlocutore sembrava averne una sola, invariabilmente stereotipata nel suo cervello.

    Queste differenze fisiche avrebbero facilmente dato nell’occhio al meno osservatore degli uomini, ma un fisionomista, guardando un po’ da vicino i due stranieri, avrebbe determinato nettamente il contrasto fisiologico che li segnalava, dicendo che il Francese era tutt’occhi, l’Inglese era tutt’orecchi.

    In fatti, gli organi visivi dell’uno erano stati singolarmente perfezionati dall’uso. La sensibilità della retina doveva essere istantanea, come quella di quei prestigiatori che riconoscono una carta nel rapido movimento del taglio. Codesto Francese possedeva dunque in massimo grado ciò che si chiama «la memoria dell’occhio.»

    L’Inglese invece sembrava propriamente fatto per ascoltare ed intendere. Quando il suo timpano era stato colpito dal suono d’una voce, non la poteva più dimenticare, dopo dieci anni, dopo venti, l’avrebbe riconosciuta fra mille; le sue orecchie non avevano certo la facoltà di muoversi come quelle degli animali forniti di gran padiglioni auditivi; ma poichè gli scienziati hanno accertato che le orecchie umane non sono immobili che «all’incirca,» si avrebbe avuto il diritto di asserire che quelle del suddetto Inglese, rizzandosi o piegandosi, cercassero di cogliere i suoni in un modo alquanto apparente pel naturalista.

    Convien far osservare che tale perfezione della vista e dell’udito in quei due uomini li serviva meravigliosamente nella loro professione, perchè l’Inglese era un corrispondente del Daily-Telegraph, ed il Francese un corrispondente del.... di qual giornale o giornali egli non diceva, e quando gli veniva chiesto, rispondeva che era in corrispondenza con sua cugina Maddalena. In fondo, il Francese, sotto sembianze leggiere, parlava bensì a dritto od a rovescio, forse per meglio nascondere la sua voglia di apprendere, ma non si tradiva mai. La sua loquacità medesima gli serviva a tacersi e forse era più chiuso e discreto del suo confratello del Daily-Telegraph, e se entrambi assistevano alla festa data al Palazzo Nuovo nella notte dal 15 al 16 luglio, era in qualità di giornalisti per servire i loro lettori.

    S’intende che questi due uomini erano appassionati per la loro missione in questo mondo, ed amavano slanciarsi come furetti sulla pesta delle notizie più inaspettate; s’intende che nulla gli spaventava o scoraggiava, e che avevano l’imperturbabile freddezza e la bravura reale delle persone del mestiere. Veri fantini di questa corsa, di questa caccia alla notizia, essi scavalcavano le siepi, varcavano i fiumi, saltavano le barricate coll’ardore impareggiabile di quei corridori puro sangue che vogliono giungere primi o morire.

    D’altra parte i loro giornali non li tenevano a corto di quattrini, che sono il più sicuro, il più spiccio, il più perfetto elemento di informazioni che si conosca ancora. Convien pure aggiungere, ad onor loro, che nessuno dei due guardava od ascoltava mai attraverso le pareti della vita privata, e che essi si davano attorno soltanto allora che erano in gioco interessi politici o sociali, in una parola facevano ciò che da alcuni anni si chiama «la grande informazione politica e militare.»

    Solamente si vedrà, vedendoli da vicino, che il più delle volte avevano un bizzarro modo di considerare le cose e segnatamente le conseguenze delle cose, e che ciascuno dei due avea un modo «tutto suo» di vedere, di apprezzare e di giudicare. Ma in fin de’ conti, siccome non si risparmiavano in veruna occasione, sarebbe mala grazia biasimarli.

    Il corrispondente francese si chiamava Alcide Jolivet; Harry Blount era il nome del corrispondente inglese. Si erano incontrati per la prima volta nella festa del Palazzo Nuovo, di cui avevano incaricato di render conto al loro giornale. La discordanza delle loro nature, congiunta ad una certa gelosia di mestiere, doveva renderli poco simpatici l’un l’altro. Pure essi non si evitarono e cercarono anzi di tastarsi a vicenda sulle notizie del giorno. Erano due cacciatori che andavano a caccia sul medesimo territorio, e ciò che sbagliava l’uno poteva essere colpito dall’altro; il comune interesse voleva che fossero in grado di vedersi e di intendersi.

    In quella sera erano adunque entrambi alla posta. In fatti ci era qualche cosa in aria.

    — Non fosse che un volo di canards , diceva Alcide Jolivet, varrà sempre la sua schioppettata.

    I due corrispondenti furono dunque tratti a far ciancie durante il ballo, alcuni istanti dopo la partenza del generale Kissoff, e lo fecero con una certa prudenza.

    — In verità, signore, questa festicciola è graziosa, disse amabilmente Alcide Jolivet, credendo bene di dover entrare in conversazione con questa frase tutta francese.

    — Ho già telegrafato: splendida! rispose freddamente Harry Blount, adoperando questa parola che pare consacrata per esprimere un’ammirazione qualsiasi d’un cittadino del Regno Unito.

    — Pure, aggiunse Alcide Jolivet, ho creduto di dover segnalare in pari tempo a mia cugina….

    — Vostra cugina? ripetè Harry Blount in tono di meraviglia, interrompendo il confratello.

    — Sì…. soggiunse Alcide Jolivet, mia cugina Maddalena.... è con essa ch’io corrispondo! Le piace essere informata presto e bene, a mia cugina! Ed ho creduto di doverle annunziare che durante la festa una specie di nuvola parve oscurare la fronte del sovrano.

    — A me parve allegrissimo, rispose Harry Blount, il quale voleva forse nascondere il suo pensiero in proposito.

    — E naturalmente voi lo avete fatto allegrissimo nelle colonne del Daily-Telagraph?

    — Appunto.

    — Vi ricordate, signor Blount, disse Alcide Jolivet, ciò che accadde a Zakret nel 1812?

    — Me lo ricordo come vi fossi stato, signore, rispose il corrispondente inglese.

    — Quand’è così, voi sapete che nel mezzo d’una festa data in onor suo, fu annunziato all’imperatore Alessandro che Napoleone avea passato il Niemen coll’avanguardia francese; pure l’imperatore non abbandonò la festa, e non ostante l’estrema gravità d’una notizia che poteva costargli l’impero, non lasciò scorgere maggiori inquietudini.... di quelle che ha mostrato il nostro ospite quando il generale Kissoff gli ha annunciato che i fili telegrafici erano recisi tra la frontiera ed il governo di Irkutsk.

    — Ah! vi era noto questo?

    — Mi era noto.

    — Quanto a me, sarebbe difficile ignorarlo, perchè il mio ultimo telegramma andò fino ad Udinsk, fece osservare Alcide Jolivet con una certa soddisfazione.

    — Ed il mio fino a Krasnoiarsk soltanto, rispose Harry Blount con un accento non meno soddisfatto.

    — Dunque voi sapete anche che sono stati mandati degli ordini alle truppe di Nikolaevsk?

    — Sì, signore, al medesimo tempo che si telegrafava ai Cosacchi del governo di Tobolsk di concentrarsi.

    — Nulla di più vero, signor Blount, anche questo mi era noto e vi assicuro che la mia amabile cuginetta ne saprà domani stesso qualche cosa.

    — E lo sapranno anche i lettori del Daily-Telegraph, signor Jolivet.

    — Quando si vede tutto quello che accade....

    — E quando si ascolta tutto quello che si dice….

    — Una bella campagna da seguire, signor Blount.

    — La seguirò, signor Jolivet.

    — Allora può darci che ci incontriamo sopra un terreno meno sicuro forse del pavimento di questa sala.

    — Meno sicuro sì, ma….

    — Ma anche meno sdrucciolevole, aggiunse Alcide Jolivet, trattenendo il collega nel punto in cui stava per perdere l’equilibrio.

    E, ciò detto, i due corrispondenti si separarono, contentissimi in sostanza di sapere che l’uno non era passato dinanzi all’altro.

    In quella le porte delle sale contigue furono aperte ed apparvero molte mense meravigliosamente imbandite e cariche a profusione di porcellane preziose e di vasellami d’oro. Sulla mensa centrale riserbata ai principi, alle principesse ed ai membri del corpo diplomatico, scintillava un trionfo di un gran prezzo, venuto dalle fabbriche di Londra; ed intorno a quel lavoro di orificeria splendevano alla luce dei lampadarî i mille pezzi del più ammirabile servizio che fosse mai uscito dalle manifatture di Sevres.

    Gli invitati incominciarono a dirigersi verso le sale della cena.

    In quella il generale, che era arrivato, si accostò all’ufficiale dei cacciatori della guardia.

    — Ebbene? gli domandò costui coll’ansia della prima volta.

    — I telegrammi non passano più Tomsk, sire.

    — Un corriere all’istante!

    L’ufficiale, lasciando le sale, entrò in una stanza attigua. Era un gabinetto da lavoro, arredato in modo semplicissimo e posto nell’angolo del Palazzo Nuovo. Alcuni quadri, fra cui molte tele di Orazio Vernet, erano appesi alle pareti.

    L’ufficiale aprì le finestre, come se mancasse l’ossigeno ai suoi polmoni, e venne a respirare sopra un largo balcone l’aria pura d’una bella notte di luglio.

    Sotto gli occhi suoi, illuminata dalla luna, si incurvava una linea fortificata, in cui sorgevano due cattedrali, tre palazzi ed un arsenale. Intorno a quella cinta si disegnavano tre città distinte, Kitaï-Gorod, Beloï-Gorod, Zemlianoï-Gorod, immensi quartieri europei, tartari o cinesi, su cui si ergevano le torri, i campanili, i minareti, le cupole, le trecento chiese sormontate da croci d’argento. Un piccolo fiume, dal corso sinuoso, rifletteva qua e là i raggi della luna. Tutto quell’insieme formava un curioso mosaico di case variamente colorate entro un’ampia cornice di dieci leghe.

    Quel fiume era la Moskowa; la città era Mosca, la cinta fortificata il Kremlin, e l’ufficiale dei cacciatori della guardia, che colle braccia incrociate e la fronte pensosa porgeva orecchio al rumore che il Palazzo Nuovo gettava sulla vecchia città moscovita, era lo czar.

    CAPITOLO II.

    RUSSI E TARTARI.

    Se lo czar aveva così all’improvviso lasciato le sale del Palazzo Nuovo, nel momento in cui la festa data alle autorità civili e militari ed alle persone più notevoli di Mosca era nel più gran splendore, gli è che grandi avvenimenti si compievano al di là dell’Ural. Non si poteva più dubitarne: una formidabile invasione minacciava di sottrarre all’autonomia russa le provincie siberiane.

    La Russia asiatica o Siberia occupa una superficie di cinquecento sessantamila leghe e conta circa due milioni d’abitanti. Si stende dai monti Urali che la separano dalla Russia europea fino al litorale dell’oceano Pacifico. Al sud confina colla frontiera indeterminata del Turkestan e dell’Impero Cinese. Al nord coll’oceano Glaciale, dal mare di Kara fino allo stretto di Behring. Si divide in governi o provincie, che sono quelli di Tobolsk, di Yeniseisk, di Omsk, di Irkutsk, di Iakutsk; comprende due distretti, quelli d’Okotsk e di Kamtschatka, e possiede due paesi, ora soggetti alla dominazione moscovita, il paese dei Kirghizi e quello dei Tchuktches.

    Questa immensa distesa di steppe, che comprende più di 10 gradi dall’ovest all’est, è al medesimo tempo una terra di deportazione per i colpevoli, una terra d’esilio per coloro che un ukase ha colpito d’espulsione.

    Due governatori generali rappresentano l’autorità suprema in quel vasto paese. Uno risiede ad Irkutsk, capitale della Siberia orientale, l’altro a Tobolsk, capitale della Siberia occidentale. Il Tchuna, affluente del fiume Yenisei, separa le due Siberie.

    Nessuna ferrovia solca ancora quelle immense pianure, alcune delle quali sono veramente d’una estrema fertilità. Nessuna via ferrata serve le miniere preziose, che per vaste estensioni rendono il suolo siberiano più ricco sotto che sopra la sua superficie. Vi si viaggia in tarentass od in telega, d’estate; in islitta, d’inverno.

    Una sola comunicazione, ma una comunicazione elettrica, congiunge l’ovest all’est della Siberia per mezzo di un filo lungo più di ottomila verste (8536 chilometri ). Uscendo dall’Ural, esso passa per Ekaterinburgo, Kassimow, Tiumen, Ichim, Omsk, Elamsk, Kolyvan, Tomsk, Krasnoiarsk, Nijni-Udinsk, Irkutsk, Verkne-Nertschink, Strelink, Albazine, Blagowstenks, Radde, Orlomskaya, Alexandrowskoë, Nikolaevsk, e fa pagare 10 rubli e 19 kopek ogni parola che manda al suo estremo limite . Da Irkutsk una diramazione va fino a Kiakta sulla frontiera Mongola, e di là con 30 kopek per parola, la posta trasporta i dispacci a Pekino in quattordici giorni.

    Gli è questo filo teso da Ekaterinburgo a Nikolaevsk, che era stato reciso prima, un po’ innanzi di Tomsk, e qualche ora dopo tra Tomsk e Kolyvan,

    Ed è perciò che lo czar, dopo la seconda comunicazione avuta dal generale Kissoff, non aveva risposto che queste sole parole: un corriere all’istante!

    Lo czar era di qualche tempo immobile alla finestra del suo gabinetto, quando gli uscieri aprirono di nuovo la porta:

    — Entra, generale, disse lo czar con voce breve, e dimmi tutto quanto sai di Ivan Ogareff.

    — È uomo pericolosissimo, sire, disse il gran mastro di polizia.

    — Aveva grado di colonnello?

    — Sì, sire.

    — Era un ufficiale intelligente?

    — Intelligentissimo, ma non si lasciava dominare ed aveva un’ambizione sfrenata, che non dava indietro per checchessia. Non tardò a gettarsi in segreti intrighi, ed è allora che fu cassato dal suo grado e poi esiliato in Siberia.

    — E quando ciò?

    — Due anni sono. Graziato dopo sei mesi di esilio per favore di Vostra Maestà rientrò in Russia.

    — E di poi non tornò in Siberia?

    — Sì, sire, ma questa volta volontariamente, rispose il gran mastro di polizia.

    Ed aggiunse abbassando un po’ la voce:

    — Una volta, sire, quando si andava in Siberia non se ne tornava più.

    — Ebbene, me vivo, è e sarà un paese da cui si ritorna.

    Lo czar aveva il diritto di pronunciare queste parole con fierezza, perchè ha spesso mostrato colla sua clemenza che la giustizia russa sa perdonare.

    Il gran mastro di polizia nulla rispose, ma era evidente che non amava le mezze misure. A parer suo un uomo che avesse passato i monti Urali fra i gendarmi non doveva più ripassarli. Ora così non accadeva sotto il nuovo regno, con sincero sconforto del gran mastro di polizia. Come! Non più condanne a perpetuità per altri crimini che per quelli di dritto comune? Come! esiliati politici tornavano da Tobolsk, da Iakutsk, da Irkutsk! In verità il gran mastro di polizia, avvezzo alle decisioni autocratiche degli ukasi che mai non perdonavano, non poteva ammettere questa maniera di governare; ma tacque egli, aspettando che lo czar lo interrogasse di nuovo.

    Le domande non si fecero aspettare.

    — Ivan Osgareff, domandò lo czar, non è rientrato altra volta in Russia dopo quel viaggio nelle provincie siberiane, viaggio di cui rimase ignoto il vero scopo?

    — Vi è rientrato.

    — E dopo il suo ritorno la polizia ne ha perdute le traccie?

    — No, sire, perchè un condannato non diventa propriamente pericoloso se non dal giorno in cui gli fu fatta grazia.

    La fronte dello czar s’abbuiò un istante. Forse il gran mastro di polizia potè temere d’essere andato troppo oltre, benchè la sua ostinazione nelle proprie idee fosse almeno pari alla devozione senza limiti che avea per il suo signore; ma lo czar, sdegnando questi rimproveri indiretti circa la sua politica interna, proseguì brevemente la serie delle domande:

    — Ultimamente dov’era Ivan Ogareff?

    — Nel governo di Perm.

    — In qual città?

    — A Perm appunto.

    — Che faceva?

    — Sembrava disoccupato, e la sua condotta nulla aveva di sospetto.

    — Non era sotto la sorveglianza dell’alta polizia?

    — No, sire.

    — In qual tempo lasciò Perm?

    — Verso il mese di marzo.

    — Per andare dove?

    — Non si sa.

    — E da quel tempo si ignora che ne sia avvenuto?

    — S’ignora.

    — Ebbene, io lo so, rispose lo czar. Avvisi anonimi, senza passare per gli uffici della polizia, pervennero a me, e stando ai fatti che accadono ora al di là della frontiera, ho ragione di credere che fossero esatti.

    — Volete dire, sire, rispose il gran mastro di polizia, che Ivan Ogareff abbia mano nell’invasione tartara?

    — Sì, generale, e ti dirò io quello che tu non sai. Ivan Ogareff, dopo aver lasciato il governo di Perm, passò i monti Urali, entrò in Siberia nelle steppe kirghize, e colà tentò non senza fortuna di sollevare le popolazioni nomadi. Scese allora più al sud fino al Turkestan libero. Colà, nei kanati di Bukara, di Kokand, di Kunduze, trovò capi disposti a gettare le loro orde tartare nelle provincie siberiane ed a provocare un’invasione generale dell’impero russo in Asia. Il movimento fu fomentato in segreto, ed ecco, è scoppiato come folgore. Ora le vie e le comunicazioni fra la Siberia occidentale e fra la Siberia orientale sono rotte! In oltre Ivan Ogareff, assetato di vendetta, vuole attentare alla vita di mio fratello.

    Lo czar si era accalorato parlando e camminava a passi precipitosi. Il gran mastro di polizia nulla rispose, ma pensava fra sè e sè che nel tempo in cui gli imperatori di Russia non facevano mai grazia agli esiliati, i disegni di Ogareff non avrebbero potuto avverarsi.

    Passarono alcuni istanti, durante i quali egli stette in silenzio, poi accostandosi allo czar, che si era buttato sopra un seggiolone, disse:

    — Vostra Maestà ha dato senza dubbio ordini perchè l’invasione sia respinta al più presto?

    — Sì, disse lo czar. L’ultimo telegramma che potè passare da Nijni-Udinsk ha dovuto mettere in movimento le truppe di Yieniseisk, di Irkutsk, di Iakutsk, quelle delle provincie dell’Amur e quelle del lago Baikal. Al medesimo tempo i reggimenti di Perm e di Nijni-Novgorod ed i Cosacchi della frontiera si dirigono a marcia forzata verso i monti Urali; ma, disgraziatamente ci vorranno molte settimane prima che possano trovarsi in faccia alle colonne tartare.

    — Ed il fratello di Vostra Maestà, Sua Altezza il gran duca, che in questo momento è isolato nel governo di Irkutsk, non è più in comunicazione diretta con Mosca?

    — No.

    — Ma deve sapere, dagli ultimi dispacci, quali sono le misure prese da Vostra Maestà e quali soccorsi deve attendere dai governi più vicini a quello di Irkutsk.

    — Lo sa, rispose lo czar; ma ciò che ignora è che Ivan Ogareff, insieme colla parte di ribelle, deve fare quella di traditore, e che egli ha in lui un nemico personale accanito. È al gran duca che Ivan Ogareff deve la sua prima disgrazia, e ciò che vi ha di più grave è che quest’uomo non è da lui conosciuto. Il disegno di Ivan Ogareff è dunque di recarsi ad Irkutsk, e colà, con falso nome, offrire i proprî servigi al gran duca. E quando gli abbia carpito la fiducia, quando i Tartari abbiano investito Irkutsk, consegnare la città agli invasori, e colla città mio fratello, la cui vita è direttamente minacciata. Ecco quanto io so per mezzo de’ miei rapporti; ecco quanto il gran duca non sa e che è necessario che sappia.

    — Ebbene, sire, un corriere intelligente, coraggioso...

    — Lo aspetto.

    — E che faccia diligenza, aggiunse il gran mastro di polizia, perchè, permettetemi di dirlo, sire, è terra propizia alle ribellioni la terra siberiana.

    — Vuoi tu dire che gli esiliati possono far causa comune cogli invasori? disse lo czar non sapendosi vincere a questa insinuazione del gran mastro di polizia.

    — Che Vostra Maestà mi scusi, rispose balbettando il gran mastro di polizia, perchè era propriamente il pensiero che gli aveva suggerito il suo spirito inquieto e diffidente.

    — Io credo che gli esiliati abbiano più patriotismo, riprese a dire lo czar.

    — Vi sono in Siberia altri condannati, oltre gli esiliati politici, rispose il gran mastro di polizia, i colpevoli di qualche delitto!

    — Quelli, generale, te li abbandono! Sono il rifiuto dell’uman genere; non appartengono a nessun paese, ma il sollevamento, o meglio l’invasione, non è fatta contro l’imperatore, è contro la Russia, contro questo paese che gli esiliati non hanno perduta ogni speranza di rivedere. No, mai un Russo farà lega con un Tartaro per impedire d’un’ora sola la potenza moscovita!

    Lo czar aveva ragione di credere al patriotismo di coloro che la politica teneva per il momento lontani. La clemenza, che era il fondo della sua giustizia, quanto poteva dirigerne egli stesso gli effetti, i raddolcimenti grandi con cui aveva applicato gli ukasi, già tanto terribili, gli assicuravano che non si poteva ingannare. Ma, anche senza questo potente elemento di successo portato all’invasione tartara, le condizioni erano del pari gravissime, perchè era a temere che una gran parte dalla popolazione kirghiza si unisse agli invasori.

    I Kirghizi si dividono in tre orde, la grande, la piccola, la media, e contano circa quattrocentomila tende, ossia due milioni di anime. Di codeste diverse tribù, alcune sono indipendenti e le altre riconoscono la sovranità o della Russia, o dei kanati di Kiva, di Kokand e di Bukara, vale a dire dei più formidabili capi del Turkestan. L’orda media, la più ricca, è in pari tempo la più considerevole, ed i suoi attendamenti comprendono tutto lo spazio compreso fra i corsi d’acqua del Sara-Sou, dell’Irtyche, dell’Ichim superiore, il lago Hadisang ed il lago Aksakal. La grande orda, che occupa le regioni situate nell’est della media, si stende fino al governo di Omsk e di Tobolsk. Se dunque queste popolazioni kirghize si sollevavano, era l’invasione della Russia asiatica, e prima di tutto la separazione della Siberia all’est del Yenisei.

    È vero che codesti Kirghizi, molto novizî nell’ arte della guerra, sono meglio ladroni notturni ed aggressori di carovane che soldati regolari. Come ha detto il signor Levchine: «Una fronte serrata o un quadrato di buona fanteria resiste ad una massa di Kirghizi dieci volte più numerosa, ed un

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