Il medico dell'anima: Critica ragionata alla psichiatria contemporanea - Nuovi approcci ad ansia, depressione, panico, psicosi, fobie, stress da covid e disturbi di personalità per clinici e familiari
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Il medico dell'anima - Massimo Lanzaro
Introduzione:
il naufragio della psichiatria
In questa raccolta di saggi il mio tentativo è di immaginare ed illustrare la possibilità di un approccio diverso alla sofferenza psichica, diverso da quello pragmatico e talora brutale della cultura (nord)americana, differente da quello che viene erogato dai nostri malmessi servizi pubblici di salute mentale di questi tempi. Al contempo, auspico che questo possa essere una sorta di input preliminare per una anti-compartimentalizzazione delle branche del sapere nel nostro ambito, in cui neuroscienziati, cognitivisti, comportamentisti, neuro-biologi, psico-neuro-immunologi, neuropsicanalisti, umanisti, filosofi, psicofarmacologi, fenomenologi, clinici, managers, psicoanalisti freudiani, ortodossi e non (e la lista sarebbe molto più lunga) sono racchiusi
nella propria nicchia di sapere, custodendo gelosamente segreti che, se fossero debitamente integrati, porterebbero probabilmente ad una reale rivoluzione anche culturale, di cui c’è ormai immenso bisogno se si ha a cuore l’autentica cura delle persone.
In un film di Ingmar Bergman, Il posto delle fragole
, un grande medico a fine carriera sogna di rifare l’esame di Stato. Gli viene chiesto: «Qual è il primo dovere di un medico?», ma lui non sa rispondere. «Eppure – insistono i commissari – è semplice: il primo dovere di un medico è chiedere perdono».
Perché e a chi il professor Borg avrebbe dovuto chiedere perdono? Forse, anche se era stato un luminare, doveva scusarsi con i collaboratori che non aveva mai ascoltato e con i quali era stato rude e presupponente. Forse non aveva accettato i loro consigli arroccato com’era in un atteggiamento autoritario. Forse non li aveva difesi a sufficienza se ingiustamente accusati. Forse, per interessi personali, non si era dato sufficientemente da fare per migliorare la struttura che dirigeva. Forse era stato crudo coi pazienti e aveva pensato più all’aspetto economico della professione che a quello oblativo. Forse li aveva trascurati perché più sensibile alle sirene dei potenti, che gli avrebbero fatto fare carriera, conquistare posizioni importanti, assecondandoli nelle loro mire magari chiudendo gli occhi su situazioni poco chiare. Forse non si era mostrato attento alle angosce dei familiari degli ammalati, infastidito dai loro quesiti e dalla loro apprensione. Tutte supposizioni certamente, ma quella risposta data è estremamente stimolante, attuale e calzante per chi, in quanto medico, dovrebbe sempre riflettere sul senso del suo lavoro, qualsiasi ruolo occupi e sugli errori fatti o possibili nella quotidianità.
La mia personale interpretazione di quella risposta è leggermente diversa. Credo che le terapie che sono state somministrate nel corso della storia della psichiatria oggi siano considerate non-scientifiche, se non addirittura inumane. Fra cento o cinquecento anni, qualcuno ripenserà alle terapie che oggi somministriamo secondo scienza e coscienza, in pieno accordo con le più aggiornate linee guida. E forse (chi può dirlo) ci reperirà elementi non congrui, non scientifici, forse addirittura inappropriati. Ecco perché, a prescindere, forse, ogni medico dovrebbe malgrado tutto chiedere perdono
.
Dalle cose che sarebbe impossibile cambiare dato lo stato dell’arte e delle conoscenze attuali, passiamo alle cose che invece auspicherei cambiassero quanto prima.
Innanzitutto eliminerei la parola psichiatria, almeno per due motivi.
Il primo è che l’etimologia del termine psiche
(dal greco ψv;χή, connesso con ψύχω, respirare, soffiare
) si riconduce all’idea del soffio
, cioè del respiro vitale; presso i greci designava l’anima in quanto originariamente identificata con quel respiro e iatros (iatro[dal gr. ἰατρός «medico»]. – Primo elemento di parole composte della terminologia medica e chimica, formate sul modello greco (come ἰατροτέχνης «esperto di medicina», ἰατρολογία «studio medico», ecc.), nelle quali significa «curativo, medicamentoso; della medicina»)¹ che etiologicamente significa curare l’anima, ed il termine anima
non compare nemmeno una volta nei manuali più accreditati (come del resto – detto a margine – non si legge mai in questi manuali la parola amore
, né la parola benessere
o ben d’essere
, come dice Vittorino Andreoli).
La seconda è il pregiudizio culturale, ormai radicato, che dallo psichiatra ci vanno i pazzi
. A parte lo stigma e l’insensatezza della parola pazzo
, secondo l’OMS una persona su due ormai assume regolarmente psicofarmaci. Dovremmo ipotizzare pertanto che la metà del mondo è impazzita, il che sarebbe piuttosto preoccupante.
Quale termine usare? Si potrebbe proporre: psiconeuroscientista, psiconeuroterapeuta, medico dell’anima (troppo romantico?), medico psicoterapeuta etc. In tal modo si farebbe un’allusione anche agli enormi progressi che le neuroscienze hanno compiuto, diventando ormai parte del bagaglio culturale del professionista della salute mentale (si chiama così) che sia almeno sufficientemente aggiornato.
C’è poi una branca della psichiatria inspiegabilmente sottovalutata e poco applicata in maniera congrua, sistematica ed adeguata nella gran parte dei servizi pubblici: la psicoeducazione. A chi non ha mai sentito questo termine sembrerà che parli dell’uovo di Colombo.
Si tratta di fornire informazioni nella maniera più adeguata alle famiglie ed ai familiari; troppo spesso, infatti, ci si dimentica di fornire queste spiegazioni: perché si è scelto un farmaco e non un altro ad esempio, a cosa serve e a cosa è mirato un intervento, cosa causa una malattia, ecc. questo dovrebbe essere fatto in termini comprensibili a chiunque, ma viene spesso omesso, liquidando il tutto con prenda questi farmaci e arrivederci
o comunicando in uno stringato medicalese
.
Spesso le famiglie e gli amici chiedono ai medici come dovrebbero comportarsi o parlare con una persona che si trova in uno stato di crisi o di difficoltà. In questi casi non ci sono regole fisse, tuttavia la mole di letteratura sugli accorgimenti che possono essere utili è ormai notevole, eppure pochissimi colleghi hanno il tempo di discutere questi aspetti importantissimi, che, appunto, sono un frammento di quella che si chiama psicoeducazione
.
Ecco ad esempio alcune domande frequenti (di familiari ed utenti) e risposte appropriate (che raramente vengono fornite):
Domanda (D.): Lo psichiatra Thomas Szasz afferma da decenni che la malattia mentale è solo un mito, che non ha alcuna base scientifica. Nessuno dei sintomi che la psichiatria afferma essere caratteristici della malattia mentale ha a che fare con il modo in cui funzionano gli organi dei suoi pazienti. Nessuno di questi sintomi può essere rivelato da indagini strumentali, analisi chimiche, radiografie.
Risposta (R.): ll fatto che non esistano test di laboratorio specifici o altri esami (TAC, RM) non rende fasulle
le diagnosi psichiatriche.
Innanzitutto non è vero che la psichiatria è l’unica branca della medicina che fa diagnosi non basate su markers biologici. Ad esempio, l’emicrania e la sclerosi multipla sono tuttora diagnosticate senza un reparto laboratoristico specifico:
• molte malattie venivano diagnosticate esclusivamente su sintomi patognomonici prima che esistessero test a supporto;
• la maggior parte dei test di laboratorio in medicina sono probabilistici e non patonognomici
marker di malattia;
• ipertensione e diabete sono oggetto di controversie per quanto riguarda le appropriate soglie patologiche
;
D. Dalla psicosi si guarisce? Oppure: quale è la prognosi?
R. È stato verificato che un esito complessivamente favorevole del disturbo non è un evento raro ma, anzi, può verificarsi in circa l’80% dei casi.
Infatti, quasi il 30% delle persone arriva a una guarigione clinica. Ritrova cioè una condizione di benessere con una totale assenza di sintomi e un pieno recupero del ruolo sociale e familiare.
Circa il 50% delle persone giunge a una guarigione sociale. Ottiene cioè, seppur in presenza di alcuni sintomi e della necessità di un moderato sostegno psicoterapeutico e farmacologico, un discreto adattamento alla vita e un accettabile recupero sociale.
Nel rimanente 20% dei casi non di parla di inguaribilità ma di resistenza al trattamento. Si riconosce cioè che gli strumenti terapeutici adottati si sono rivelati inadeguati oppure che non sono mutati i contesti sfavorevoli al trattamento. In questi casi non bisogna gettare la spugna e arrendersi ma, consapevoli dei limiti del trattamento precedente, ritentare un nuovo percorso terapeutico.
Queste cose, troppo spesso, vengono completamente omesse e/o ignorate nel colloquio con le persone che soffrono per problemi psichici.
A partire dagli anni Cinquanta le diagnosi e il trattamento delle malattie mentali si sono sempre basate su una fonte indiscussa, una sorta di Bibbia della psichiatria, cioè sul Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, di cui è stata recentemente pubblicata la quinta edizione. Il DSM è tutt’ora considerato la fonte più autorevole della psichiatria, sebbene sia un manuale esplicitamente ateoretico
, ovvero semplicemente descrittivo dei sintomi delle varie patologie. Nel DSM vengono descritti e classificati i sintomi e questo è stato finora sufficiente per fare diagnosi e somministrare trattamenti farmacologici. Da più parti, però, cominciano ad alzarsi voci di dissenso e, anche in ambiente psichiatrico, si reclama un rilancio della disciplina sia a livello medico sia a livello accademico, superando i vecchi schemi e sistemi, che in fondo poca strada hanno fatto dai tempi di Freud.
Come ho accennato prima, è curioso notare come la parola amore
non appaia (quasi) mai nel DSM in tutte le sue versioni (forse solo quando si menziona l’erotomania), dato che si tratta di un testo che parla di esseri umani e della loro psiche, della loro mente, della loro anima. È anche peculiare che nei vari Manuali Diagnostici e Statistici dei disturbi mentali non esista una definizione di normalità (dei parametri di riferimento, se vogliamo).
Varie ricerche hanno dimostrato che psichiatri e psicologi clinici non concordano a sufficienza nei giudizi di normalità. Per stabilire che cosa è normale e che cosa è patologico la scienza si basa su vari criteri, che riporto di seguito (lasciando il lettore libero di formare un’opinione personale sulla questione):
• Criterio statistico: è da considerarsi anormale ciò che è raro.
Questo criterio si scontra