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Storia del lavoro femminile. La Manifattura Tabacchi di Lucca, una fabbrica di pubblica utilità
Storia del lavoro femminile. La Manifattura Tabacchi di Lucca, una fabbrica di pubblica utilità
Storia del lavoro femminile. La Manifattura Tabacchi di Lucca, una fabbrica di pubblica utilità
Ebook374 pages3 hours

Storia del lavoro femminile. La Manifattura Tabacchi di Lucca, una fabbrica di pubblica utilità

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About this ebook

La Manifattura Tabacchi di Lucca fornisce agli studiosi un ampio e vasto terreno per approfondimenti, analisi e saggi. L’argomento della storia del tabacco, della sua diffusione e dell’uso, così come la “scoperta” lucchese, la fabbrica, il lavoro femminile che è declinato, in questo particolare opificio, dal mestiere artigiano e manuale delle sigaraie. 
Centinaia di donne che in una “fabbrica insalubre” costruiscono il futuro dei loro figli, che crescono nell’incunabolo, lo spazio che l’azienda ha creato per sostenere le madri e per non perdere l’esperienza delle donne sigaraie, difficili da sostituire. 
I grandi scioperi, la Prima guerra mondiale, il fascismo e la “resistenza” delle maestranze al saccheggio tedesco nel 1944, e poi ancora la pagina dedicata all’arrivo delle “polesi”, ovvero delle italiane costrette a lasciare Pola al momento della cessione delle terre istriane, dalmate e giuliane al regime slavo-comunista di Tito, giunte a Lucca dopo il 1947. 
Il saggio è occasione per ricostruire la storia delle leggi e delle normative che hanno mutato il lavoro femminile. Inoltre, in un’ampia rassegna di memorie, le donne dell’opificio raccontano “il piccolo” della vita quotidiana, la “boccalona”, la “fruga”, il pareggio delle medaglie.
La storia della Manifattura Tabacchi di Lucca è così storia di una città e dei suoi paesi. E grazie a questa, come alla Cucirini Cantoni Coats, la donna contadina lucchese si emancipò e si liberò.
LanguageItaliano
Release dateJul 20, 2021
ISBN9788832281705
Storia del lavoro femminile. La Manifattura Tabacchi di Lucca, una fabbrica di pubblica utilità

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    Storia del lavoro femminile. La Manifattura Tabacchi di Lucca, una fabbrica di pubblica utilità - Simonetta Simonetti

    Copyright

    Con il contributo della Fondazione Banca del Monte di Lucca.

    © Copyright Tralerighe libri

    © Copyright Andrea Giannasi editore

    Lucca Luglio 2021

    1° edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633).

    ISBN 978-88-32281-70-5

    I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet: www.tralerighelibri.com

    dedica

    "Piaccia o no alle signore, si denunci pure che appesta l’aria,

    rimane il fatto che niente, nemmeno il caffè, più del Toscano,

    è capace di stimolar la nostra intelligenza".

    (P. Coccoluto Ferrigni)

    A mia madre, una sigaraia.

    A tutte le sue compagne dei 42 anni di lavoro.

    CAPITOLO 1. STELLA DI STABBIANO

    Stella non aveva dormito bene quella notte, anzi, non aveva dormito proprio per niente. Il pensiero di quello che l’avrebbe aspettata il giorno seguente la faceva stare in un profondo stato d’ansia, una sorta di malessere sconosciuto che aveva un nome: la fabbrica. Quella parola le riempiva la bocca e la testa come un qualcosa di vischiosa sostanza, scivolava sulle bi che si abbandonavano sulla erre e ne prolungavano il suono. Quante volte l’aveva sentita ripetere dalla Giuse e da Elsa, che ne parlavano come se ne fossero padrone spavalde. Lei, terza femmina di nove figli, sarebbe andata a lavorare in fabbrica, avrebbe rinnegato il lavoro dei campi, l’orto, il pollaio, la pulitura dei cannicci che ospitavano i bachi; lei, Stella, avrebbe lasciato la casa silenziosa all’alba, percorso la lunga strada verso la pianura con la forza delle proprie gambe e sarebbe arrivata dopo diverse ore alla fabbrica. Questo sogno che faceva ad occhi aperti era diventato un’ossessione e non svaniva come fanno i sogni, al mattino.

    Da qualche giorno si sentiva addosso gli occhi di suo padre, una sensazione scomoda che la inseguiva in casa e fuori. A tratti provava una fastidiosa sensazione come se qualcosa di pesante si posasse su di lei per poi sparire di colpo come era arrivato.

    Era di poche parole suo padre: qualche mugugno, qualche frase secca di cui ti arrivava solo il suono, e da quello capivi i tempi da rispettare per assolvere ad un compito. Di chiacchieroni in casa c’era solo Renzo, il penultimo dei tre maschi. Studiava in seminario e assecondava la speranza segreta di Emma che, quando lo vide crescere così magrolino e diverso dagli altri sentenziò: «Questo lo facciam’ prete». Ma così non fu, e questa è un’altra storia. Il solo pensiero di lasciare casa per tante ore, quasi un giorno intero, aumentavano nello stomaco di Stella lo sciame delle farfalle che continuavano a crescere e a sbattersi addosso l’un l’altra. Non più odore di letame, di stalla, non più fatiche immense per le sue braccia deboli, non più calure estenuanti sotto il sole implacabile dell’estate che batteva sull’aia mentre tutta la famiglia e gli stagionali sistemavano i raccolti. Già pensava di trovarsi una qualche sistemazione in città e prolungare al massimo l’assenza da casa. Una frase di suo padre continuava a infastidirla e non riusciva a dimenticarla: «Le donne devono lavorare in casa e prendere marito». E sua madre aveva brontolato tra sé e sé: «Vecchio matto, attento, perché dove t’ho comprato ti rivendo!».

    Era già così lontana con la mente, e tutto doveva ancora cominciare.

    Avrebbe avuto soldi solo suoi, ogni quindicina, una somma che mai aveva ottenuto dalla migliore vendita delle uova. Che ci avrebbe fatto? Mah, tanti pensieri, tante idee e tanti sogni.

    Due mesi prima si era trovata di fronte alla Commissione tutta al maschile che le aveva rivolto poche parole, bensì lunghi sguardi invadenti. Si era sentita nuda, ma non si era mossa dalla sua posizione eretta, lasciando che le sue mani venissero toccate, alzate, soppesate ed esaminate.

    «Questa chi la manda?» sussurrò uno dei cinque al compagno vicino.

    «Mi sembra il suo parroco e anche il Dott. Freddi di cui il padre è mezzadro», rispose l’interpellato. E aggiunse: «Fossero tutte così carine queste campagnole! Peccato che dopo un po’ di fabbrica si sciupano e appassiscono. Comunque questa va bene: ha una mano corta, leggera, con dita affusolate ma ben dritte; farà degli ottimi sigari».

    Stella aveva sentito tutto, anche se continuava a starsene dritta davanti a loro con lo sguardo fermo sul tavolo dove teneva poggiate le mani.

    Quando era uscita non aveva detto una parola. Suo padre l’aveva presa a braccetto come una fidanzata e aveva rispettato quel silenzio fino all’ultima curva prima di casa: «Allora bimba, com’è andata, t’han preso?» e in quella domanda aveva cercato di mascherare, senza riuscirvi, il timore di sentirla rispondere.

    Stella lo guardò con tutto l’amore che lui le trasmetteva e rispose: «Sì, m’han presa, ma la sera torno a casa pappà».

    1.1 Il lavoro delle donne

    Stella non riusciva proprio a capire perché il suo voler andare a lavorare in fabbrica avesse dovuto causare tanto trambusto. Lavorava da sempre, ovvero da quando era stata in grado di raccogliere le uova, da sola, nel pollaio, e aveva dovuto pulire le incannicciate dove i bachi se ne stavano lì ingordi ad aspettare solo di mangiare. Oppure da quando, bimbotta robusta, suo padre l’aveva messa a pulire le pannocchie sotto il sole cocente con una pezzola in testa e un fiasco d’acqua. Anche sua madre aveva sempre lavorato. Non stava mai ferma se non la sera tardi, quando tutti erano a letto e lei si concedeva il silenzio della casa. Sua madre! Dove la nascondeva tutta quell’energia era un mistero. Una donnina secca secca, che nell’estate diventava nera nera, parlava poco, ma centrava precisa con le parole il bersaglio di turno. Non l’aveva mai vista sorridere e nemmeno piangere, però cantava, cantava continuamente con un ricco repertorio di melodie e di tonalità. Era quello il suo modo di parlare, di comunicare gli stati d’animo, la disapprovazione o il consenso. E da un po’ di tempo sua madre cantava le storie di lotta delle mondine.

    Stella era andata a scuola fino alla quinta elementare, la maestra fascistissima le aveva insegnato i canti del Regime, la geografia del Regime, la storia del Regime. Era stata una bambina quieta ma pronta a capire, e la maestra le aveva anche prestato la divisa per andare il sabato alla sfilata in città. Stella non sapeva se esserne contenta o esserne dispiaciuta, tuttavia era una bambina e quei vestiti così allettanti, puliti, stirati e profumati era perciò un piacere sentirseli addosso. In casa nessuno l’aveva presa in giro quando era arrivata con quella sottanina a pieghe blu, la camicetta bianca con il colletto schiacciato e il fazzoletto al collo. Sua madre aveva scosso la testa senza dire una parola, suo padre aveva attaccato il miccio al carretto con gesti rabbiosi e l’aveva quasi spinta per farla salire. Neanche una parola lungo la strada tra i castagni: le ginestre cominciavano a fiorire e la selva ai lati era una gioia per gli occhi.

    Era un ricordo lontano, ora, ma un bel ricordo nonostante tutto.

    Qualche mese fa era venuta in paese una donna di mezza età, aveva preso casa in fondo al paese, ci abitava da sola. La mattina andava via prestissimo in bicicletta e tornava nel pomeriggio inoltrato, entrava in casa, accendeva la radio e la sentivi cantare. La sera, d’estate, si sedeva fuori su una panca attaccata al muro della casa e, finché c’era luce, leggeva un giornale o un libro. Vedere una donna leggere: era una cosa strana, insolita, e Stella ne era incuriosita, tanto che trovava sempre una scusa per arrivare davanti a quella casa, finché una sera la donna aveva alzato la testa dal giornale, le aveva sorriso e l’aveva invitata a sedersi accanto a lei.

    Che rimescolio di emozioni nuove, sconosciute, ma che la facevano star’ bene!

    La sensazione di fare un qualcosa di sbagliato sovrastava le altre, si sentiva felice e nel contempo impaurita, le chiacchiere del paese le rimbombavano nelle orecchie: «Una donna sola? Chissà perché non è sposata? E dove andrà tutto il giorno? La domenica non va a Messa e non si vergogna di niente». Bollata, etichettata come un pacco di roba da buttare, nemmeno da scartare. Ma a Stella quella donna era piaciuta da subito, ovvero dalla prima volta che l’aveva vista alla bottega di Gino e l’aveva sentita parlare. Quando era uscita, la donna si era accesa una sigaretta, proprio lì davanti alle altre che l’avevano guardata con invidia abbassando subito gli occhi perché lei non ci potesse leggere.

    La donna si chiamava Marina, lavorava alla Manifattura Tabacchi, e non si era mai sposata perché – le aveva detto – stava bene così.

    I loro incontri diventarono una piacevole abitudine finché il tempo fu clemente con le fughe serali di Stella, ma quando cominciarono le piogge e le gelate divennero più sporadici. Non aveva scuse per uscire di casa, la porta si serrava appena veniva buio, e il pensiero le andava a Marina, al suo parlare quieto, a tutto quanto per lei era nuovo, sconosciuto, tenuto celato a lei, una femmina.

    Femmina, sì. Quella parola se l’era sentita dire quando, da piccola, voleva star fuori a giocare con i fratelli, e piangeva perché voleva andare a sedere con il padre sulle panche di chiesa dietro l’altare. L’aveva sentita anche quando sua madre – sì proprio lei! – gliela ripeteva di continuo come se avesse timore che la potesse dimenticare.

    «Le donne devono stare a casa a fare le faccende, a guardare i piccoli, i vecchi, gli ammalati e, tuttalpiù, possono uscire per andare in Chiesa o alla bottega».

    E che cavolo! Ora che aveva deciso di andare a lavorare in città, in una fabbrica enorme che già le sembrava di conoscere dai racconti di Marina, non sapeva se essere femmina l’avrebbe aiutata o, al contrario, le avrebbe creato mille difficoltà.

    In fabbrica la maggior parte erano donne, giovani, meno giovani, alcune già coi capelli bianchi ma sempre femmine come lei. Non aveva paura alcuna, glielo aveva detto Marina, le avrebbe fatto solo che bene.

    Il lavoro era faticoso, l’ambiente chiuso, maleodorante, enorme e poco illuminato, ma che importava? Non sarebbe mai stata sola.

    La sera prima di partire sua madre le aveva preso le mani con la consueta ruvidezza. Gliela aveva strinte con un’anomala carezza e, sottovoce, le aveva detto: «Brava bimba, vai a lavorare, conquista la tua libertà con la fatica, non ti far montare sulla testa, di’ sempre di sì e poi fai quello che ti pare. A sposarti c’è tempo, fallo solo se lo vuoi».

    A Stella sembravano un sogno quelle parole, perciò le dettero la forza che le mancava.

    Marina le aveva raccontato la storia di quella grande fabbrica di Stato, e gliene era grata.

    Con lentezza, ma con la caparbietà che le apparteneva fin da piccola, si era messa ad ascoltare la voce roca della donna senza stancarsi, lasciandosi riempire la testa di storie nuove, sconosciute, che piano piano si sistemavano con ordine l’una accanto all’altra in una sequenza sempre più logica e comprensibile.

    Storie di lavoro, di leggi, di contrasti: tutto era nuovo per Stella, cresciuta nella campagna di quel paesino collinare, dove le notizie arrivavano a rilento, quando arrivavano.

    Mai avrebbe pensato di sentire certe cose. Nata donna aveva accettato – come un po’ tutte – i pochi privilegi a lei riservati e i molti doveri come un fatto naturale, perciò sentire che c’erano leggi, scioperi, donne che lottavano per i diritti e passavano ore e ore a discutere la stordiva, anche se cominciava a capire. Capiva che il lavoro sarebbe stato duro ma che anche un veicolo prezioso per la vita futura. Quando Marina cominciò a raccontarle la storia della Manifattura Tabacchi, la vita interna e le lotte delle operaie, si sentì sempre più convinta della sua decisione. Era l’ottobre del 1941, alla vigilia del primo giorno di lavoro; avrebbe trascorso oltre quarant’anni in quell’imponente edificio vicino alle Mura Urbane che circondavano la sua città¹.

    1.2 Il lavoro… fuori casa! Il primo lavoro…

    Era una ragazza di campagna avvezza al lavoro come tutti quanti in famiglia. Non esisteva spreco di tempo, ed una forte gerarchia regolava i rapporti e i lavori; ruoli e luoghi di specifica appartenenza, inviolabili. Una sorta di matriarcato governava e condizionava il vivere quotidiano, al quale anche gli uomini sottostavano, almeno finché erano giovani.

    Braccia e gambe sempre impiegate a fare qualcosa di utile. Ma non sembrava un lavoro, voglio dire, un lavoro vero, anche perché nessuno veniva pagato.

    E quando arrivò quella mattina di inizio ottobre, Stella si sentiva confusa e frastornata, ma decisa a non cambiare idea.

    Era entrata così a lavorare alla Manifattura Tabacchi di Lucca nel 1941. Le sue mani, piccole e leggere, erano state giudicate adatte alla lavorazione manuale dei sigari; anche la sua avvenenza fisica contribuì all’assunzione².

    La fabbrica le apparve enorme, minacciosa e ostile, ma non la spaventava poiché la conosceva.

    Fece un lungo e profondo respirò. Decise che avrebbe resistito, che non avrebbe rimpianto il verde e l’aria della sua campagna, la compagnia della sua numerosa famiglia, le veglie serali e la pace consolatoria dei suoi boschi.

    Dopo aver fatto colazione, Stella era uscita fuori nell’aia. L’aria frizzantina d’autunno le faceva muovere dolcemente i capelli. Voleva riempirsi gli occhi di tutto quanto la circondava. Nelle camere al piano di sopra il resto della famiglia dormiva ancora.

    Mario si era alzato che era ancora buio perché avrebbe accompagnato Stella alla corriera che passava dalla statale: almeno per quella prima mattina voleva risparmiarle la fatica. Stella per l’occasione aveva messo le scarpe nuove, comprate con tante coppie di uova dall’ambulante che passava dal paese. Corti calzini bianchi le lasciavano scoperte le gambe snelle ancora abbronzate. Le calze erano uno dei suoi tanti sogni, ma fino ad allora erano rimaste tali.

    Respirava a bocca chiusa l’aria, lasciava che entrasse dentro di lei, poi la voce del padre la riportò alla realtà. Era l’ora, doveva partire. Incontrò gli occhi di sua madre: erano umidi, dolcissimi.

    Man mano che si avvicinava alla manifattura il cuore di Stella aumentava il battito. Le veniva in mente quanto raccontava Elsa, la quale lavorava già da tre anni in una fabbrica di filati. Angherie, soprusi, malcreanza e ritmi lavorativi insostenibili, giornate da incubo per un misero salario.

    Sapeva dove sarebbe dovuta andare: era stata assegnata al IV laboratorio sigari. Entrò nello spogliatoio, si spogliò dei suoi abiti, indossò la vestaglia marroncina e con una piccola cuffia bianca imprigionò i capelli. Un’anziana operaia alla quale era stata affidata la guardava in silenzio e attendeva pazientemente che la giovane fosse pronta. Era una donnina di età indefinibile. Qualche ciuffo di capelli grigi fuoriusciva dalla cuffia marroncina, aveva uno sguardo acuto, la vita di fabbrica le aveva insegnato a tacere e a far di testa propria. A quella giovane operaia avrebbe insegnato come sopravvivere, convivere e vivere tra tutta quella marea di donne.

    Stella si abituò ben presto al ritmo lavorativo, le sue mani lavoravano con agilità e leggerezza la foglia di tabacco e ne creavano sigari perfetti che nessuna verificatrice si sarebbe sognata di scartare.

    Quando usciva dal reparto, il suo tavolo di lavoro era perfettamente in ordine, raggiungeva il cottimo richiesto e riusciva anche ad aiutare le compagne meno abili. Non aveva più timore della grande fabbrica, si sentiva sicura e aveva preso confidenza con molte compagne. Ascoltava con attenzione quello che raccontavano: problemi familiari, miserie, malanni, amori traditi, etc. Si sentiva libera, padrona del suo tempo, che sapeva usare al meglio.

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